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Sintesi

Cartesio



I temi fondamentali della filosofia del Rinascimento, diventano nella filosofia di Cartesio i termini di un nuovo problema in cui sono coinvolti insieme l'uomo come soggetto e il mondo oggettivo. E' il fondatore del razionalismo, ossia di quella corrente della filosofia moderna che vede nella ragione il fondamentale organi di verità e lo strumento per elaborare una nuova visione complessiva del mondo.
Nacque nel 1596 a La Haye nella Touraine. Fu educato nel collegio dei gesuiti, dove entrò e rimase sino al 1612. Gli studi che egli fece in questo periodo furono da lui stesso sottoposti a critica nella prima parte del Discorso.
La prima intuizione del suo metodo l'ebbe nel 1619; la prima opera nella quale essa trovò espressione furono le Regole per dirigere l'ingegno. In questo periodo fu nella milizia e partecipò alla guerra dei 30 anni. Aveva cominciato a comporre un trattato di metafisica, riprese lo studio della fisica e gli venne l'idea di scrivere un trattato sul Mondo presentato poi come Trattato della luce.
La condanna di Galilei del 1633 lo sconsigliò dal pubblicare l'opera, nella quale sosteneva la dottrina copernicana. In seguito pensò di divulgare almeno alcuni risultati che aveva raggiunti; così nacquero i tre saggi la Diottrica, le Meteore e la Geometria ai quali premise una prefazione intitolata Discorso del metodo che pubblicò nel 1637. In seguito il trattato di metafisica fu ripreso per una redazione definitiva; nel 1640 l'opera fu inviata ad un gruppo di filosofi e teologi affinchè esponessero le loro osservazioni. Nel 1641 fu pubblicata con il titolo Meditazioni sulla filosofia prima intorno all'esistenza di Dio e all'immortalità dell'anima con l'aggiunta delle Obiezioni che le erano state rivolte e delle Risposte di Cartesio. Più tardi egli rielaborava il suo trattato del Mondo nmella forma di un sommario destinato alle scuole, Principi di filosofia. Morì nel 1650.

Il metodo



Il metodo che Cartesio cerca è nello stesso tempo teoretico e pratico: deve condurre a saper distinguere il vero dal falso, in vista dell'utilità e dei vantaggi che possono derivarne alla vita umana. Il metodo che cercò fin da principio e che ritenne d'aver trovato è una guida per l'orientamento dell'uomo nel mondo. Esso deve condurre ad una filosofia per la quale l'uomo possa rendersi padrone e possessore della natura. Filosofia che miri alla conservazione della salute la quale è il primo bene per l'uomo in questa vita. Il metodo deve essere un criterio unico e semplice di orientamento che serva all'uomo in ogni campo teoretico e pratico e che abbia come ultimo fine il vantaggio dell'uomo nel mondo. Nel formulare le regole del metodo si avvale soprattutto delle matematiche.
Non si tratta soltanto di prendere coscineza di questo metodo, cioè di astrarlo dalle matematiche e di formularlo in generale, per poterlo applicare a tutte le altre branche del sapere, si tratta anche di giustificare il metodo stesso e la possibilità della sua universale applicazione, riportandolo al suo fondamento ultimo, cioè all'uomo come soggetto pensante o ragione.
Cartesio doveva dunque:
1. Formulare le regole del metodo tenendo soprattutto presente il procedimento matematico nel quale esse già sono in qualche modo presenti.
2. Fondare con una ricerca metafisica il valore assoluto e universale di questo metodo.
3. Dimostrare la fecondità del metodo nella varie branche del sapere.
Sul primo punto, la II parte del Discorso, ci dà la formulazione delle regole del metodo. Esse sono quattro:
1. Regola fondamentale: l'evidenza, l'intuizione chiara e distinta di tutti gli oggetti del pensiero e l'esclusione di ogni elemento sul quale il dubbio fosse possibile.
2. Regola dell'analisi per la quale un problema viene risolto nella parti più semplici da considerarsi separatamente.
3. Regola della sintesi, per la quale si passa dalle conoscenze più semplici alle cose più complesse gradatamente, presupponendo che ciò sia possibile in ogni campo.
4. L'enumerazione controlla l'analisi, la revisione, la sintesi. Questa regola offre così il controllo delle due precedenti.
Cartesio deve quindi proporsi di giustificarle risalendo alla loro radice: l'uomo come soggettività o ragione.

Evidenza: accogliere come vero solo ciò che risulta
evidente, ossia chairo e distinto
Analisi: procedere dal complesso al semplice
Le regole del metodo:
Sintesi: risalire dal semplice al complesso

Enumerazione e revisione: enumerare tutti gli rlementi dell'analisi e rivedere tutti i passaggi della sintesi.

