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Sintesi

Schopenhauer e Kierkegaard



Essi sono entrambi autori romantici, ma sono esponenti di un romanticismo molto diverso da quello dell’idealismo, che nell’immediato, non ha avuto fortuna, ma che è stato rivalutato in tempi successivi, e in particolare la filosofia di Kierkegaard getta le basi di una corrente del 900 cioè l’esistenzialismo.
Schopenhauer

Contemporaneo di Hegel, è stato anche un suo collega accademico. Portavoce di una filosofia romantica, radicalmente diversa da quella hegeliana, animato anche da un senso di competizione, ostilità personale, nel confronti di Hegel.
Appartiene, come Hegel, alla prima metà del secolo, tuttavia rimane inascoltato fino alla fine dell’ottocento, quando si verifica una rinascita del pensiero di Schopenhauer. Egli viene spesso accostato a Leopardi.
Il testo di riferimento è “Il mondo come volontà e rappresentazione”, pubblicato nel 1819. All’interno di questo lavoro troveremo accenti platonici, riferimenti a Kant (grande maestro di Schopenhauer), la tradizione mistica, influssi orientalismo (la cultura dei veda, la filosofia indiana). L’attingere alla cultura orientale, riprende il romanticismo in quanto ideologia.

Dal titolo dell’opera capiamo già che ci sono due sezioni dell’opera: una che ci parla del mondo come volontà, e un’altra che ci parla del mondo come rappresentazione.
Il mondo come rappresentazione (1818)
“Il mondo è una mia rappresentazione”, dire questo significa recuperare la distinzione tra soggetto e oggetto che l’idealismo aveva negato. Ciò significa ritornare ad un’alterità tra realtà e pensiero, tra soggetto e oggetto, che l’idealismo aveva, invece, abbattuto.
1. Il soggetto:
• conosce la realtà attraverso delle forme a priori (Kant), le quali sono lo spazio e il tempo.
• unico, perché le forme a priori della rappresentazione (spazio e tempo) sono universali, come intendeva Kant
• si colloca al di fuori della rappresentazione, al di fuori dello spazio e del tempo; proietta, però, le forme della rappresentazione sulla realtà.
2. L’oggetto (realtà), rappresentazione:
• ciò che il soggetto conosce
• automaticamente costruito a seguito dell’intervento delle forme a priori della rappresentazione (oggetto di conoscenza del soggetto, il quale viene automaticamente costruito dall’incontro tra soggetto e oggetto. Il soggetto nel momento in cui si appresta a conoscere la realtà, vi proietta su di esse, le forme della rappresentazione.)
Si differenzia da Kant
Kant: forme a priori della sensibilità e non possono prescindere dal contenuto a posteriori, dal dato empirico.
Schopenhauer: forme a priori della rappresentazione, cioè hanno un potere costruttivo sulla realtà più alto. Esse vengono immediatamente proiettate sulla realtà. Di conseguenza, la realtà è una mia rappresentazione: ciò che il soggetto conosce così come è costruito dalle forme a priori della rappresentazione.

Pertanto, Schopenhauer, prende le distanze dal realismo, la filosofia degli antichi, che ammetteva la priorità dell’essere sul pensiero, ma critica anche l’idealismo. Tuttavia dice: “Niente è al di fuori della coscienza”, pertanto, tra le due filosofie, ritiene che quella idealista sia più corretta di quella realista, anche se dev’essere rimodellata, adeguata.

Il soggetto



➢ è uno, è unico, ed è necessario e sufficiente un unico soggetto empirico, uno di noi, per costruire il mondo come rappresentazione.
➢ della rappresentazione, ovvero il soggetto che conosce la realtà come una sua rappresentazione, costruita grazie alle forme a priori della rappresentazione, è unico.
➢ è al di fuori delle forme della rappresentazione, non le applica a se stesso, quindi il soggetto che conosce il mondo come rappresentazione, è inconoscibile, da un punto di vista teoretico.
Quindi, senza un solo soggetto empirico, il mondo come rappresentazione finisce.
→ Riferimenti Cartesiani, e a Berkeley → “l’essere è ciò che è percepito.”

Schopenhauer riconosce un equilibrio perfetto tra soggetto e oggetto, che non era riconosciuto da idealisti e realisti, e torna ad ammettere un’alterità tra realtà e pensiero: il pensiero è ciò che conosce la realtà come rappresentazione, grazie alle forme a priori, spazio e tempo, rispetto alle quali esso si trova al di fuori.
La fine di un solo soggetto empirico, determina la fine del mondo come rappresentazione. Quindi, il soggetto non può stare senza l’oggetto e viceversa.

Quest’ammissione di un equilibrio perfetto tra soggetto e oggetto ci permette di non riconoscere particolari differenze tra il sonno e la veglia: nel sonno noi proiettiamo una realtà che non può stare senza di noi, e noi, nel momento in cui dormiamo, non possiamo stare senza la realtà del sonno; anche nella veglia: c’è soltanto una diversa intensità delle nostre proiezioni sulla realtà, a seconda se noi dormiamo o siamo vigili.
Dice Schopenhauer: “Sul mondo come rappresentazione, così costruito dalle forme a priori della rappresentazione, interviene l’intelletto.” → L’intelletto è proprio di una categoria, quindi Schopenhauer riduce le 12 categorie kantiane a una sola: quella della causalità.
Questa categoria è principio di ragione sufficiente. Quindi, sulla realtà come rappresentazione, che non esiste al di fuori della coscienza, interviene l’intelletto che è dotato di un’unica categoria, quella della causalità, che è principio di ragione sufficiente; esso è ciò che è sufficiente per spiegare la realtà.
Questo principio è un principio che, prima di Schopenhauer, un altro filosofo ha impostato: Leibnitz. Egli è stato un grande filosofo razionalista, quindi della scuola di Cartesio; egli ha impostato il suo principio così: “Esiste almeno una spiegazione sufficiente per rendere ragione delle cose così come sono. Pertanto, è legittimo chiedersi il perché delle cose.”
Schopenhauer riprende questo principio, ma in quanto erede di Kant, è figlio di quella rivoluzione copernicana di cui abbiamo parlato con Kant. Quindi, egli condivide con Leibnitz la teoria secondo la quale vi è almeno una spiegazione sufficiente per dare ragione delle cose, che però non è nella realtà, è applicata dal soggetto. È l’intelletto che applica al mondo come rappresentazione quella ragione sufficiente per spiegare la realtà.
La categoria della causalità, l’unica appartenente all’intelletto, privato delle restanti 11 che Kant aveva ammesso, viene declinata dal soggetto in quattro forme diverse, per questo si parla di quadruplice radice del principio di ragion sufficiente. Definita tale poiché la categoria della causalità viene applicata dall’intelletto in quattro forme diverse. Questa quadruplice radice viene affrontata nel testo già citato, e anche in un altro precedente al primo, dal titolo “Della quadruplice radice del principio di ragion sufficiente”, che fu la sua tesi di laurea.
Quali sono le 4 forme in cui si declina il principio di ragion sufficiente?
1. Il principio di ragion sufficiente del divenire, il quale regola i rapporti tra gli oggetti fisici, della natura, stabilendo relazione di causa-effetto tra esse.
2. Il principio di ragion sufficiente del conoscere che regola i rapporti tra i giudizi, e quindi poste determinate premesse, ammette la necessità di trarre determinate conclusioni.
3. Il principio di ragion sufficiente dell’essere, il quale regola i rapporti tra le percezione spazializzate e temporalizzate, e garantisce la scientificità del sapere matematico, della forma dell’aritmetica e della geometria, alla maniera kantiana.
4. Il principio di ragion sufficiente dell’agire che stabilisce relazioni tra le azioni e le motivazioni che spingono le azioni. (Campo morale)

