Alfred71
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Concetti Chiave

  • Il canto XXXIII della Divina Commedia di Dante inizia con un tono epico, dove la bocca del dannato Ugolino diventa simbolo centrale, intensificando l'orrore e l'umanità del racconto.
  • Ugolino della Gherardesca, un conte pisano, fu tradito dall'arcivescovo Ruggieri, imprigionato e lasciato morire di fame insieme ai suoi figli e nipoti nella torre della fame, un evento che sottolinea tradimenti multipli.
  • Il sogno premonitore di Ugolino, in cui vede il suo destino e quello dei suoi figli, aggiunge una dimensione tragica e prefigura la loro crudeltà destinata, accentuando la disperazione del conte.
  • La narrazione del dolore e della morte dei figli di Ugolino mostra una profonda tenerezza paterna, contrastante con l'odio e la vendetta che permeano la sua figura, rendendo la scena particolarmente patetica.
  • Dante utilizza l'episodio per lanciare invettive contro Pisa e Genova, accusando entrambe le città di ingiustizie e malvagità, e condannando il tradimento e la corruzione che le caratterizzano.

Quel peccatore sollevò dal pasto feroce la bocca, pulendola con i capelli della testa che egli aveva roso nella parte posteriore.

Il canto XXXII si è chiuso su una nota di cupa attesa: dal modo in cui il Poeta si è rivolto al dannato che rodeva il teschio del suo compagno, e soprattutto dalle ultime parole da lui pronunciate (se quella con ch’io parlo non si secca), si è sprigionata un’intensa, trattenuta commozione. Il canto XXXIII inizia con un’intonazione epica, solennemente scandita, che riscatta l’orrido dei singoli particolari. "La bocca, così in cima al verso, ha un gran rilievo. E bocca, dove potrebbe dirsi anche testa, ha una convenienza particolare: l’anima di Ugolino è tutta nella bocca, e il pensiero di Dante spettatore e di noi lettori è tutto a quella bocca, che smette un’operazione orribile e si dispone a un racconto terribile... Quel forbirsi la bocca, che in sé sarebbe cosa non solo da uomo ma di galateo, e quei capelli, che pur essi ci richiamano all’umano, ci fanno inaspettatamente sentire ancor più l’inumano del pasto stesso e volgon poi in nuova inumanità l’accessorio che parea tornarci all’umano." (D’Ovidio). Il modo in cui la chiusura del canto XXXII si lega all’esordio del canto XXXIII ripropone, da un punto di vista formale, la soluzione adottata da Virgilio per legare il I al Il libro dell’Eneide. Anche l’inizio del secondo racconto di Francesca (canto V, versi 121-126) deriva dal Il libro dell’Eneide (versi 3-13), "ma - rileva il D’Ovidio - i due esordi danteschi hanno accenti diversi tra sé, e diversi rapporti col modello. Francesca mantiene il tono elegiaco di Enea, sebben lo faccia più molle e accorato, come pure più sobrio. Enea e Francesca son sedotti a parlare dal sentimento pietoso che muove la curiosità di chi gl’interroga, cedono per non saper resistere all’altrui simpatia amorevole, chiamano amore o affetto quella curiosità. Ugolino chiama con parola più violenta disperato il suo dolore, e dice energicamente che gli preme il cuore, al solo pensarci; ma cede all’odio, alla speranza d’infamare peggio il suo nemico".


Indice

  1. Ugolino e l'arcivescovo Ruggieri
  2. Vita e tradimento di Ugolino
  3. Il sogno premonitore di Ugolino
  4. La disperazione di Ugolino
  5. Il dolore di Ugolino
  6. La morte dei figli di Ugolino
  7. La vendetta di Ugolino
  8. Il tradimento di frate Alberigo
  9. La Tolomea e i traditori
  10. Invettiva contro Genova

Ugolino e l'arcivescovo Ruggieri

Poi incominciò a dire: "Tu vuoi che io rinnovi un dolore disperato che mi opprime il cuore al solo pensarci, prima che io ne parli.

Ma se le mie parole devono essere causa d’infamia per il traditore che io rodo, mi vedrai al tempo stesso parlare e piangere.

Non so chi sei né in quale maniera sei arrivato quaggiù; ma quando ti odo parlare mi sembri davvero fiorentino.