Trovare il fondamento di un metodo che deve essere la guida sicura della ricerca in tutte le scienze è possibile, secondo Cartesio, solo con una critica radicale di tutto il sapere già dato. Bisogna dubitare di tutto e considerare almeno provvisioriamente come falso tutto ciò su cui il dubbio è possibile. Se, persistendo in questo atteggiamento di critica, si giungerà ad un principio sul quale il dubbio non è possibile, questo principio dovrà essere ritenuto saldissimo e tale da poter servire di fondamento a tutte le altre conoscenze. In questo principio si troverà la giustificazione del metodo (dubbio metodico).
Cartesio ritiene che nessun grado o forma di conoscenza si sottrae al dubbio. Si può e si deve dubitare delle conoscenze sensibili sia perchè i sensi qualche volta ci ingannano e quindi possono ingannarci sempre, sia perchè si hanno nei sogni conoscenze simili a quelle che si hanno nella veglio senza che si possa trovare un sicuro criterio di distinzione fra le une e le altre. Ci sono conoscenze vere sia nel sonno che nella veglia, come le conoscenze matematiche, ma neppure queste conoscenze si sottraggono al dubbio perchè anche la loro certezza può essere illusoria. Finchè nulla si sappia di certo intorno a noi e alla nostra origine, si può supporre che l'uomo sia stato creato da un genio o da una potenza maligna che si sia proposta di ingannarlo facendogli apparire chiaro ed evidente ciò che è falso ed assurdo. In tal modo il dubbio si estende ad ogni cosa e diventa assolutamente universale (dubbio iperbolico).
Nel carattere radicale di questo dubbio si presenta il principio di una prima certezza. Io posso ammettere di ingannarmi o di essere ingannato in tutti i modi possibili; ma per ingannarmi o per essere ingannato io devo esistere, cioè essere qualcosa e non nulla. La proposizione 'io esisto' è dunque la sola assolutamente vera perchè il dubbio stesso la riconferma: può dubitare solo chi esiste.

Riguarda inizialmente le conoscenze sensibili
Dubbio metodico
Con l'ipotesi del genio maligno si estende a tutto,
comprese le matematiche e diviene
Dubbio iperobolico o universale: l'unica verità che si sottrae
al dubbio, in quanto il dubbio stesso la riconferma,
è il cogito ergo sum
E' reale certamente il mio pensare. La proposizione 'io esisto' equivale dunque ad 'io sono un soggetto pensante': cioè spirito, intelletto o ragione. Può ben darsi che ciò che io percepisco non esista, ma è impossibile che non esista io che penso di percepire quell'oggetto. Su questa certezza originaria, che è nello stesso tempo verità necessaria, deve essere dunque fondata ogni altra conoscenza.
Non si tratta come in Agostino, di stabilire la presenza trascendente della Verità (cioè Dio) nell'interiorità dell'uomo, si tratta di trovare nell'esistenza del soggetto pensante, il cui essere è evidente a se stesso, il principio che garantisce la validità della conoscenza umana e l'efficacia dell'azione umana sul mondo.

I contemporanei di Cartesio, colpiti dalla scoperta del cogito, lo discussero ampiamente. Qualcuno lo accusò di 'circolo vizioso', affermando che se il principio del cogito viene accettato perchè evidente, la regola dell'evidenza risulta anteriore allo stesso cogito, come fondamento della sua evidenza, per cui la pretesa di giustificarla in virtù del cogito diventa illusoria. Cartesio risponde affermando che non è vero che esso risulta evidente perchè conforme alla regola dell'evidenza, in quanto il cogito è la stessa autoevidenza che il soggetto ha di se medesimo.
All'accusa mossa da Gassendi, secondo cui il cogito sarebbe una forma di sillogismo abbreviato del tipo "Tutto ciò che pensa esiste. Io penso, dunque esisto", e quindi risulterebbe infondato, in quanto il principio "Tutto ciò che pensa esiste" cade preliminarmente, come tutto il resto, sotto il dubbio del genio maligno, Cartesio risponde che il cogito non è un ragionamento, ma un'intuizione immediata della mente.
L'osservazione di Hobbes, per cui Cartesio avrebbe senz'altro ragione nel dire che l'io, in quanto pensa, esiste, ma avrebbe torto nel pretendere di pronunciarsi su come esso esista, definendolo 'uno spirito, un anima'. In ciò Cartesio sarebbe simile a chi dicesse: "Io sto passeggiando, quindi sono una passeggiata". Infatti il quid che pensa, la sostanza di quell'atto che è il pensiero, potrebbe essere benissimo il corpo o il cervello, ossia qualcosa di materiale. Cartesio replica affermando: che l'uomo non passeggia costantemente, però pensa sempre, per cui il pensiero per lui risulta essenziale; che il pensiero indica talora l'atto del pensiero, talvolta la facoltà del pensiero, talvolta la cosa o sostanza con cui si indentifica tale facoltà. Per cui, in quest'ultimo caso, si può legittimamente parlare di una sostanza pensante, la cui essenza è appunto costituita dal pensiero.