La visione del mondo come rappresentazione che ci propone Schopenhauer, il quale recupera l’impalcatura a priori che già Kant aveva impostato, descrive un mondo come rappresentazione regolato dalla più ferrea necessità: una necessità di tipo fisico, logico, matematica e infine etico, a seconda della forma in cui si declina il principio.
Per come Schopenhauer descrive il mondo dovrà necessariamente recuperare dalla filosofia kantiana anche il dualismo tra fenomeno e noumeno. Il mondo come rappresentazione è il fenomeno, la realtà così come appare, dietro alla quale si cela il noumeno, la realtà così com’è.
• La nozione di fenomeno e di noumeno assumono un significato diverso, perché in Kant il fenomeno è l’esito dell’incontro tra i trascendentali e il dato d’esperienza, ma è anche la sede della nostra conoscenza certa, della nostra conoscenza scientifica. Pertanto, il fenomeno non è inteso come qualcosa di negativo. Saranno i critici di Kant a ritenere disturbante la nozione di fenomeno. Mentre, per il filosofo, nel fenomeno c’è la garanzia della nostra conoscenza scientifica, della certezza. Quella certezza che Kant riscatta dallo scetticismo di Hume.
• Il noumeno è quel limite che non si potrà mai toccare per via teoretica.
In Schopenhauer assumono significati diversi: il fenomeno è sinonimo di inganno, illusione. Il concetto di fenomeno assume una connotazione fortemente negativa. Questo mondo è una costruzione ingannevole che nasconde la realtà delle cose. Schopenhauer usa un’immagine molto suggestiva per indicare il fenomeno, parlandoci del velo di Maya (filosofie orientali), recuperato dalla tradizione induista. → Gli dei sono celati dietro a un velo nelle filo orientali, che li rende non del tutto conoscibili all’uomo. Il fenomeno corrisponde al velo di Maya: questa barriera che ci ostruisce, impedisce di conoscere la realtà così com’è, il noumeno, che per Schopenhauer diventa sinonimo di essenza della realtà. Il velo nasconde la vera essenza della realtà, ciò per cui la realtà è quello che è, ossia il noumeno.
Tuttavia, esiste l’opportunità di squarciare il velo di Maya, e quindi accedere al noumeno, che quindi non risulta inconoscibile per l’uomo, può essere colto. In che modo?
C’è un passaggio, un varco sotterraneo che ci guida attraverso la conoscenza del noumeno. Questo varco coincide con un’autoanalisi del nostro corpo. È la prima volta in filosofia che il corpo viene considerato uno strumento di conoscenza, poiché prima era sempre in contrapposizione all’anima. L’essere umano è l’unico essere che è dato in duplice natura: da un lato è una rappresentazione in mezzo alle altre.
Visto dall’esterno ogni essere umano con il suo corpo è una rappresentazione in mezzo alle altre. Tuttavia, un ascolto interiore del nostro corpo ci permette di capire che il nostro corpo è sede di impulsi, istinti, desideri, piaceri e dolori. Istinti fortissimi che sono quelli che ci spingono a vivere. Ogni essere umano è dominato da una forza che spinge alla vita, che si incarna attraverso gli stimoli del corpo.
Questa forza Schopenhauer la chiama volontà di vivere. Un osservazione più attenta permette all’uomo di capire che la volontà di vivere non è solo l’essenza dell’uomo, ma di tutto il mondo. L’uomo è l’unico che può prenderne consapevolezza, l’unico che può avere accesso al noumeno, ma la volontà di vivere è l’essenza del mondo. Se noi dovessimo definire la volontà di vivere sulla base di ciò che ci spiega Schopenhauer, diremmo che è una forza istintuale, cieca, brutale, è unica, una e si incarna nel mondo declinandosi nei diversi esseri che compongono la nostra realtà a livelli diversi. Questa forza non ha senso, è irrazionale, non ha scopo se non quello di autorigenerarsi, rinnovarsi completamente, spinge tutto il mondo a vivere; in quanto eterna e auto-rigeneratrice è anche metafisica. Parlandoci di una volontà cieca, brutale di cui tutti siamo vittima, significa descrivere la realtà nella sua essenza, nella forma del più totale irrazionalismo.