Devi sapere che fui il conte Ugolino, e questo è l’arcivescovo Ruggieri: adesso ti dirò perché sono per lui un vicino siffatto.

Vita e tradimento di Ugolino

Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico, signore di numerosi castelli nella Maremma pisana e in Sardegna, fu uno dei personaggi più in vista nelle vicende che travagliarono la vita politica pisana tra il 1270 e il 1289. Canto 33 Inferno - Prosa articoloAppartenente ad una famiglia ghibellina, favorì, insieme col nipote Nino Visconti, l’instaurazione nella ghibellina Pisa di un governo favorevole ai Guelfì e, raggiunta una posizione di predominio nella direzione degli affari della città, comandò la flotta pisana che fu sconfitta dai Genovesi alla Meloria (1284).

Nel 1285~1286, essendosi Genova alleata con Lucca e con Firenze, cedette a queste ultime alcuni castelli pisani, nella speranza di indurle a separarsi da Genova. Nel 1288 tentò di far cadere in disgrazia presso il popolo Nino Visconti, con il quale aveva governato fino allora, per accentrare nelle sue mani tutta la direzione della cosa pubblica, ma, catturato con l’inganno dai Ghibellini, capeggiati dall’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, fu imprigionato, accusato di tradimento e lasciato morire di fame insieme con due figli (Uguccione e Gaddo) e due nipoti (Anselmuccio e Nino, detto il Brigata) nella torre dei Gualandi nel febbraio 1289.

Ugolino si trova nel nono cerchio non tanto per la cessione dei castelli ai Lucchesi e ai Fiorentini . cessione che gli fu imputata a tradimento dai suoi avversari politici - quanto, più probabilmente, per le sue mene ai danni del partito ghibellino e del nipote Nino Visconti, giudice di Gallura, di cui Dante fu molto amico, come dimostrano i versi 53 sgg. del canto VIII del Purgatorio. Ma, come ha ben mostrato il De Sanctis, nell’episodio che lo ha per protagonista "Ugolino non è il traditore, ma il tradito. Certo, anche il conte Ugolino è un traditore e perciò si trova qui; ma per una ingegnosissima combinazione, come Paolo si trova legato in eterno

a Francesca, Ugolino si trova legato in eterno a Ruggiero, che lo tradì, legato non dall’amore, ma dall’odio... Il traditore c’è, ma non è Ugolino; è quella testa che gli sta sotto a’ denti... che non mette un grido, dove ogni espressione di vita è cancellata, l’ideale più perfetto dell’uomo petrificato".

L’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, nipote del cardinale Ottaviano menzionato nel canto X (verso 120), capeggiò, nella seconda metà del secolo XIII, il partito ghibellino a Pisa; dopo l’imprigionamento di Ugolino assunse il governo della città col titolo di podestà.

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Il sogno premonitore di Ugolino

Non occorre che io racconti come, avendo fiducia in lui, fui fatto prigioniero e poi ucciso, in conseguenza dei suoi intendimenti malvagi;

ma udrai quello che non puoi avere udito, cioè come la mia morte fu crudele, e potrai giudicare se egli non è stato colpevole nei miei riguardi.

Una piccola feritoia nel luogo chiuso (dentro dalla muda: muda era chiamato il luogo chiuso dove venivano tenuti gli uccelli nel periodo in cui cambiavano le penne) che a causa mia è soprannominato torre della fame, e nel quale altri devono ancora essere chiusi,

mi aveva già mostrato attraverso la sua apertura più lune (erano passati diversi mesi), quando io feci il sogno cattivo che mi svelò il futuro.

Costui (l’arcivescovo Ruggieri) mi sembrava capocaccia e signore degli altri cacciatori, mentre, cacciava il lupo e i suoi piccoli su per il monte (San Giuliano) a causa del quale i Pisani non possono vedere Lucca.

Egli aveva messo davanti a sé, sul fronte dello schieramento degli inseguitori, Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi (le tre principali famiglie ghibelline di Pisa) insieme con cagne fameliche (simbolo, secondo il Buti, del popolo minuto, "che comunemente è magro e povero"), sollecite a cacciare ed esperte.