Il principio del cogito non mi rende sicuro se non della mia esistenza ed evidenza, ma lascia ancora aperta la questione della altre esistenze ed evidente, sulle quali continua a gravare l'ipotesi del genio maligno. Io sono un essere pensante che ha idee (intendendo per idea ogni oggetto del pensiero). Io sono sicuro che tali idee esistono nel mio spirito perchè esse, come atti del pensiero, fanno parte di me come soggetto pensante. Non sono invece sicuro se a queste idee corrispondono realtà effettive fuori di me. Idee sono per me tutte le cose percepite dai sensi. Queste idee esistono nel mio spirito; ma esistono pure le cose corrispondenti fuori di me?
Per rispondere a questa domanda Cartesio divide tutte le idee in tre categorie: quelle che mi sembrano essere innate in me (innate); quelle che mi sembrano estranee o venute dal di fuori (avventizie) e quelle formate o trovate da me stesso (fattizie). Alla prima classe di idee appartiene la capacità di pensare e di avere idee; alla seocnda classe appartengono le idee delle cose naturali; alla terza classe infine le idee delle cose chimeriche o inventate. Ora per scoprire se a qualcuna di queste idee corrisponde una realtà esterna, non c'è altro da fare che chiedersi la possibile causa di esse.
Per quel che riguarda le idee che rappresentano altri uomini o cose, esse non contengono nulla di così perfetto che non possa essere stato prodotto da me. Per quel che riguarda l'idea di Dio, cioè di una sostanza infinita, eterna, onniscente, onnipotente e creatrice, è difficile supporre che possa averla creata io stesso. Io sono privo delle perfezioni che quell'idea rappresenta; e la causa di un'idea deve sempre avere almeno tanta perfezione quanta è quella che l'idea stessa rappresenta. La causa dell'idea di una sostanza infinita non posso essere io che sono una sostanza finita, questa causa dev'essere una sostanza infinita la quale deve essere ammessa come esistente. Questa è la prima prova dell'esistenza di Dio.
Si può riconoscere l'esistenza di Dio partendo dal fatto che il mio io ha natura finita. Io sono finito ed imperfetto come è dimostrato dal fatto che dubito. Ma se fossi la causa di me stesso, mi sarei date le perfezioni che concepisco e che sono appunto contenute nell'idea di Dio. E' dunque evidene che non mi sono creato da me e che non può avermi creato che Dio, il quale mi ha creato finito pur dandomi l'idea dell'infinito. A queste due prove ne aggiunge una terza che è la tradizionale prova ontologica. Non è possibile concepire Dio come Essere sovranamente perfetto senza ammettere la sua esistenza, perchè l'esistenza è una delle sue perfezioni necessarie. Come non si può concepire un triangolo che non abbia gli angoli interni uguali a due retti, così non si può concepire un essere perfetto che non esista. L'esistenza di Dio è richiesta, secondo Cartesio, dalla stessa durata della mia esistenza, poichè tutto ciò che non ha la causa in se stesso cesserebbe di esistere qualora la sua causa non continuasse incessantemente a crearlo. La creazione è continua.
Dio, essendo perfetto, non può ingannarmi; la facoltà di giudizio che ho ricevuta da lui, non puà essere tale da indurmi in errore, se viene adopertata rettamente. Tutto ciò che appare chiaro ed evidente deve essere vero, perchè Dio lo garantisce come tale. Dio è dunque, per Cartesio, quel terzo termine che ci permette di passare dalla certezza del nostro io alla certezza delle altre evidenze, secondo lo chema di fondo della sua metafisica:

Dall'io (= dalla mia evidenza) a Dio
Il procedimento di Cartesio:
Da Dio al mondo (= alle altre evidenze)
La veridicità divina è garanzia della validità del metodo: Dio esiste e non mi inganna; la ragione è vera; la verità sul mondo sono attendibili.

Ma com'è allora possibile l'errore? Esso dipende, secondo Cartesio, dal concorso di due cause, cioè dall'intelletto e dalla volontà. L'intelletto umano è limitato e noi possiamo infatti pensare un intelletto assai più esteso e addirittura infinito, quello di Dio. La volontà umana invece è libera e quindi assai più estesa dell'intelletto. Essa consiste nella possibilità di fare o non fare, di affermare o negare, e può fare queste scelte sia rispetto alle cose che l'intelletto presenta in modo chiaro e distinto, sia rispetto a quelle che non hanno chiarezza e distinzione sufficienti. In questa possibilità di affermare o negare ciò che l'intelletto non riesce a percepire chiaramente, risiede la possibilità dell'errore. L'errore non ci sarebbe mai se io dessi il mio giudizio solo intorno a ciò che l'intelletto mi fa concepire con sufficiente chiarezza e se mi astenessi dal dare il mio giudizio intorno a ciò che non è abbastanza chiaro. Ma poichè la mia volontà, che è libera, può venir meno a questa regola e indurmi a pronunciarmi su ciò che non è evidente abbastanza, nasce la possibilità dell'errore. L'errore dipende dunque unicamente dal libero arbitrio che Dio ha dato all'uomo e si può evitare soltanto attenendosi alle regole del metodo e in primo luogo a quella dell'evidenza. L'evidenza, avendo ormai ottenuta ogni garanzia (in quanto è risultata fondata sulla stessa veridicità di Dio) consente di eliminare il dubbio che è stato avanzato in principio sulla realtà delle cose corporee. Io ho l'idea di cose corporee che esistono fuori di me e che agiscono sui miei sensi. Quest'idea, essendo evidente, non può essere ingannevole: devono dunque esistere cose corporee corrispondenti alle idee che noi ne abbiamo.