Schopenhauer è un’irrazionalista, quindi la reazione anti-hegeliana si connota innanzitutto in una serie di proposte filosofiche che si fondano sull’irrazionalismo: l’ammissione di un’assenza di senso nella realtà. L’irrazionalismo risiede nell’ammissione di un noumeno, inteso come essenza della realtà, che coincide con la volontà di vivere, una forza cieca, brutale, irrazionale, priva di significato, priva di scopo, orientamento, che non sia quello di rigenerarsi continuamente, e che domina il mondo, non soltanto l’essere umano. Quindi, tutto il mondo è in balia della volontà di vivere, che si declina, si incarna nella realtà, innanzitutto nella forma irrazionale, ma anche nella forma della sofferenza.
Qual è il sintomo della volontà di vivere? Il dolore, la sofferenza. Tutto è sofferenza per Schopenhauer: il fiore che appassisce perché ha sete, l’animale che cerca da mangiare, l’essere umano che è colui che ha dentro di se’ la declinazione più alta della volontà di vivere, perché è colui che più bisogni, e quindi più sofferenze, più dolore, e non solo è colui, unico nel mondo, che è in grado di rendersi conto della volontà di vivere. e quindi, “la consapevolezza, l’intelligenza incrementa la sofferenza” → il genio è colui che è destinato a stare più male.

Dunque, la volontà di vivere si incarna in una gerarchia di esseri in lotta tra di loro per soddisfare la volontà di vivere, perché la loro espressione della volontà di vivere è solo a bassi livelli.
La pianta che spacca il cemento è volontà di vivere, così come il fulmine che spacca la notte (+gabbiano + neonato), e l’uomo è maggiormente volontà di vivere, per i motivi sopra trattati, tanto è vero che Schopenhauer ci offre una definizione dell’essere umano che spiega la maggiore presenza della volontà di vivere nell’uomo, il quale è animato da una varietà di spinte, di bisogni, di desideri, di mancanze, che vengono soddisfatte in maniera fugace, perché poi subentra un altro bisogno, o si rinnova quello che era stato appena soddisfatto, e quindi l’essere umano altro non è che un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia. Il piacere è un sopire temporaneamente questa forza brutale che, però, nel momento in cui viene soddisfatta, automaticamente si rinnova: il soddisfacimento lascia spazio alla noia e poi a un nuovo dolore.

Schopenhauer è un pessimista cosmico, e spesso viene accostato a Leopardi. Hegel, invece è uno stoicista, dialettico, e in quanto tale ottimista (paragone!).
Schopenhauer condanna tutte le forme di panlogismo, ottimismo, tipiche dell’idealismo hegeliano, per esempio si scaglia contro la visione della storia di Hegel. Non c’è niente di ordinato, nessun dispiegamento di Dio nel tempo. La storia non è altro che il ripetersi dello stesso dolore.
Poiché l’uomo è l’essere più infelice, ma è anche colui unico al mondo di avere consapevolezza della volontà di vivere, può ingaggiare delle vie che lo aiutano a emanciparsi, che sono due:
1. Via estetica:
Ci può permettere un sollievo dalla volontà di vivere, perché ci permette di distogliere l’attenzione da noi stessi per concentrarci sull’oggetto artistico che noi abbiamo di fronte. Ogni oggetto artistico è anch’esso incarnazione della volontà di vivere, ma nelle forme d’arte essa si declina in forma cristallizzata, in forma eterna.
Ogni oggetto artistico, dunque, è un archetipo universale, modello universale eterno in cui si oggettiva la volontà di vivere che noi abbiamo modo di osservare dall’esterno. Non la sentiamo più dentro di noi come qualcosa di cui siamo in preda. Ci distraiamo da noi e ci concentriamo su questo modello universale dove la volontà di vivere si cristallizza, la quale viene contemplata da noi dall’esterno e così facendo viviamo un’esperienza di tipo mistico. Questo ci permette una catarsi (=purificazione). Ci fondiamo con l’oggetto artistico di cui facciamo esperienza, contempliamo dal di fuori la volontà di vivere e ci eleviamo al di fuori della nostra esperienza vivendo un esperienza mistica e purificatrice, liberatrice.
Torna il tema dell’arte come forma di conoscenza e liberazione, emancipazione: conoscenza perché la sperimentiamo al di fuori di noi, come altro rispetto a noi; liberatrice per la sua forza catartica, mistica. → Platone: modello universale.

Non tutte le forme d’arte sono oggettivazione della volontà di vivere nella sua forma eterna, immutabile, congelata cristallizzata. Schopenhauer redige una sorta di gerarchia delle arti che parte dal livello più basso, l’architettura, per poi passare alla scultura, alla pittura e alla poesia. Il culmine è raggiunto dalla tragedia: il massimo grado di oggettivazione della volontà di vivere, perché è l’espressione del dramma della vita. Al di fuori di questa gerarchia si situa la musica: essa non può essere collocata all’interno di questa gerarchia perché è pura e non si oggettiva in nessuna forma, è la pura espressione della volontà di vivere: forma d’arte più alta, ma anche al di fuori perché non si incarna in nessun prodotto in senso stretto.
Già Aristotele sosteneva che l’arte avesse un potere catartico e, in particolare, riservava alla tragedia questa forza purificatrice.
• Musica romantica di riferimento: Verdi, dal Requiem “La messa dei morti”. In questo stesso pezzo Hegel ci vide l’incarnazione dello spirito che si auto-comprende e, Schopenhauer, la liberazione della volontà di vivere grazie all’esperienza del soggetto.
Qual è il limite dell’esperienza artistica?
Il fatto di essere effimera, fuggevole, circoscritta nello spazio e nel tempo, e non solo, poiché anche riservata a coloro che possono fruire dell’esperienza (no epoca di massa).
Pertanto, la via estetica, come via per la liberazione, è inadeguata, insufficiente.
2. Via etica, che ha come culmine l’ascesi (pensiero orientale):
La via etica è un itinerario che ciascuno di noi è chiamato a compiere che, però, non può essere portato a termine. Solo pochi ne raggiungono il culmine, raggiungendo così il culmine della liberazione dalla volontà.
Il nostro percorso etico è scandito da alcune tappe che cominciano con l’atteggiamento della giustizia. Ciascuno di noi deve riconoscere gli altri come depositari di diritti. Già nel suo primo momento, la vita etica, ci impegna a distogliere l’attenzione su di noi, e quindi sulla volontà che ci attanaglia, concentrandoci sugli altri. Si tratta di un primo gradino di un percorso ascensionale, e quindi migliorativo che ci permette di passare dalla giustizia alla bontà, che coincide con l’amore disinteressato verso gli altri che si individuano, riconoscono, come preda anch’essi della volontà di vivere. Schopenhauer dice che portiamo tutti la stessa croce.
La bontà è, però, superata dalla compassione. La compassione è una forma più elevata di bontà. Potremmo dire che si tratta di una forma universale di bontà. La bontà è circoscritta alle persone che ci sono vicine, mentre la compassione è una forma più ampia, universale. Si tratta del culmine del percorso etico, ma non ci garantisce di aver estirpato completamente la volontà da noi stessi. Quindi, anche chi riesce a raggiungere l’atteggiamento etico della compassione, vivrà sempre un momento, un’occasione in cui si sentirà ricacciato dentro la volontà di vivere.
C’è una forma ancora della compassione che può permetterci di estirpare la volontà di vivere, di tagliarla alla radice: l’ascesi.
→ Entriamo nuovamente in un discorso che è influenzato dalla cultura orientale.
Chi è l’asceta? Colui che, attraverso una serie di pratiche, riesce a spegnere la volontà di vivere.
Queste pratiche sono:
• La castità volontaria: ci permette di non rinnovarla, di non dare vita a nuovi esseri che sarebbero incarnazioni della sofferenza
• Il digiuno
• La mortificazione del corpo, il quale ci permette di squarciare il velo di Maya, e che è sede dei nostri impulsi e quindi dove si oggettiva di più la volontà di vivere.
La proposta ascetica ci invita ad asciugarci.
L’asceta che raggiunge il massimo livello di perfezione spegne, soffoca, annulla la volontà di vivere e raggiunge una condizione ideale che gli orientali il Nirvana, l’assenza di bisogno, l’elevarci una condizione che ci rende meno carnali. La versione occidentale del Nirvana è la “grazia”.
Quindi, grazia alla pratica ascetica, la volontà (voluntas) viene trasformata in noluntas, con il quale coincide il nirvana, la grazia, ovvero l’assenza di volontà.

