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Indice

  1. Introduzione
  2. Il severo giudizio di Dante

Introduzione

La figura dell’abate S. Zeno è l’unico accidioso che Dante ha incontrato.
Il poeta non ci dice chi egli fosse, ma solo che visse sotto l'imperatore Barbarossa: gli eruditi moderni hanno scovato nei documenti un Gherardo II, la cui cronologia converrebbe al personaggio dantesco: ma non hanno trovato ancora nulla sulla sua accidia.

Probabilmente si tratta anche qui d'un episodio di clamorosa indolenza registrato in qualche repertorio di moralità, senza riferimento a S. Zeno (se questo ci fosse, l'episodio non sarebbe sfuggito ai dantisti), ma riferito a quell'abate da una tradizione forse viva a Verona, raccolta da Dante in questa città. Comunque, questo abate del secolo XII è figurativamente solo un'ombra: la sua vitalità consiste nell'invettiva che pronuncia, e che non ha nulla a che fare con l'accidia, contro un suo indegno successore Giuseppe della Scala, e contro il padre naturale di lui, Alberto, che abusando del suo potere lo aveva insediato in quel posto «in loco di suo pastor vero».

Fu un abuso: Giuseppe aveva appena 29 anni: oltre che bastardo, era «mal del corpo intero» (era zoppo), «e de la mente peggio»: «seminsanus», quasi pazzo, lo dice Pietro di Dante, che scriveva il suo commento a Verona, non molti decenni dopo i fatti: Alberto avrà presto occasione (mori nel 1301) di pentirsi di questo abuso religioso da lui perpetrato.

Questo dice Dante; nonché il problema è questo: Alberto era padre anche di Bartolomeo, Alboino e Cangrande: Bartolomeo fu, dice altrove (Pd XVII 70-93) il poeta, il « gran Lombardo» che a lui esule offrì il primo rifugio, esempio insigne di cortesia, perché dava senza aspettare di essere richiesto; sulle «magnificenze» e sul valore militare di Cangrande, poi, il poeta si sofferma a lungo nei versi successivi.

Il severo giudizio di Dante

Ci si domanda come mai Dante esprima così severo giudizio sul loro fratellastro. Si potrebbe pensare che i fratelli, e soprattutto Cangrande, tenessero a dividere la loro responsabilità da quella di Giuseppe, che pare fosse effettivamente un violento, di livello morale assai basso; non manca un documento, dei tempi di Cangrande, che potrebbe convalidare questa ipotesi.

Ma altro documento ci dice che col favore di Cangrande fu nel 1321 nominato abate di S. Zeno un altro bastardo, anzi addirittura un bastardo del medesimo abate Giuseppe! E Cangrande aveva probabilmente letto questi versi di Dante. D'altra parte, l'accusa di Dante coinvolge anche il padre suo e dei suoi fratelli, i benefattori del poeta; e in Cv IV xvi 6 si legge che l'altro fratello, Alboino, è più noto di Guido da Castello ma non per ciò più nobile: notazione che, senza essere propriamente negativa, non è certo elogiativa.

Non resta che pensare, come del resto generalmente si fa, alla programmatica (Pd XVII 106-142) indipendenza del poeta, di là dei suoi affetti e anche dei suoi interessi personali, quando si trattava di denunciare magagne di potenti; e qui si trattava, oltre che dello scandalo dell'indegnità dell'abate, anche d'un caso clamoroso d'indebita commistione del potere civile col religioso. Se il papa aveva unito al suo pastorale la spada, Alberto (e poi anche lo stesso Cangrande; ma Dante forse non seppe che Cangrande s'era macchiato dello stesso peccato di Alberto) aveva unito nella sua famiglia il pastorale alla spada; e ciò per ragioni solo dinastiche, economiche e politiche.

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