Anche il discorso cartesiano su Dio è stato accusato di 'circolo vizioso', poichè il filosofo pretenderebbe di dimostrare Dio per mezzo dell'evidenza e l'evidenza per mezzo di Dio. Cartesio è stato tacciato di 'presunzione metafisica', poichè egli invoca Dio per giustificare ciò che, in fondo, ritiene già vero prima ed indipendentemente da Dio: il criterio generale dell'evidenza e le evidenze particolari. In tal modo la funzione di Dio, all'interno del conoscere, finisce per apparire inutile o pleonastica, poichè serve a giustificare delle evidenze che in realtà vengono preliminarmente ammesse proprio in quanto evidenti. Cartesio, difendendosi dalle accuse dei suoi critici, afferma talora che Dio, più che il garante della verità in se stessa, è il garante della permanenza della verità.
Per quanto riguarda le 'prove' di Dio fornite dal filofoso, esse sono apparse per lo più abbastanza fragili. Ad esempio le prime due si fondano sul presupposto, tutt'altro che scontato, della non-derivabilità empirica del concetto di perfezione assoluta. La terza prova è sostanzialmente una ripresa del tradizionale argomento ontologico, il quale, come si è già visto, non sembra possere quel carattere di 'verità incontrovertibile' che Cartesio vorrebbe attribuirgli.

Accanto alla sostanza pensante, che costituisce l'io, si deve ammettere una sostanza corporea, divisibile in parti, quindi estesa. Tale sostanza estesa non possiede tutte le qualità che noi percepiamo di essa. Cartesio da sua la distinzione già stabilita da Galilei che in realtà risale a Democrito. La grandezza, la figura, il movimento, la situazione, la durata, in numero, cioè tutte le determinazioni quatitative, sono qualità reali della sostanza estesa; ma il colore, il sapore, l'odore, il suono... non esistono come tali nella realtà corporea e corrispondono in questa realtà a qualcosa che noi non conosciamo.
Cartesio ha spezzato la realtà in due zone distinte ed eterogenee: la sostanza pensante, che è inestesa, consapevole e libera, da un lato e la sostanza estesa che è spaziale, inconsapevole e meccanicamente determinata dall'altro (= dualismo cartesiano). Ma dopo aver diviso, si trova di fronte al problema di riunire o di spiegare il rapporto scambievole fra queste due sostanze, rendendo intellegibile, per quanto riguarda l'uomo, la relazione fra anima e corpo.
Pensa di risolvere la questione con la teoria della ghiandola pineale (Epifisi), concepita come la sola parte del cervello che, non essendo doppia, piò unificare le sensazioni che vengono dagli organi di senso, che sono tutti doppo.

Res cogitans: inestesa, consapevole, libera Pur essendo eterogenee comunicano
tramite la ghiangola pineale (epifisi)
Res extensa: spaziale, inconsapevole, determinata

La fisica cartesiana, sulla base della separazione tra res cogitans e res extensa, potè attuare finalmente l'eliminazione dei residui finalistici, antropomorfici, animistici, magici e astrologici che ancora infestavano la fisica agli inizi del '600.
Il meccanismo cartesiano riuscì ad incidere profondamente nella formazione della mentalità scientifica della sua età, soprattutto in Francia.
Meccanicismo significa, determinismo. Una spontaneità della natura o una sua intrinseca casualità non sono ammissibili, poichè i fenomeni si svolgono secondo quel principio di oggettiva necessità causale, che è uno dei temi qualificanti della rivoluzione scientifica. Nel momento in cui la scienza fisica assume una struttura matematica, la necessità oggettiva si traduce inevitabilmente in una necessità logico-matematica, che ha il suo fondamento nelle leggi del pensiero; assunta, infatti, un'ipotesi, l'andamento di un fenomento può essere dedotto matematicamente da quella. Noi siamo consapevoli che la deduzione si limita ad esplicare ciò che è già implicito nell'ipotesi stessa, e non prescrive alla natura alcuna ulteriore legge del pensiero. Ma il successo del procedimento deduttivo generava l'illusione che l'evidenza soggettiva delle argomentazioni fosse di per sè garanzia della loro corrispondenza con la realtà esterna, indipendentemente da una conferma sperimentale. Cartesio, indotto da tale illusione, tende ad operare anche nella fisica, oltre che nella metafisica, quel salto dall'ordine logio all'ordine ontologico, che costituisce da sempre l'aspirazione ultima del razionalismo. Egli di fatto procede guidato dalla convinzione di poter cavare dalla propria testa le leggi che governano il mondo. Su questa base è ovvio, che dal mondo della nostra esperienza possiamo assumere come oggettive solo quelle proprietà che siano suscettibili di una trattazione geometrica, mentre le restanti proprietà che attribuiamo al mondo sono di natura puramente soggettiva. La geometria è perciò l'unica scienza fisica.