Da questa proposta estetica, etica e poi ascetica, ovvero il culmine della via di liberazione, Schopenhauer esclude l’ipotesi del suicidio perché l’atteggiamento del suicida, è l’atteggiamento di chi asseconda la volontà di vivere, perché non la estirpa in alcun modo, anzi la asseconda, “gliela da vinta”.

Sia per il suo irrazionalismo, e per questa sua proposta ascetica, Schopenhauer è considerato un nichilista (Gorgia), quella filosofia che nega l’esistenza di valori assoluti e relativi, nega l’esistenza di ogni forma di valore. Il suo nichilismo influenzerà molto Nietzsche.
Egli, tuttavia, viene definito un nichilista passivo, proprio perché ci invita ad annullarci, spegnerci, tirarci indietro rispetto a noi. Invece, Nietzsche è un nichilista attivo, a partire dall’ammissione dell’assenza di valori che entrambi esprimono, Schopenhauer ci aiuta a ritrarci dal mondo, mentre Nietzsche ci inviterà a buttarci dentro l’insensatezza del mondo.
Schopenhauer è stato ricordato come uno dei grandi maestri del sospetto, coniata da un filosofo contemporaneo francese che si chiamava Paul Cleur che ha attributo quest’etichetta a degli autori, i quali dicono che dietro l’apparenza (velo di Maya), c’è qualcosa d’altro. La realtà è altro rispetto alla finzione della rappresentazione. Bisogna scavare dentro la nostra corporalità per capire qual è la verità. Dunque, sospettiamo del mondo come rappresentazione, andiamo oltre, tocchiamo il noumeno.

Søren Kierkegaard



È un esponente della corrente anti-hegeliana/idealista ed è un irrazionalista come Schopenhauer. Egli fa parte della generazione più giovane rispetto a quella di Hegel e Schopenhauer.
Il suo anti-idealismo si gioca meno su un piano personale rispetto a quello maturato internamente al pensiero di Schopenhauer.
Noi ritroviamo in Kierkegaard quella invettiva, quella critica propria a livello personale nei confronti di Hegel e degli altri idealisti accusati di essere dei cialtroni.
Anche il pensiero di Kierkegaard è un pensiero perdente nel quadro del clima romantico del primo 800 , comunque sempre figlio del romanticismo, ma il suo pensiero verrà rivalutato nel 900 dalla corrente esistenzialista, la quale sarà debitrice del pensiero di Kierkegaard.

Lui è danese, ma inserito nel quadro culturale tedesco (come Schopenhauer che era polacco).
Egli si trasferisce presto a Berlino, dove entra in contatto con la filosofia hegeliana da qui comincia quasi subito a prendere le distanze.
In Danimarca cominciò a studiare teologia, e inizialmente la sua vita sembra essere orientata verso una via da pastore protestante. Successivamente, prende le distanze da questo progetto in polemica con la chiesa Danese, accusata di non vivere l’autenticità del cristianesimo al suo interno.
La sua formazione religiosa caratterizzerà tutto il suo pensiero, cosa che in Schopenhauer non avevamo rilevato.
Schopenhauer è un metafisico, perché la volontà di vivere è metafisica ma non inserisce il suo pensiero nel quadro religioso, in Kierkegaard si sente che si strine nei suoi principali lavori.