Dopo una breve corsa il lupo e i lupicini mi sembravano stanchi, e mi sembrava di vedere lacerati i loro fianchi dalle zanne affilate.

Quando fui sveglio prima dei mattino, udii piangere nel sonno i miei figli (Ugolino chiama così anche i suoi nipoti Anselmuccio e Nino), che erano con me, e chiedere del pane.

Sei davvero crudele, se fin da questo momento non provi dolore immaginando quello che il mio cuore presagiva a se stesso; e se non piangi, per che cosa sei solito piangere?

Erano ormai svegli, e si avvicinava l’ora in cui il cibo soleva esserci portato, e a causa del proprio sogno ciascuno aveva timore;

e udii inchiodare la porta inferiore della spaventosa torre; allora guardai negli occhi i miei figli senza pronunciare parola.

La disperazione di Ugolino

L’episodio, mantenuto inizialmente entro una cornice epica nella quale il solo personaggio di Ugolino ha avuto modo di imporsi alla nostra fantasia, come una "colossale statua dell’odio" (De Sanctis), acquista intimità di risonanze per il contrapporsi dei dolore dei figli, innocentemente pieni di fiducia nel padre, alla cupa e consapevole disperazione di costui.

Come ha osservato il De Sanctis, l’offesa arrecatagli dai suoi nemici non è rappresentata per Ugolino dalla sua morte, ma da quella dei suoi figliuoli. Il peccatore roso dall’odio e al quale l’odio stesso accresce a dismisura la pena ("Ugolino ha sotto i suoi denti il nemico, e rimane insoddisfatto, e non perché desideri una vendetta maggiore, ma perché non c’è vendetta che possa saziare il suo dolore, essere eguale al suo odio") si rivela un padre tenerissimo. "Ma in seno all’odio si sviluppa l’amore, e il cupo e il denso dell’animo si stempra ne’ sentimenti più teneri. Quest’uomo odia molto, perché ha amato molto... Ve ne accorgete al tono così tenero e molle del suo dire, quando per la prima volta mette in iscena i figli... Questa vista lo commuove tanto, che provoca la sua sdegnosa e brusca apostrofe a Dante, non commosso del pari al pensiero di ciò che "si annunziava" al cuore del padre. Quello che si annunziava era non il dover morire lui, ma il dover vedersi morire i figliuoli. E quando sente chiavar l’uscio di sotto all’orribile torre, il primo suo atto è guardare in viso i figliuoli, che non avevano sentito nulla ed erano ignari della loro sorte.

Una vena di tenerezza penetra in questa natura selvatica; l’amore paterno abbella la sua figura e raddolcisce anco il suo accento. Quella musica scabra ed aspra nel principio e nella fine, quella musica dell’odio ferino prende qui la morbidezza e la soavità quasi dell’elegia."

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Il dolore di Ugolino

Io non piangevo, a tal punto l’animo divenne impietrito: piangevano loro; e il mio Anselmuccio disse: "Tu guardi in modo così strano, padre! che hai ?"


"Anselmuccio non sa definire, né spiegare - scrive il De Sanctis a proposito del verso 51 - quel modo di guardare... Lo strazio è tutto nella coscienza di quello sguardo senza parola e nell’innocenza di quello che hai? accompagnato con lacrime... E se un pittore dovesse scegliere un’attitudine sintetica che ti ponesse avanti i tratti sostanziali di questa poesia, sarebbe quest’essa: perché qui sei proprio al momento decisivo del racconto; ed hai già nella attitudine del padre e de’ figli tutt’ i motivi del più alto patetico."

La morte dei figli di Ugolino

Perciò non piansi né risposi tutto quel giorno e la notte successiva, finché non spuntò un’altra alba.

Non appena un po’ di luce riuscì a penetrare nella cella dolorosa, ed intravidi su quattro volti il mio stesso aspetto,

mi morsi entrambe le mani per il dolore; ed essi, credendo che lo facessi per desiderio di mangiare, si alzarono immediatamente in piedi,

e dissero: "Padre, sarà per noi un dolore assai minore se tu ti cibi delle nostre membra: tu (generandoci) ci facesti indossare queste carni infelici, tu privacene".

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La vendetta di Ugolino

Allora mi quietai per non renderli più tristi; rimanemmo in assoluto silenzio quel giorno e il giorno successivo: ahi, terra crudele, perché non ci inghiottisti?