La geometria costituisce la più importante delle tre appendici del Discorso sul metodo ed è in qualche modo l'atto di nascita della geometria analitica.
Cartesio ritiene possibile unificare la geometria degli antichi con l'algebra dei moderni, con una revisione di ambedue le scienze. La geometria degli antichi, rimanendo ancorata ad un'immediata considerazione dei contenuti intuitivi, non riesce a cogliere i rapporti nella loro universalità e a sollevarsi al livello di generalità necessario ad un'impostazione sistematica della scienza. Anche la nuova scineza algebrica appariva un'arte confusa ed oscura, sia per l'uso di simboli inadeguati, sia perchè legata ad un rapporto di sudditanza alla geometria. Cartesio riordina la simbologia algebrica e abbandona l'immediata interpretazione geometrica dei procedimenti algebrici. L'algebra riorganizzata così in un linguaggio autonomo, diviene idonea a riprodurre in termini puramente formali a geometria, la quale a sua volta si offre come strumento di chiarificazione intuitiva dei procedimenti dell'algebra. Il numero e la forma divengono in tal modo traducibili l'uno nell'altra.

A Cartesio interessa soltanto fornire della realtà fisica un'interpretazione che renda possbile la trattazione matematica, senza che con questo egli si senta obbligato a svolgerla esplicitamente. La fisica cartesiana pretende di ricondurre tutta l'infinita varietà dei fenomeni del mondo fisico ai due soli ingredienti dell'estensione e del moto. L'una e l'altro hanno origine da Dio, cui si deve non solo la creazione della res extensa, ma anche il conferimento ad esse di una certa determinata quantità di moto, indistruttibile non meno della materia: due principi fondamentali di conservazione, del moto e della materia, immediatamente deducibili dall'immutabilità di Dio, dalla quale può derivarsi l'immutabilità di quanto egli opera. Altri interventi di Dio nel mondo, oltre al primo atto di creazione della materia e al primo impulso, non sono richiesti.
L'identificazione della materia con l'estensione comporta alcune conseguenze:
1. lo spazio euclideo è infinito e pertanto infinita è anche la sostanza estesa.
2. Lo spazio geometrico è inoltre infinitamente divisibile, la materia perciò non può essere costituita di atomi.
3. Lo spazio è continuo, non ammette interruzioni, buchi, di conseguenza non è concepibile il vuoto; l'estensione è l'attributo di una sostanza, e pertanto non può sussistere senza una sostanza cui inerire.
4. Le qualità che attribuiamo alla materia in addizione all'estensione sono puramente soggettive, perchè lo spazio è qualitativamente idifferenziato.
L'unico motore della grande macchina del mondo è costituito dall'originaria quantità di moto, che può distribuirsi in modo differenti tra i corpi attraverso gli urti. Viene bandita ogni forza attrattiva o repulsiva.
Due sole leggi dominano l'universo fisico: il principio d'inerzia ed il principio della conservazione della quantità di moto.

Da un vortice è avvolta la terra, come pure ciascun corpo celeste. Ma i vortici che avvolgono la terra ed i singoli pianeti ruotano a loro volta entro un più ampio vortice da cui è avvolto il Sole. Attraverso questo modello puramente meccanico Cartesio si lusinga di poter spiegare la gravità ed il moto di rivoluzione dei pianeti senza far ricorso alle forze a distanza. La teoria dei vortici, è priva di ogni elaborazione matematica.

Nella terza parte del discorso sul metodo, Cartesio aveva stabilito alcune regole di morale provvisoria. La prima regola provvisoria era d'obbedire alle leggi ed ai costumi del paese, conservando la religione tradizionale e regolandosi in tutto secondo le opinioni più moderate e più lontane dagli eccessi.
La seconda regola era d'essere il più fermo e risoluto possibile nell'azione e di seguire con costanza anche l'opinione più dubbiosa, una volta che fosse stata accettata.
La terza regola era di cercare di vincere piuttosto se stessi che la fortuna e di cambiare i propri desideri più che l'ordine del mondo.