Forte componente religiosa nella sua filosofia già presente nei testi:
1) “Aut-Aut” (la locuzione è latina) che significa “O, o” (1843)
2) “Timore e Tremore” (1843)
3) “Concetto di angoscia” (1844)
4) “Malattia mortale”
Qual è il punto di distanza più evidente tra la filosofia di Kierkegaard e quella di Hegel?
Questo punto di vista si riassume nella forte critica che Kierkegaard ha avanzato al tema dell’individuo.
➢ Per Hegel l'individuo ha significato solamente all’interno dello Stato, invece Kierkegaard dice che Hegel ha mortificato l’essere umano. Esso non riconosce a ciascuno di noi quella forte componente di originalità, unicità che ci connota. L’individuo agli occhi di Kierkegaard è stato trasformato ad un numero, una pedina nelle mani dello spirito, che si deve uniformare e adeguare al movimento progressivo e dialettico dello spirito.
Ciascuno di noi è portatore di talenti, ambizioni, unicità che ci rendono unici, ma ciò Hegel lo ha trascurato.
Hegel ha trattato l’uomo alla stregua degli animali, ovvero ha abbassato gli uomini al rango degli animali. Poiché nel mondo animale la specie vale di più dell’individuo: quando viene a mancare una persona si entra dentro un lutto per la perdita di quella persona che è irripetibile e unica; invece, la morte di una formica non è una perdita per la colonia .
Questa critica è fortemente influenzata dalla sua formazione cristiana, perché effettivamente è nel quadro del pensiero cristiano che si valorizza l’individuo in quanto tale.
La critica che Kierkegaard avanza viene giocata su piano filosofico, ma anche su piano morale, è indecente la dequalificazione che Hegel ha compiuto nei confronti dell’individuo ridotto ad una massa indistinta di determinazioni dell’assoluto.
Pertanto la filosofia di Kierkegaard si concentrerà sull’individuo che il filosofo indicava con il termine di singolo, si tratta di una parola chiave per la filosofia di Kierkegaard che esprime molto bene l’unicità di ognuno di noi. Concentrarsi sul tema del singolo significa spostare l’attenzione dall’essenza all’esistenza.
Fino ad adesso la storia della filosofia può essere considerata come una storia che indaga intorno all’essenza ovvero la natura più profonda di ogni essere, ciò per qui una cosa è quello che è la caratteristica universale che accomuna più così particolari.
Il primo a parlare di essenza fu Socrate, successivamente Platone (le idee).
Kierkegaard, è il primo autore che in maniera chiara sposta l’attenzione dall’essenza all’esistenza → l’essenza è ciò che accumuna più casi particolari, la natura intima che appartiene a ciascun essere. Kierkegaard sposta il punto di osservazione dall’essenza, astratta, al singolo. Parlare di singolo è valorizzarlo, nella sua unicità, e significa concentrarsi sull’esistenza, sull’esistere, sul vivere concreto

Ragionare intorno all’esistenza, porta Kierkegaard ad attribuire al singolo, come esistente, una serie di caratteristiche:
1) Categoria della possibilità → il singolo in quanto esistente è un’apertura al mondo:
è esposto a un’infinità di possibilità; invece per Hegel tutto è necessario in virtù di una legge dialettica che ci imprigiona.
2) Categoria della libertà → Hegel diceva che l’essere è libero solo se si uniforma le leggi dello Stato: per Kierkegaard la libertà è questa infinita apertura, è una condizione intrinseca di libertà che porta con sé la scelta.
3) Caratteristica della scelta → l’essere è continuamente chiamato scegliere, a compiere delle scelte; invece per Hegel tutto è determinato, logico e necessario → tutto ciò è molto pesante
4) Nella scelta è intrinseca la responsabilità → l’uomo di Hegel è fortemente deresponsabilizzato, se tutto è logico e determinato dalla legge dialettica, noi diventiamo una vera e propria pedina; Kierkegaard invece dice che ogni scelta comporta un rischio con delle conseguenze, rischiare significa accettare l’ipotesi del fallimento, poiché il futuro è ignoto.

Ogni scelta porta con sé anche la rinuncia (Aut-Aut): Hegel diceva che la dialettica si muove conciliando gli opposti (Et-Et) unendo anche un sentimento di angoscia che non abbandona mai il singolo, perché è costantemente inserita dentro le categorie.
Kierkegaard è pessimista, posizione completamente all’ottimismo Hegeliano

Il tema dell’angoscia verrà ripreso dall’esistenzialismo.

Il tema della scelta viene approfondito quando Kierkegaard ci parla degli stadi dell’esistenza, ovvero modi fondamentali di concepire e, quindi, di vivere la vita.

Sono delle condizioni esistenziali, fondamentali: sono le possibilità fondamentali che si pongono davanti a noi (alternative radicali) per una scelta:
1. Vita estetica → approfondita in Aut-Aut
2. Vita Etica
3. Vita religiosa → approfondita in “Timore e Tremore”

Esse sono inconciliabili, non paragonabili (Aut-Aut), quindi bisogna compiere “un salto” in uno di questi e buttarsi in una scelta.
1. Vita estetica
Forma di esistenza che cerca sempre di valorizzare il momento in quanto tale. Ogni momento e ripetibile, è uno solo.
L’esteta vive poeticamente, nell’avventura cercando di fuggire da tutto ciò che è banale per valorizzare ogni istante legato alla novità.
Non apprezza la ripetizione, la monotonia, una vita ordinata perché c’è del grigiore che l’esteta vuole eliminare; vuole allontanarsi andando alla ricerca dell’emozione.
La figura che rappresenta molto bene l’esteta è il “Don Giovanni” di Mozart che vuole sempre andare in cerca di emozioni nuove, di conquiste che gli permettono una continua sensazione di piacere, ma queste conquiste sono fugaci poiché non ne sceglie una. Il motto che esprime bene questo stile di vita è “Carpe Diem”.
In realtà la vita estetica rivela quasi da subito la sua sterilità, inadeguatezza, perché è difficile vivere quasi sempre a questi livelli di ebrezza, dopo un po’ è frustrante e, soprattutto, vi è una mancanza di costanza, di costruzione. La vita estetica è una serie di instanti slegati indipendenti che non costruiscono un obiettivo. Lo stesso Dongiovanni, ad un certo punto, capisce questa inadeguatezza perché non riesce a costruire qualcosa di stabile, e ciò porta alla noia. Così, anche il seduttore alla lunga si annoia. Pertanto, se rimaniamo ancorati nella vita estetica, saremo condotti alla disperazione. Per uscire da questa condizione esistenziale di noia e disperazione bisogna rompere lo schema della vita estetica. Ciò significa compiere un salto verso un’alternativa esistenziale differente, e quindi buttarsi dentro uno stadio esistenziale radicalmente diverso che non può essere paragonabile al primo (incommensurabile → non si può misurare).
Questo stadio esistenziale diverso in maniera abissale rispetto la vita estetica è quello della vita etica.

2. All’interno della vita etica il singolo sceglie di vivere la sua di libertà dominandola, e cioè organizzandola all’interno di regole.
Nell’ambito della vita etica la libertà si esercita attraverso la sua regolarizzazione all’interno di norme che lo stesso individuo si impone. Bisogna mantenere fede a queste norme responsabilmente.
La vita etica trova rappresentazione nella figura del marito: egli è colui che tra le infinite conquiste che ha avuto di fronte, ha scelto una donna con cui costruire un progetto di vita, dandole, quindi, un ordine, un obbiettivo, una costruttività. In questo il marito differisce dal seduttore.