Quando giungemmo al quarto giorno, Gaddo si gettò disteso ai miei piedi, dicendo: "Padre, perché non m’aiuti?"

Morì lì; e così come tu vedi me, vidi cadere gli altri tre uno dopo l’altro tra il quinto e il sesto giorno; per cui incominciai,

ormai cieco, a brancolare sopra ciascuno di loro, e li chiamai per due giorni, dopo che furono morti: poi, più del dolore, ebbe potere su me il digiuno ".

Nella sua concisione il verso 75 stende un velo d’ombra sull’agonia di Ugolino, rimasto solo in mezzo ai corpi dei figli morti. "Verso letteralmente chiarissimo - osserva il De Sanctis - e che suona: più che non poté fare il dolore, fece la fame. Il dolore non poté ucciderlo; lo uccise la farne. Ma è verso fitto di tenebre e pieno di sottintesi, per la folla de’ sentimenti e delle immagini che suscita, pei tanti " forse " che ne pullulano, e che sono così poetici. Forse invoca la morte, e si lamenta che il dolore non basti ad ucciderlo, e deve attendere la morte lenta della fame; è un sentimento di disperazione. Forse non cessa di chiamare i figli, se non quando la fame più potente del dolore gliene toglie la forza, mancatagli prima la vista e poi la voce. E’ un sentimento di tenerezza. Forse, mentre la natura spinge i denti sulle misere carni, in quell’ultimo delirio della fame e della vendetta quelle sono nella sua immaginazione le carni del suo nemico, e Dante ha realizzato il delirio nell’inferno, perpetuando quell’ultimo atto e quell’ultimo pensiero. E un sentimento di furore canino. Tutto questo è possibile; ‘tutto questo può esser concepito, pensato, immaginato; ciascuna congettura ha la sua occasione in qualche parola, in qualche accessione d’idea."


Il tradimento di frate Alberigo

Ciò detto, con gli occhi biechi, afferrò nuovamente il misero cranio coi denti, i quali furono, sull’osso, forti come quelli di un cane.

Ahi Pisa, onta dei popoli appartenenti all’Italia (del bel paese là dove ‘1 sì sona: dove la lingua usa come particella affermativa il "sì"), dal momento che le città vicine tardano a punirti,

si muovano la Capraia e la Gorgona (due isole del Tirreno, situate in corrispondenza della foce dell’Arno), e formino uno sbarramento allo scorrere dell’Arno nel punto in cui si versa nel mare, in modo che esso sommerga tutti i tuoi abitanti!

Poiché se correva voce che il conte Ugolino ti aveva tradita riguardo ai castelli (ceduti a Lucca e a Firenze), non dovevi sottoporre ad un tale supplizio i suoi figli.

La giovane età rendeva innocenti, o nuova Tebe (per la ferocia dei delitti in te perpetrati, non meno orribili di quelli compiuti dai discendenti di Cadmo), Uguccione e il Brigata e gli altri due che il mio canto ha menzionato in precedenza.

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La Tolomea e i traditori

Passammo oltre, là dove il ghiaccio avvolge duramente un’altra moltitudine, non immersa verticalmente, ma tutta quanta supina.

I due poeti entrano nella terza zona di Cocito, nella quale sono puniti i traditori degli ospiti: la Tolomea. Essa prende nome da un personaggio di cui è fatta menzione nella Scrittura (I Maccabei XVI, 11-16): Tolomeo, che fece uccidere, durante un banchetto, il suocero Simone Maccabeo con i suoi due figli Giuda e Mattatia.


Il pianto stesso in quel luogo non consente di piangere, e il dolore che trova sugli occhi un impedimento, rifluisce dentro ad aumentare l’angoscia,

poiché le prime lagrime versate formano un nodo (di ghiaccio), e riempiono tutta la cavità dell’occhio sotto le ciglia, come visiere di cristallo.

E sebbene a causa del freddo ogni sensibilità avesse abbandonato la dimora del mio volto, così come accade per una parte callosa,

mi sembrava già di sentire parecchio vento: per cui dissi: " Maestro, chi lo produce? non è qui inesistente ogni vapore (manca infatti il sole che possa formare e sollevare il vapore per produrre il vento)? "

E Virgilio: " Presto sarai nel luogo in cui l’occhio, vedendo la causa (il movimento delle ali di Lucifero) che fa soffiare dall’alto il vento, risponderà alla tua domanda ".