Scriverà Le passioni dell'anima, che contengono anche spunti di etica. In questo scritto Cartesio distingue nell'anima azioni ed affezioni: le azioni dipendono dalla volontà, le afferzioni sono involontarie e sono costituite da percezioni, sentimenti o emozioni causate nell'anima dagli spiriti vitali, cioè dalle forze meccaniche che agiscono nel corpo. La forza dell'anima consiste nel vincere le emozioni e arrestare i movimenti del corpo che le accompagnano mentre la sua debolezza consiste nel lasciarsi dominare dalle emozioni, le quali, essendo spesso contrarie tra loro, sollecitano l'anima di qua e di là, portandola a combattere contro se stessa e riducendola nello stato più deplorevole. La tristezza e la gioia sono le emozioni fondamentali. Dalla prima infatti l'anima è avvertita delle cose che nuocciono al corpo così prova l'odio verso ciò che le causa tristezza e il desiderio di liberarsene. Dalla gioia invece l'anima è avvertita delle cose utili al corpo e così prova amore verso di esse e il desiderio di acquistarle o di conservarle. Le emozioni fanno quasi sempre apparire il bene ed il male che rappresentano assai più grandi e importanti di ciò che sono, ci inducono a fuggire l'uno e a cercare l'altro con più ardore di quanto convenga. L'uomo deve lasciarsi guidare non da esse, ma dall'esperienza e dalla ragione, e solo così potrà distinguere nel loro giusto valore in bene ed il male ed evitare gli eccessi. In questo dominio sulle emozioni consiste la saggezza. Si ottiene estendendo il dominio del pensiero chiaro e distinto e separando, per quanto è possibile, questo dominio dai movimenti del sangue e degli spirti vitali dai quali dipendono le emozioni e coi quali abitualemente è congiunto.

Appunti:
Cartesio vuole avere delle certezze, gnoseologiche, che possono guidare attività teoretica (= teorie) e pratica (= agire nei rapporti con gli altri) = scienza, etica, politica.
Elabora e giustifica le regole, tratte dalla matematica.
Idea = piano gnoseologico – DIVERSO – Realtà = piano ontologico
Estratto del documento

1. Regola fondamentale: l'evidenza, l'intuizione chiara e distinta di tutti gli oggetti del

pensiero e l'esclusione di ogni elemento sul quale il dubbio fosse possibile.

2. Regola dell'analisi per la quale un problema viene risolto nella parti più semplici da

considerarsi separatamente.

3. Regola della sintesi, per la quale si passa dalle conoscenze più semplici alle cose più

complesse gradatamente, presupponendo che ciò sia possibile in ogni campo.

4. L'enumerazione controlla l'analisi, la revisione, la sintesi. Questa regola offre così il

controllo delle due precedenti.

Cartesio deve quindi proporsi di giustificarle risalendo alla loro radice: l'uomo come

soggettività o ragione. Evidenza: accogliere come vero solo ciò che risulta

evidente, ossia chairo e distinto

Analisi: procedere dal complesso al semplice

LE REGOLE DEL METODO: Sintesi: risalire dal semplice al complesso

Enumerazione e revisione: enumerare tutti gli elementi dell'analisi e

rivedere tutti i passaggi della sintesi.

Trovare il fondamento di un metodo che deve essere la guida sicura della ricerca in tutte le

scienze è possibile, secondo Cartesio, solo con una critica radicale di tutto il sapere già dato.

Bisogna dubitare di tutto e considerare almeno provvisioriamente come falso tutto ciò su cui il

dubbio è possibile. Se, persistendo in questo atteggiamento di critica, si giungerà ad un

principio sul quale il dubbio non è possibile, questo principio dovrà essere ritenuto saldissimo e

tale da poter servire di fondamento a tutte le altre conoscenze. In questo principio si troverà

la giustificazione del metodo (dubbio metodico).

Cartesio ritiene che nessun grado o forma di conoscenza si sottrae al dubbio. Si può e si deve

dubitare delle conoscenze sensibili sia perchè i sensi qualche volta ci ingannano e quindi

possono ingannarci sempre, sia perchè si hanno nei sogni conoscenze simili a quelle che si

hanno nella veglio senza che si possa trovare un sicuro criterio di distinzione fra le une e le

altre. Ci sono conoscenze vere sia nel sonno che nella veglia, come le conoscenze matematiche,

ma neppure queste conoscenze si sottraggono al dubbio perchè anche la loro certezza può

essere illusoria. Finchè nulla si sappia di certo intorno a noi e alla nostra origine, si può

supporre che l'uomo sia stato creato da un genio o da una potenza maligna che si sia proposta

di ingannarlo facendogli apparire chiaro ed evidente ciò che è falso ed assurdo. In tal modo il

dubbio si estende ad ogni cosa e diventa assolutamente universale (dubbio iperbolico).