Qual è l’abisso che separa l’esteta dal marito?
Il marito sceglie di “scegliere”, invece l’esteta rinuncia alla scelta, vi è solo la soddisfazione del momento. La visione dell’amore è diversa: per il seduttore è basato solo sul piacere del momento, invece per la vita etica è impegno e devozione.
Un’altra dimensione dove si esplicita la vita etica è quella del lavoro. La persona etica esprime la sua eticità anche nel lavoro che porta con se impegno, senso del dovere, responsabilità.
L’uomo etico adempie quotidianamente al suo dovere di lavoratore. Qui risentiamo molto l’accento della cultura protestante (senso del dovere).
Un’altra caratteristica che appartiene alla vita etica è quella della ripresa: ogni scelta e ogni regola che l’uomo etico decide di darsi, deve essere continuamente ripresa e confermata. È un impegno costante nella scelta fatta, rinnovo dell’adesione.
Questa continua ripresa della regola fa maturare uno scarto tra la nostra regola e la regola di un altro ma soprattutto una necessaria regola universale, ma anche uno scarto che si può giocare sul piano individuale ed esistenziale. Ad un certo punto la regola non mi sta più bene: vi è un senso di costrizione dentro la regola, quindi quello che è il mio volere individuale comincia a farsi largo dentro quello regola che io stesso avevo stabilito prima. Quindi, matura uno scarto tra volere e dovere, ovvero si sente un senso di costrizione nella regola.
Rompere la regola significa peccare, per esempio, il marito tradisce.
Fa maturare l’esperienza del peccato nella forma del tradimento.
Kierkegaard evidenzia la debolezza in ciascuno di noi. L’esperienza del peccato porta con se un sentimento, ovvero il senso di colpa e ciò matura la possibilità di un altro salto: la vita religiosa.

3. La vita religiosa non ha nessuna conciliabilità tra vita etica e vita religiosa, perché essere religiosi non significa essere etici.
La vita religiosa ci immerge nel massimo grado di razionalità.
Kierkegaard prende come modello della vita religiosa la figura di Abramo. Secondo la Bibbia, Abramo dopo aver vissuto per 70 anni una vita etica accanto alla sua sposa, ebbe un figlio e ricevette un comando da Dio, ovvero di sacrificare Isacco. Questo comando era scandaloso e andava contro le regole della morale, eppure Abramo obbedì.
Egli accettò il massimo grado di irrazionalità, accettò il massimo grado di rischio: si abbandonò a Dio rischiando infinitamente, andando verso l’ignoto.
La vita religiosa, se noi guardiamo la figura di Abramo, è una vita che ci obbliga ad abbandonarci a Dio senza considerare le regole della morale.
Pertanto, anche Kierkegaard è un’irrazionalista: la fede è uno scandalo, è un paradosso, eppure questa è la vita di Kierkegaard.
Tutto il cristianesimo si può leggere come una sordità, come un paradosso, poiché per aderire alla proposta cristiana bisogna buttarsi nell’ignoto.
Chi accetta la vita religiosa accetta il massimo grado di rischio e di angoscia.
La figura che meglio esprime l’assurdità, il paradosso è la figura di Cristo, Dio perché si incarna come uomo si immola sulla croce come un uomo.

Sant’Anselmo diceva di credere in Dio dal punto di vista logico. Kierkegaard, invece, dice di lasciarsi, è impossibile usare la ragione, la fede è irrazionalità. Infatti, egli è irrazionalista.

Come si può convivere con l’angoscia che porta con sé una scelta così pesante della vita religiosa?
Trovando rifugio nella nostra interiorità, cercando di istaurare un rapporto diretto con il divino, cercando Dio dentro di noi. Cercando dentro di noi quell’assoluto, l’infinito attraverso la preghiera, la riflessione interiore, raccogliendoci in solitudine, rinunciando alla comprensione razionale, ma cercando di metterci in contatto con Dio attraverso il sentimento. Questo è un punto romantico, sintomo di un’eredità che viene da lontano (Sant’Agostino e Lutero).

Nelle opere successive, Kierkegaard, approfondisce il tema dell’angoscia. Infatti, scrive un’opera chiamata “Il concetto di angoscia” e, nell’opera successiva, parla della dimensione del sentimento di disperazione.
L’angoscia è di profondissima fragilità, insicurezza e incertezza, in cui ciascuno di noi è strutturalmente inserito per il fatto stesso di essere. L’angoscia va di pari passo con la libertà ed è legata alla dimensione di futuro, che è sinonimo di ignoto.

Il passato non è causa di angoscia, a meno che questa non possa tornare. L’angoscia appartiene solo all’uomo perché è l’unico essere libero e, anche perché è consapevole della sua libertà.
Esistono però “i poveri di spirito” che vivono superficialmente e, quindi, sono fuori dall’angoscia, ma sono vittime degli eventi.
Chi vive più intensamente è destinato a mettersi di fronte a una sofferenza maggiore, però vive in maniera più profonda, esaltando la sua umanità.
Uno dei passi delle scritture, che secondo Kierkegaard spiega molto bene la dimensione dell’angoscia, è un passo del vangelo in cui, nel contesto della passione di Cristo, quest’ultimo dice a Giuda: (passo del Vangelo) “Quello che devi fare, fallo. Affrettati e fallo“. Passo che colpisce molto il filosofo, e che rende bene l’angoscia di ciò che deve arrivare. Dio si mostra ancora di più uomo.

Il sentimento dell’angoscia che appartiene all’uomo nel suo relazionarsi con il mondo ha un analogo sentimento che è quello della disperazione, che l’uomo prova se si relaziona con se stesso. Ciò ci porta alla disperazione sia se ci accettiamo come siamo (apertura, libertà, rischio, responsabilità, infinità fragilità…), sia che non lo accettiamo, siamo ugualmente all’interno della dimensione della disperazione. Cercare di rifiutare le categorie strutturali che ci appartengono significa urtare contro qualcosa di inevitabile.
Angoscia e disperazione sono sentimenti diversi, ma c’è un collegamento fra essi.
Estratto del documento

SCHOPENHAUER: forme a priori della rappresentazione, cioè hanno un potere

costruttivo sulla realtà più alto. Esse vengono immediatamente proiettate sulla

realtà. Di conseguenza, la realtà è una mia rappresentazione: ciò che il

soggetto conosce così come è costruito dalle forme a priori della

rappresentazione.

