
Mettere a disposizione il proprio talento per trovare le risposte alle domande che ci pone il futuro. Cercare l’indipendenza per essere liberi di dedicare il proprio tempo alla crescita delle competenze degli altri.
Il “guru” italiano della guida autonoma, Sergio Savaresi, racconta la sua visione alla community di Skuola.netC’è un futuro fatto di auto che si guidano da sole, di macchine che arrivano entro due minuti dalla tua “chiamata”, ti portano dove vuoi e ritornano da dove sono venute… e magari nel percorso si fermano per dare un passaggio ad altri. C’è un futuro nel quale la mobilità che vediamo oggi scomparirà per lasciare il posto a veicoli a guida autonoma, al car sharing ed all’auto on demand. Quando arriverà tutto questo non è dato saperlo, ma sicuramente, se diventerà realtà, sarà per merito di persone come Sergio Savaresi, Professore Ordinario di Ingegneria dell’Automazione al Politecnico di Milano, che alla mobilità del futuro hanno dedicato la propria vita.
“Non credo che si debba parlare di ‘se’. È certo che tutto questo accadrà”, racconta Sergio. “L’automazione è un processo inarrestabile, continuo, progressivo. Ho iniziato a studiarla oltre trent’anni fa e si parlava di rendere automatiche alcune funzioni meccaniche di base. Poi siamo passati ai sistemi di assistenza alla guida - come ad esempio l’ABS, il sistema che aiuta le auto a frenare - e infine siamo arrivati a capire che anche i veicoli possono fare a meno dell’uomo. Lo studio e la ricerca si sono evoluti di pari passo con il progresso tecnologico e ormai le auto a guida autonoma sono una realtà, già oggi e sicuramente ancor di più nel prossimo futuro.”
- Grazie al PoliMove, un Team di autonomous motorsport che hai creato dentro il PoliMi, abbiamo l’auto a guida autonoma più veloce al mondo. L’Italia non sembra impreparata rispetto a questo scenario.
“Anni fa è stato lanciato un contest internazionale, l’Indy Autonomous Challenge, per portare le auto a guida autonoma a gareggiare come delle vere auto da corsa. Abbiamo organizzato un Team e, a oggi, abbiamo vinto tutte le gare disputate, superando università di tutto il mondo. I fatti dimostrano che, nel settore “racing”, siamo all’avanguardia, grazie ai nostri team di ricerca ed alle competenze dei nostri ingegneri. Ma, al di fuori dell’ambito corse, il contesto è ben diverso. Anche la Cina ormai ha tecnologie mature, pronte ad essere esportate in tutto il mondo.”
- Da che cosa dipende questo divario?
“Sicuramente la competitività economica cinese permette di abbattere i costi di ricerca e sviluppo. Ma esiste anche un gap culturale. La ricerca e l’innovazione comportano l’accettazione di rischi. Nel mondo occidentale per dare il via a sperimentazioni su larga scala pretendiamo il rischio zero: la guida autonoma non deve mai creare incidenti. Questa è una condizione che non si realizzerà mai (anche la tecnologia migliore può, ogni tanto, fallire) e così rallentiamo la diffusione delle nuove tecnologie. Nel frattempo accettiamo che muoiano, solo in Italia, ogni anno, oltre 3.000 persone per errori umani alla guida. L’automazione non garantirebbe zero incidenti, ma senz’altro contribuirebbe ad aumentare enormemente la sicurezza.”
- Come si arriva a “comandare” l’auto a guida autonoma più veloce al mondo?
“Difficile da dire… un mix di passione, determinazione e intuito. Se penso da dove sono partito, non sembra una strada così lineare. Oggi giro il mondo con facilità, parlo spesso inglese, mi confronto con persone di ogni cultura e provenienza. Ma il primo aereo l’ho preso a 25 anni e nella mia infanzia un viaggio per andare da Manerbio - il paese nel bresciano dove sono nato - a Milano era un evento!
La mia era una famiglia umile, i miei genitori insegnanti, con pochi mezzi economici ma solidi valori. Rispetto, impegno, studio, libertà, sono sempre stati al centro della mia educazione. Questo mi ha permesso di aprirmi al mondo con entusiasmo e con l’umiltà necessaria per imparare e fare tesoro degli insegnamenti necessari per migliorare giorno dopo giorno.”
- Penso che siano servite anche delle capacità… che tipo di studente eri?
“Nello studio ammetto di aver sempre avuto la vita facile: medie, liceo, università… tutto superato con voti eccellenti e con un impegno “nella norma”. Per questo ho deciso di continuare la carriera accademica ed iscrivermi al dottorato in Ingegneria dell’Automazione. Volevo consolidare ulteriormente le mie competenze, anche spinto da mio padre che mi spronava a investire sulla formazione: ‘Un lavoro lo potrai trovare anche dopo’, ripeteva sempre. A 26 anni mi sono ritrovato con un dottorato in mano, solide conoscenze e una seconda laurea in Matematica!”
- Un capitale importante: le porte per diventare professore, immagino, ti siano state spalancate…
“Sembrava un passaggio scontato, in effetti… però in quel momento sentivo la voglia di provare altro. Volevo sperimentare il mondo manageriale, la vita di azienda. Ero contento di lavorare in Università, ma sentivo di perdermi qualche cosa che mi avrebbe fatto crescere. Così ho accettato una proposta di McKinsey e sono diventato consulente.