Nel carattere radicale di questo dubbio si presenta il principio di una prima certezza. Io posso

ammettere di ingannarmi o di essere ingannato in tutti i modi possibili; ma per ingannarmi o

per essere ingannato io devo esistere, cioè essere qualcosa e non nulla. La proposizione 'io

esisto' è dunque la sola assolutamente vera perchè il dubbio stesso la riconferma: può

dubitare solo chi esiste. Riguarda inizialmente le conoscenze sensibili

DUBBIO METODICO Con l'ipotesi del genio maligno si estende a tutto,

comprese le matematiche e diviene

Dubbio iperobolico o universale: l'unica verità che si sottrae

al dubbio, in quanto il dubbio stesso la riconferma,

è il cogito ergo sum

E' reale certamente il mio pensare. La proposizione 'io esisto' equivale dunque ad 'io sono un

soggetto pensante': cioè spirito, intelletto o ragione. Può ben darsi che ciò che io percepisco

non esista, ma è impossibile che non esista io che penso di percepire quell'oggetto. Su questa

certezza originaria, che è nello stesso tempo verità necessaria, deve essere dunque fondata

ogni altra conoscenza.

Non si tratta come in Agostino, di stabilire la presenza trascendente della Verità (cioè Dio)

nell'interiorità dell'uomo, si tratta di trovare nell'esistenza del soggetto pensante, il cui

essere è evidente a se stesso, il principio che garantisce la validità della conoscenza umana e

l'efficacia dell'azione umana sul mondo.

I contemporanei di Cartesio, colpiti dalla scoperta del cogito, lo discussero ampiamente.

Qualcuno lo accusò di 'circolo vizioso', affermando che se il principio del cogito viene

accettato perchè evidente, la regola dell'evidenza risulta anteriore allo stesso cogito, come

fondamento della sua evidenza, per cui la pretesa di giustificarla in virtù del cogito diventa

illusoria. Cartesio risponde affermando che non è vero che esso risulta evidente perchè

conforme alla regola dell'evidenza, in quanto il cogito è la stessa autoevidenza che il soggetto

ha di se medesimo.

All'accusa mossa da Gassendi, secondo cui il cogito sarebbe una forma di sillogismo abbreviato

del tipo "Tutto ciò che pensa esiste. Io penso, dunque esisto", e quindi risulterebbe infondato,

in quanto il principio "Tutto ciò che pensa esiste" cade preliminarmente, come tutto il resto,

sotto il dubbio del genio maligno, Cartesio risponde che il cogito non è un ragionamento, ma

un'intuizione immediata della mente.

L'osservazione di Hobbes, per cui Cartesio avrebbe senz'altro ragione nel dire che l'io, in

quanto pensa, esiste, ma avrebbe torto nel pretendere di pronunciarsi su come esso esista,

definendolo 'uno spirito, un anima'. In ciò Cartesio sarebbe simile a chi dicesse: "Io sto

passeggiando, quindi sono una passeggiata". Infatti il quid che pensa, la sostanza di quell'atto

che è il pensiero, potrebbe essere benissimo il corpo o il cervello, ossia qualcosa di materiale.

Cartesio replica affermando: che l'uomo non passeggia costantemente, però pensa sempre,

per cui il pensiero per lui risulta essenziale; che il pensiero indica talora l'atto del pensiero,

talvolta la facoltà del pensiero, talvolta la cosa o sostanza con cui si indentifica tale facoltà.

Per cui, in quest'ultimo caso, si può legittimamente parlare di una sostanza pensante, la cui

essenza è appunto costituita dal pensiero.

Il principio del cogito non mi rende sicuro se non della mia esistenza ed evidenza, ma lascia

ancora aperta la questione della altre esistenze ed evidente, sulle quali continua a gravare

l'ipotesi del genio maligno. Io sono un essere pensante che ha idee (intendendo per idea ogni

oggetto del pensiero). Io sono sicuro che tali idee esistono nel mio spirito perchè esse, come

atti del pensiero, fanno parte di me come soggetto pensante. Non sono invece sicuro se a

queste idee corrispondono realtà effettive fuori di me. Idee sono per me tutte le cose

percepite dai sensi. Queste idee esistono nel mio spirito; ma esistono pure le cose

corrispondenti fuori di me?

Per rispondere a questa domanda Cartesio divide tutte le idee in tre categorie: quelle che mi

sembrano essere innate in me (innate); quelle che mi sembrano estranee o venute dal di fuori

(avventizie) e quelle formate o trovate da me stesso (fattizie). Alla prima classe di idee

appartiene la capacità di pensare e di avere idee; alla seocnda classe appartengono le idee

delle cose naturali; alla terza classe infine le idee delle cose chimeriche o inventate. Ora per

scoprire se a qualcuna di queste idee corrisponde una realtà esterna, non c'è altro da fare che

chiedersi la possibile causa di esse.