Pertanto, Schopenhauer, prende le distanze dal realismo, la filosofia degli antichi,

che ammetteva la priorità dell’essere sul pensiero, ma critica anche l’idealismo.

Tuttavia dice: “Niente è al di fuori della coscienza”, pertanto, tra le due filosofie,

ritiene che quella idealista sia più corretta di quella realista, anche se dev’essere

rimodellata, adeguata.

Il soggetto:

è uno, è unico, ed è necessario e sufficiente un unico soggetto empirico, uno

 di noi, per costruire il mondo come rappresentazione.

della rappresentazione, ovvero il soggetto che conosce la realtà come una

 sua rappresentazione, costruita grazie alle forme a priori della

rappresentazione, è unico.

è al di fuori delle forme della rappresentazione, non le applica a se stesso,

 quindi il soggetto che conosce il mondo come rappresentazione, è

inconoscibile, da un punto di vista teoretico.

Quindi, senza un solo soggetto empirico, il mondo come rappresentazione finisce.

Riferimenti Cartesiani, e a Berkeley “l’essere è ciò che è percepito.”

 

Schopenhauer riconosce un equilibrio perfetto tra soggetto e oggetto, che non era

riconosciuto da idealisti e realisti, e torna ad ammettere un’alterità tra realtà e

pensiero: il pensiero è ciò che conosce la realtà come rappresentazione, grazie alle

forme a priori, spazio e tempo, rispetto alle quali esso si trova al di fuori.

La fine di un solo soggetto empirico, determina la fine del mondo come

rappresentazione. Quindi, il soggetto non può stare senza l’oggetto e viceversa.

Quest’ammissione di un equilibrio perfetto tra soggetto e oggetto ci permette di

non riconoscere particolari differenze tra il sonno e la veglia: nel sonno noi

proiettiamo una realtà che non può stare senza di noi, e noi, nel momento in cui

dormiamo, non possiamo stare senza la realtà del sonno; anche nella veglia: c’è

soltanto una diversa intensità delle nostre proiezioni sulla realtà, a seconda se noi

dormiamo o siamo vigili.

Dice Schopenhauer: “Sul mondo come rappresentazione, così costruito dalle forme

a priori della rappresentazione, interviene l’intelletto.” L’intelletto è proprio di

una categoria, quindi Schopenhauer riduce le 12 categorie kantiane a una sola:

quella della causalità.

Questa categoria è principio di ragione sufficiente. Quindi, sulla realtà come

rappresentazione, che non esiste al di fuori della coscienza, interviene l’intelletto

che è dotato di un’unica categoria, quella della causalità, che è principio di ragione

sufficiente; esso è ciò che è sufficiente per spiegare la realtà.

Questo principio è un principio che, prima di Schopenhauer, un altro filosofo ha

impostato: Leibnitz. Egli è stato un grande filosofo razionalista, quindi della scuola

di Cartesio; egli ha impostato il suo principio così: “Esiste almeno una spiegazione

sufficiente per rendere ragione delle cose così come sono. Pertanto, è legittimo

chiedersi il perché delle cose.”

Schopenhauer riprende questo principio, ma in quanto erede di Kant, è figlio di

quella rivoluzione copernicana di cui abbiamo parlato con Kant. Quindi, egli

condivide con Leibnitz la teoria secondo la quale vi è almeno una spiegazione

sufficiente per dare ragione delle cose, che però non è nella realtà, è applicata dal

soggetto. È l’intelletto che applica al mondo come rappresentazione quella ragione

sufficiente per spiegare la realtà.

La categoria della causalità, l’unica appartenente all’intelletto, privato delle

restanti 11 che Kant aveva ammesso, viene declinata dal soggetto in quattro

forme diverse, per questo si parla di quadruplice radice del principio di ragion

sufficiente. Definita tale poiché la categoria della causalità viene applicata

dall’intelletto in quattro forme diverse. Questa quadruplice radice viene affrontata

nel testo già citato, e anche in un altro precedente al primo, dal titolo “Della

quadruplice radice del principio di ragion sufficiente”, che fu la sua tesi di laurea.

Quali sono le 4 forme in cui si declina il principio di ragion sufficiente?

1. Il principio di ragion sufficiente del divenire, il quale regola i rapporti tra gli

oggetti fisici, della natura, stabilendo relazione di causa-effetto tra esse.

2. Il principio di ragion sufficiente del conoscere che regola i rapporti tra i

giudizi, e quindi poste determinate premesse, ammette la necessità di trarre

determinate conclusioni.

3. Il principio di ragion sufficiente dell’essere, il quale regola i rapporti tra le

percezione spazializzate e temporalizzate, e garantisce la scientificità del

sapere matematico, della forma dell’aritmetica e della geometria, alla

maniera kantiana.

4. Il principio di ragion sufficiente dell’agire che stabilisce relazioni tra le azioni

e le motivazioni che spingono le azioni. (Campo morale)

La visione del mondo come rappresentazione che ci propone Schopenhauer, il

quale recupera l’impalcatura a priori che già Kant aveva impostato, descrive un

mondo come rappresentazione regolato dalla più ferrea necessità: una necessità di

tipo fisico, logico, matematica e infine etico, a seconda della forma in cui si declina

il principio.

Per come Schopenhauer descrive il mondo dovrà necessariamente recuperare

dalla filosofia kantiana anche il dualismo tra fenomeno e noumeno. Il mondo come

rappresentazione è il fenomeno, la realtà così come appare, dietro alla quale si

cela il noumeno, la realtà così com’è.

La nozione di fenomeno e di noumeno assumono un significato diverso,

 perché in Kant il fenomeno è l’esito dell’incontro tra i trascendentali e il dato

d’esperienza, ma è anche la sede della nostra conoscenza certa, della nostra

conoscenza scientifica. Pertanto, il fenomeno non è inteso come qualcosa di

negativo. Saranno i critici di Kant a ritenere disturbante la nozione di

fenomeno. Mentre, per il filosofo, nel fenomeno c’è la garanzia della nostra

conoscenza scientifica, della certezza. Quella certezza che Kant riscatta dallo

scetticismo di Hume.