Un’esperienza bellissima, entusiasmante, ricca di stimoli, che mi ha fatto imparare tantissimo nella gestione del business e delle relazioni personali. Lasciare la consulenza dopo neanche due anni è stata una delle scelte più “laceranti” della mia vita.”
- Che cosa ti ha spinto a lasciare la consulenza per l’Università?
“Dentro di me sapevo che volevo diventare Professore ed i tempi erano maturi per iniziare il percorso. Di contro in McKinsey stavo benissimo e non avrei mai voluto dover scegliere. Per un periodo sono riuscito a tenere insieme le due cose, ma non poteva durare: quando andavo in Università sentivo il “richiamo” della consulenza e viceversa.
Così mi sono forzato a prendere una decisione e l’ho fatto sulla base di uno dei valori che mi hanno trasmesso in famiglia: la libertà. Sapevo che in McKinsey avrei guadagnato di più e “fatto carriera”, ma soltanto l’Università mi avrebbe reso indipendente nel decidere di volta in volta su che cosa impegnarmi.
A 36 anni sono diventato Professore Ordinario ed ho potuto iniziare a decidere in autonomia dove spendere il mio tempo, le mie competenze, le mie relazioni.”
- È così che è nata la guida autonoma ed il PoliMove?
“Ho sempre avuto la passione per la meccanica in generale e per le auto in particolare. In famiglia non c’era l’idea della macchina come status symbol, anzi era ritenuta un oggetto strettamente funzionale. Ma quando con i miei amici gareggiavamo alla F1 con ‘le macchinine’ rimanevo affascinato e da lì è nata una mia passione.
Entrato in Università ho sempre provato ad entrare nel mondo del racing, ma tutte le volte che una tecnologia di automazione era pronta per essere applicata, i regolamenti la mettevano fuori gioco impedendo di utilizzarla per le competizioni.
Il contest sulla guida autonoma è stata la mia occasione di riscatto: una gara dedicata a veicoli autonomi, un vero sogno! Ho convinto il PoliMi che avevamo le competenze per giocarcela ed abbiamo creato il PoliMove che è al tempo stesso un po’ un centro di ricerca ed un po’ un racing team. Da un lato c’è il gusto della gara sportiva, dall’altro la consapevolezza che non conta vincere (certo… a noi piace di più quando vinciamo!), ma sviluppare innovazione e tecnologie utili per il nostro futuro.”
- Il futuro della mobilità appunto. Tu hai un punto di vista privilegiato per capire che cosa succederà. Come te lo immagini?
“La guida autonoma arriverà per tutti, questo è certo. Ma pensare che ciascuno di noi avrà in garage la sua macchina ‘che va da sola’ è sbagliato. La mobilità sarà completamente rivoluzionata, portandoci a rinunciare al concetto di proprietà ed a richiedere ‘on demand’ un’auto tutte le volte che ne abbiamo bisogno.
Il mezzo arriverà da solo, in pochi minuti, e ci porterà dove vogliamo. Al termine del viaggio non dovrò preoccuparmi del parcheggio, perché l’auto se ne andrà da dove è venuta, oppure a prendere un altro viaggiatore.”
- Detto così sembra “cool”, ma sappiamo bene che tutti vogliono l’auto quando serve…siamo sicuri che rinunceremo a questo privilegio?
“I nostri studi dimostrano che con un adeguato numero di veicoli in un raggio di 10km, riusciamo a garantire l’arrivo di un’auto entro due minuti dalla chiamata. Se ci pensi bene in due minuti non fai neanche in tempo a metterti la giacca per uscire!
Con questi livelli di servizio penso che molti rinuncerebbero volentieri ai costi ed alla scocciatura di avere una macchina di proprietà! Senza considerare poi i benefici sociali: oggi ogni auto sta ferma per il 90% del tempo ed abbiamo un numero di mezzi di molto superiore all’effettiva necessità.
Mettendo le auto in condivisione avremo molti meno veicoli ‘in giro’ con diminuzione del traffico, dell’inquinamento e tempi di percorrenza più certi.”
- Che consigli daresti ad uno studente che rimane affascinato dalla ricerca e decide di provare questa strada?
“Il primo consiglio è quello di impegnarsi in quello che si fa, anche se ci accorgiamo che non ci soddisfa pienamente. Impegnarsi è l’unico modo per imparare ed anche dalle esperienze negative si possono trarre lezioni utili. È fondamentale vivere ogni esperienza con il massimo impegno: quando sarà finita si potrà cambiare strada avendo la coscienza a posto ed un bagaglio di conoscenze più ricco.
Il secondo è quello di provare. Accogliere ogni sfida e valutare qualsiasi opportunità. Provare, impegnarsi, sbagliare, apprendere, riprovare… è una strada da ripetere più volte nella vita, fino a quando non troverai la tua passione.”
Questa intervista racchiude solo una piccola parte del pensiero di Sergio Savaresi. Per saperne di più, puoi seguire il suo profilo LinkedIn.
Gregorio Moretti
Sono nato nel 1980, laureato in Teorie della Comunicazione, da oltre 20 anni mi occupo di persone nelle aziende