Per quel che riguarda le idee che rappresentano altri uomini o cose, esse non contengono nulla

di così perfetto che non possa essere stato prodotto da me. Per quel che riguarda l'idea di

Dio, cioè di una sostanza infinita, eterna, onniscente, onnipotente e creatrice, è difficile

supporre che possa averla creata io stesso. Io sono privo delle perfezioni che quell'idea

rappresenta; e la causa di un'idea deve sempre avere almeno tanta perfezione quanta è quella

che l'idea stessa rappresenta. La causa dell'idea di una sostanza infinita non posso essere io

che sono una sostanza finita, questa causa dev'essere una sostanza infinita la quale deve

essere ammessa come esistente. Questa è la prima prova dell'esistenza di Dio.

Si può riconoscere l'esistenza di Dio partendo dal fatto che il mio io ha natura finita. Io sono

finito ed imperfetto come è dimostrato dal fatto che dubito. Ma se fossi la causa di me

stesso, mi sarei date le perfezioni che concepisco e che sono appunto contenute nell'idea di

Dio. E' dunque evidene che non mi sono creato da me e che non può avermi creato che Dio, il

quale mi ha creato finito pur dandomi l'idea dell'infinito. A queste due prove ne aggiunge una

terza che è la tradizionale prova ontologica. Non è possibile concepire Dio come Essere

sovranamente perfetto senza ammettere la sua esistenza, perchè l'esistenza è una delle sue

perfezioni necessarie. Come non si può concepire un triangolo che non abbia gli angoli interni

uguali a due retti, così non si può concepire un essere perfetto che non esista. L'esistenza di

Dio è richiesta, secondo Cartesio, dalla stessa durata della mia esistenza, poichè tutto ciò che

non ha la causa in se stesso cesserebbe di esistere qualora la sua causa non continuasse

incessantemente a crearlo. La creazione è continua.

Dio, essendo perfetto, non può ingannarmi; la facoltà di giudizio che ho ricevuta da lui, non puà

essere tale da indurmi in errore, se viene adopertata rettamente. Tutto ciò che appare chiaro

ed evidente deve essere vero, perchè Dio lo garantisce come tale. Dio è dunque, per Cartesio,

quel terzo termine che ci permette di passare dalla certezza del nostro io alla certezza delle

altre evidenze, secondo lo chema di fondo della sua metafisica:

Dall'io (= dalla mia evidenza) a Dio

IL PROCEDIMENTO DI CARTESIO: Da Dio al mondo (= alle altre evidenze)

La veridicità divina è garanzia della validità del metodo: Dio esiste e non mi inganna; la ragione è

vera; la verità sul mondo sono attendibili.

Ma com'è allora possibile l'errore? Esso dipende, secondo Cartesio, dal concorso di due cause,

cioè dall'intelletto e dalla volontà. L'intelletto umano è limitato e noi possiamo infatti pensare

un intelletto assai più esteso e addirittura infinito, quello di Dio. La volontà umana invece è

libera e quindi assai più estesa dell'intelletto. Essa consiste nella possibilità di fare o non

fare, di affermare o negare, e può fare queste scelte sia rispetto alle cose che l'intelletto

presenta in modo chiaro e distinto, sia rispetto a quelle che non hanno chiarezza e distinzione

sufficienti. In questa possibilità di affermare o negare ciò che l'intelletto non riesce a

percepire chiaramente, risiede la possibilità dell'errore. L'errore non ci sarebbe mai se io

dessi il mio giudizio solo intorno a ciò che l'intelletto mi fa concepire con sufficiente

chiarezza e se mi astenessi dal dare il mio giudizio intorno a ciò che non è abbastanza chiaro.

Ma poichè la mia volontà, che è libera, può venir meno a questa regola e indurmi a pronunciarmi

su ciò che non è evidente abbastanza, nasce la possibilità dell'errore. L'errore dipende dunque

unicamente dal libero arbitrio che Dio ha dato all'uomo e si può evitare soltanto attenendosi

alle regole del metodo e in primo luogo a quella dell'evidenza. L'evidenza, avendo ormai

ottenuta ogni garanzia (in quanto è risultata fondata sulla stessa veridicità di Dio) consente di

eliminare il dubbio che è stato avanzato in principio sulla realtà delle cose corporee. Io ho

l'idea di cose corporee che esistono fuori di me e che agiscono sui miei sensi. Quest'idea,

essendo evidente, non può essere ingannevole: devono dunque esistere cose corporee

corrispondenti alle idee che noi ne abbiamo.

Anche il discorso cartesiano su Dio è stato accusato di 'circolo vizioso', poichè il filosofo

pretenderebbe di dimostrare Dio per mezzo dell'evidenza e l'evidenza per mezzo di Dio.

Cartesio è stato tacciato di 'presunzione metafisica', poichè egli invoca Dio per giustificare

ciò che, in fondo, ritiene già vero prima ed indipendentemente da Dio: il criterio generale

dell'evidenza e le evidenze particolari. In tal modo la funzione di Dio, all'interno del

conoscere, finisce per apparire inutile o pleonastica, poichè serve a giustificare delle evidenze

che in realtà vengono preliminarmente ammesse proprio in quanto evidenti. Cartesio,

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