Il noumeno è quel limite che non si potrà mai toccare per via teoretica.

In Schopenhauer assumono significati diversi: il fenomeno è sinonimo di inganno,

illusione. Il concetto di fenomeno assume una connotazione fortemente negativa.

Questo mondo è una costruzione ingannevole che nasconde la realtà delle cose.

Schopenhauer usa un’immagine molto suggestiva per indicare il fenomeno,

parlandoci del velo di Maya (filosofie orientali), recuperato dalla tradizione

induista. Gli dei sono celati dietro a un velo nelle filo orientali, che li rende non

del tutto conoscibili all’uomo. Il fenomeno corrisponde al velo di Maya: questa

barriera che ci ostruisce, impedisce di conoscere la realtà così com’è, il noumeno,

che per Schopenhauer diventa sinonimo di essenza della realtà. Il velo nasconde la

vera essenza della realtà, ciò per cui la realtà è quello che è, ossia il noumeno.

Tuttavia, esiste l’opportunità di squarciare il velo di Maya, e quindi accedere al

noumeno, che quindi non risulta inconoscibile per l’uomo, può essere colto. In che

modo?

C’è un passaggio, un varco sotterraneo che ci guida attraverso la conoscenza del

noumeno. Questo varco coincide con un’autoanalisi del nostro corpo. È la prima

volta in filosofia che il corpo viene considerato uno strumento di conoscenza,

poiché prima era sempre in contrapposizione all’anima. L’essere umano è l’unico

essere che è dato in duplice natura: da un lato è una rappresentazione in mezzo

alle altre.

Visto dall’esterno ogni essere umano con il suo corpo è una rappresentazione in

mezzo alle altre. Tuttavia, un ascolto interiore del nostro corpo ci permette di

capire che il nostro corpo è sede di impulsi, istinti, desideri, piaceri e dolori. Istinti

fortissimi che sono quelli che ci spingono a vivere. Ogni essere umano è dominato

da una forza che spinge alla vita, che si incarna attraverso gli stimoli del corpo.

Questa forza Schopenhauer la chiama volontà di vivere. Un osservazione più

attenta permette all’uomo di capire che la volontà di vivere non è solo l’essenza

dell’uomo, ma di tutto il mondo. L’uomo è l’unico che può prenderne

consapevolezza, l’unico che può avere accesso al noumeno, ma la volontà di

vivere è l’essenza del mondo. Se noi dovessimo definire la volontà di vivere sulla

base di ciò che ci spiega Schopenhauer, diremmo che è una forza istintuale, cieca,

brutale, è unica, una e si incarna nel mondo declinandosi nei diversi esseri che

compongono la nostra realtà a livelli diversi. Questa forza non ha senso, è

irrazionale, non ha scopo se non quello di autorigenerarsi, rinnovarsi

completamente, spinge tutto il mondo a vivere; in quanto eterna e auto-

rigeneratrice è anche metafisica. Parlandoci di una volontà cieca, brutale di cui

tutti siamo vittima, significa descrivere la realtà nella sua essenza, nella forma del

più totale irrazionalismo.

Schopenhauer è un’irrazionalista, quindi la reazione anti-hegeliana si connota

innanzitutto in una serie di proposte filosofiche che si fondano sull’irrazionalismo:

l’ammissione di un’assenza di senso nella realtà. L’irrazionalismo risiede

nell’ammissione di un noumeno, inteso come essenza della realtà, che coincide

con la volontà di vivere, una forza cieca, brutale, irrazionale, priva di significato,

priva di scopo, orientamento, che non sia quello di rigenerarsi continuamente, e

che domina il mondo, non soltanto l’essere umano. Quindi, tutto il mondo è in balia

della volontà di vivere, che si declina, si incarna nella realtà, innanzitutto nella

forma irrazionale, ma anche nella forma della sofferenza.

Qual è il sintomo della volontà di vivere? Il dolore, la sofferenza. Tutto è sofferenza

per Schopenhauer: il fiore che appassisce perché ha sete, l’animale che cerca da

mangiare, l’essere umano che è colui che ha dentro di se’ la declinazione più alta

della volontà di vivere, perché è colui che più bisogni, e quindi più sofferenze, più

dolore, e non solo è colui, unico nel mondo, che è in grado di rendersi conto della

volontà di vivere. e quindi, “la consapevolezza, l’intelligenza incrementa la

sofferenza” il genio è colui che è destinato a stare più male.

Dunque, la volontà di vivere si incarna in una gerarchia di esseri in lotta tra di loro

per soddisfare la volontà di vivere, perché la loro espressione della volontà di

vivere è solo a bassi livelli.

La pianta che spacca il cemento è volontà di vivere, così come il fulmine che

spacca la notte (+gabbiano + neonato), e l’uomo è maggiormente volontà di

vivere, per i motivi sopra trattati, tanto è vero che Schopenhauer ci offre una

definizione dell’essere umano che spiega la maggiore presenza della volontà di

vivere nell’uomo, il quale è animato da una varietà di spinte, di bisogni, di desideri,

di mancanze, che vengono soddisfatte in maniera fugace, perché poi subentra un

altro bisogno, o si rinnova quello che era stato appena soddisfatto, e quindi

l’essere umano altro non è che un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia. Il

piacere è un sopire temporaneamente questa forza brutale che, però, nel

momento in cui viene soddisfatta, automaticamente si rinnova: il soddisfacimento

lascia spazio alla noia e poi a un nuovo dolore.

Schopenhauer è un pessimista cosmico, e spesso viene accostato a Leopardi.

Hegel, invece è uno stoicista, dialettico, e in quanto tale ottimista (paragone!).

Schopenhauer condanna tutte le forme di panlogismo, ottimismo, tipiche

dell’idealismo hegeliano, per esempio si scaglia contro la visione della storia di

Hegel. Non c’è niente di ordinato, nessun dispiegamento di Dio nel tempo. La

storia non è altro che il ripetersi dello stesso dolore.

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