Indice
Digressione dal ricordo
Dante finge d'essere spinto alla «digressione» dal ricordo, mentre scrive il poema, dell'affettuoso incontro dei due mantovani e dal conseguente doloroso pensiero del contrasto tra l'affetto di quei due morti e la continua guerra tra gli italiani vivi: tra le città italiane, e addirittura tra i cittadini d'una stessa città.A questo punto, ci si deve domandare se veramente l'amor di patria, o più precisamente l'amore della patria piccola nella grande, sia qui il tema del poeta, o se non ne sia piuttosto il sottofondo (che è poi di tante pagine della Commedia); il tema specifico essendo invece le discordie civili e il male che ne deriva. La meditazione sulla grande storia sgorga dalla meditazione sulla piccola storia quotidiana di Firenze e di tutte le altre città italiane, e dal bruciore delle ferite sue proprie.
Dei 76 versi di cui complessivamente consta la «digressione», 47, cioè circa i due terzi, son dedicati direttamente alle discordie, e l'altro terzo rampogna i colpevoli di esse, i papi cupidi di potenza mondana e gli imperatori dimentichi dei loro doveri, e indica nell'Impero, garante imparziale di giustizia, l'unico rimedio possibile.
La terzina 76-78
La prima terzina (76-78) è un'apostrofe all'Italia, per la quale il poeta ricorre alla glossa giustinianea, l'Italia «non provincia sed domina provinciarum», che a sua volta risale alle Lamentazioni attribuite a Geremia (I 1): «Quomodo sedet sola civitas [Gerusalemme]... Facta est quasi vidua domina gentium, princeps provinciarum facta est sub tributo»: versetti che saranno riecheggiati da Dante anche poco dopo (113), quando parla di Roma «vedova e sola».Dunque la sacralità d'Italia e di Roma è proclamata con le parole più alte della religione e del diritto; alle quali il poeta contrappone, a reciproco risalto, una parola volgarmente cruda: «non donna di province, ma bordello». Si noti che il riferimento al diritto, implicito nella prima apostrofe, diventa esplicito nei vv. 88-90, ed è forse ripreso ancora nei vv. 139-141: le leggi giustinianee sono il fondamento dell'Impero, cioè dell'unità del mondo quale Dio la vuole.
L'Italia è «serva» perché non governata dall'imperatore: solo sotto il suo dominio l' «humanum genus... est potissime liberum» (Mn I xII 7-8; cfr. anche Ep VI 5).
I mali dell'Italia
Segue (79-87) la denuncia dei mali di tutta Italia, e quindi (88-96) quella dell'origine di essi: la padrona del mondo è ora come un cavallo che ha, sì, un morso, un freno, cioè le leggi, ma è senza cavaliere, avendola l'imperatore abbandonata a sé stessa, sì che è diventata selvaggia, non domabile da alcuno; i papi impediscono ai cesari di salire in sella; peggio ancora, si sforzano di guidare essi stessi il cavallo, ma, non essendo capaci d'inforcarlo, cercano di condurlo a mano: il cavallo, non corretto dagli sproni, recalcitra e s'imbizzisce.E' una concezione su cui si basa tutto l'edificio del poema, che troverà in Pg XVI 67-114, per bocca di Marco Lombardo, una formulazione analitica. Qui (97-105) essa si risolve in un terribile vaticinio: il «giusto giudicio» di Dio si abbatterà sull'imperatore che ha trascurato l'Italia: sia che si tratti d'un vero vaticinio, sia che, come è più probabile, quei versi siano stati aggiunti o modificati quando, con la morte precoce (1307) del primogenito, e l'uccisione a tradimento di lui stesso (1308), sembrò che davvero la mano del cielo avesse voluto punirlo. Comunque, si tratta d'una specie di maledizione, in quel tono biblicheggiante al quale il poeta ricorre quando affronta i grandi temi della sua religiosità politica.
Le misere condizioni dell'Italia
Egli ritorna poi (105-117) alle misere condizioni d'Italia: tutto vi è sconvolto, Roma piange; son tutti colpevoli, oltre agli imperatori e ai papi: le grandi famiglie, i «tiranni», cioè i signori, i reggimenti popolari, che Dante giudica demagogici; la nota saliente sempre la lotta interna: «Vieni a veder la gente quanto s'ama!»; ancora una volta la considerazione delle sventure italiane si conclude con un'invocazione a Dio (118-123).Non si vede perché essa sia sembrata ad alcuni eccezionale e quasi blasfema, mentre torna in forme diverse più volte: assai vicina a questa è la conclusione dell'invettiva contro i Capetingi (Pg XX 94-96).
In sostanza, è la riaffermazione, in forma particolarmente vibrata, di due motivi essenziali e consueti in Dante: la gravità delle condizioni umane e quindi la necessità assoluta d'un immediato intervento diretto di Dio (motivo che s'affaccia già in If I, nella profezia del veltro); e poiché questo tarda («son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?», 120), il rimettersi, pur nell'angoscia, alla sua imperscrutabile volontà («O è preparazion che ne l'abisso / del tuo consiglio....», 121-123).
L'amor per Firenze
Da queste alte vette religiose, che investono nel destino d'Italia quello di tutto il mondo, il discorso di Dante si volge a tema più ristretto, Firenze, e piega a toni dimessi, in cui l'amor per Firenze si riveste di doloroso sarcasmo e di pietà: il mite tono generale del Purgatorio era stato improvvisamente interrotto dall'invettiva, digressione anche per questo; ora riprende.Alcuni citano opportunamente un passo del Convivio (IV XXVII 11): «Oh misera, misera patria mia! quanta pietà mi stringe per te, qual volta leggo, qual volta scrivo cosa che a reggimento civile abbia rispetto!»: Firenze, sempre centro dell'immenso mondo di Dante. Essa è preda di ' villani', degli inurbati di recente, dei 'nuovi ricchi', insomma dei mercanti che osano contrastare Cesare; che pongono le ricchezze e il potere in cima ai loro pensieri.
A riscontro dei vv. 125-126, «e un Marcel diventa / ogne villan che parteggiando viene», e del v. 137, «tu ricca, tu con pace e tu con senno», è necessario ricordare If VI 74-75, secondo il qual passo «superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville» che hanno accesi i cuori dei Fiorentini, dilaniando la città, e If XVI 73-74, secondo cui «la gente nuova e i subiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata...».
Tutti parlano a Firenze di giustizia, ma nessuno la pratica, continua il poeta in questa sua 'digressione'; tutti ambiscono le cariche pubbliche senza avere le doti necessarie: ne consegue l'instabilità delle leggi, dell'economia, delle istituzioni, dello stesso costume. Quante volte, a memoria d'uomo, Firenze ha «mutato, e rinovate membre!» (147); ritorna il punctum dolens di Dante: l'esilio, non solo in quanto sventura personale, ma anche in quanto effetto della sventura di tutta la città.