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Indice

  1. Introduzione
  2. I versi di riferimento 106-114
  3. Il concetto di 'giovinetto'
  4. Gli Atti

Introduzione

Il poeta dice che Stefano quando fu lapidato dai Giudei infuriati era «giovinetto» (107); fu primo lo Scartazzini, a trovare ciò in contrasto con gli Atti che narrano la lapidazione (Act. Ap. VI-VII) e che presenterebbero Stefano come un adulto; un divario che sarebbe nato da una confusione del codice che Dante leggeva o da un suo errore di lettura o di memoria: egli avrebbe attribuito a Stefano la qualifica di 'adulescens' che invece effettivamente si riferisce a Saulo (poi Paolo), nominato come presente all'episodio.

Secondo altri invece, e sono i più, il fatto sarebbe stato intenzionale: con esso il poeta avrebbe voluto accentuare, o per così dire rendere più visibile, la mansuetudine del martire, in contrasto con la ferocia dei suoi lapidatori.
Il problema è stato variamente analizzato e interpretato nelle sue conseguenze poetiche; ma in realtà non esiste; non c'è nulla, negli Atti, che faccia pensare a uno Stefano adulto, se non l'espressione «virum plenum fide», la quale può benissimo riferirsi a un giovane, e comunque 'vir' in questo caso vale genericamente 'persona".

I versi di riferimento 106-114

"Poi vidi genti accese in foco d'ira
con pietre un giovinetto ancider, forte
gridando a sé pur: « Martira, martira!».
E lui vedea chinarsi, per la morte
che l'aggravava già, inver' la terra,
ma de li occhi facea sempre al ciel porte,
orando a l'alto Sire, in tanta guerra,
che perdonasse a suoi persecutori,
con quello aspetto che pietà diserra.
"

Commedia, Purgatorio XV 106-114

Il concetto di 'giovinetto'

Del resto, con la parola «giovinetto» Dante designava non già un ragazzo ma un uomo sui 25 anni (cfr. Cv IV xxIv 1-3; Pd VI 52-53; in Pd XI 58-59 è detto che S. Francesco «giovinetto, in guerra / del padre corse», e aveva 24 anni). Negli Atti il poeta trovava, al contrario, qualcosa che lo guidava nella direzione della gioventù di Stefano: leggeva infatti che i membri del Sinedrio, dinanzi al quale era stato trascinato, videro «faciem eius tanquam faciem angeli» (VI 15); e gli angeli nessuno se li è mai raffigurati vecchi e neppure adulti.

Gli Atti

Il testo degli Atti dice che in punto di morte Stefano, piegate le ginocchia («positis...genibus»), invocò da Dio il perdono degli uccisori: ed è forse da intendere che egli s'inginocchio per pregare. Dante invece interpreta la frase evangelica come designante il cader giù del corpo di lui per effetto della morte sopravveniente, e sposta nel racconto, rispetto agli Atti, questo accasciarsi, facendolo coincidere con la visione celeste: in ambedue i casi è evidente l'intenzione del poeta di suscitare nei lettori pietà.

Il verso finale, «con quello aspetto che pietà diserra», interpretato secondo che e più probabile, riassume la scena appunto in modo che la pietà per il corpo martoriato prevale sull'ammirazione per la fortezza eroica della testimonianza e del perdono: pietà che il poeta attribuiva a coloro che assistettero al martirio nella Terra Santa e a sé stesso che vi assisté in «visione / estatica» nel Purgatorio.

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