Ed uno degli sciagurati immersi nella lastra gelata ci gridò: " Anime a tal punto spietate, che vi è assegnata l’ultima dimora,


Ultima posta: è l’ultima zona di Cocito, la Giudecca. Prende nome da Giuda e contiene le anime di coloro che hanno tradito i benefattori.


toglietemi dal volto il ghiaccio, in modo che io possa sfogare un poco (attraverso le lagrime) il dolore che riempie il mio cuore, prima che il pianto geli nuovamente ".

Onde io: " Se vuoi che ti aiuti (ti sovvegna), dimmi chi sei, e se non ti libero dall’impedimento (del ghiaccio), possa io scendere fino in fondo a Cocito ".

Allora rispose: " Sono frate Alberigo; sono quello delle frutta delittuose, che qui sconto la mia colpa con una pena ancora più grave (il dattero è frutto più prelibato del fico)".

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" Oh! " gli dissi, " sei già morto? " Ed egli: " In quali condizioni si trovi il mio corpo nel mondo dei vivi, non so.

Questa Tolomea ha il privilegio che spesso l’anima cade in essa prima che la morte (nella mitologia Atropos era quella delle tre Parche che recideva il filo della vita) le imprima il movimento.

E perché più volentieri tu mi raschi dal volto le lagrime congelate, sappi che non appena l’anima tradisce

nel modo usato da me, il suo corpo le è preso da un demonio, il quale poi lo governa finché sia trascorso tutto il tempo assegnatogli per vivere.

Essa precipita in questo pozzo (il nono cerchio); e forse è ancora visibile nel mondo il corpo appartenente all’anima che qua dietro a me sverna.

Tu lo devi sapere, se soltanto ora scendi nell’inferno: è ser Branca d’Oria, e vari anni sono trascorsi da quando è stato chiuso in tal modo (nel ghiaccio) ".

" Credo " gli dissi " che tu m’inganni; poiché Branca d’Oria non è ancora morto, è vivo e sano. "

" Nella bolgia" disse " custodita dai Malebranche, dove la pece vischiosa ribolle, non era ancora arrivato Michele Zanche

che costui lasciò nel corpo al posto suo un diavolo, ed altrettanto fece un suo parente che compì il tradimento insieme con lui.

Ma stendi ormai la mano verso di me; aprimi gli occhi. " E io non glieli apersi; e fu atto nobile essere villano nei suoi confronti.

Invettiva contro Genova

Ahi Genovesi, uomini lontani da ogni buona usanza e pieni d’ogni vizio, perché non siete estirpati dal mondo?

Poiché insieme con l’anima più perversa della Romagna (frate Alberigo) trovai un vostro concittadino tale, che a causa delle sue azioni già sta immerso con l’anima nel Cocito,

e col corpo appare ancora vivente sulla terra.

L’invettiva contro i Genovesi corrisponde simmetricamente, a chiusura dell’episodio di frate Alberigo, a quella contro Pisa, con la quale si conclude l’episodio di Ugolino. La maledizione del Poeta coinvolge così in questo canto "con terribile imparzialità le due rivali repubbliche marinare: i vinti e i vincitori della Meloria" (D’Ovidio).

Domande da interrogazione

  1. Qual è il significato del gesto di Ugolino di pulirsi la bocca con i capelli della testa che stava rosicchiando?
  2. Il gesto di Ugolino di pulirsi la bocca con i capelli della testa che stava rosicchiando sottolinea l'orrore e l'inumanità del suo pasto, accentuando il contrasto tra l'atto umano di pulirsi e l'atto bestiale di mangiare un altro essere umano.

  3. Chi erano Ugolino e l'arcivescovo Ruggieri, e quale fu il loro conflitto?
  4. Ugolino della Gherardesca era un conte e politico pisano, mentre l'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini era un leader ghibellino. Il loro conflitto culminò con il tradimento di Ruggieri, che imprigionò Ugolino e i suoi figli, lasciandoli morire di fame.

  5. Qual è il significato del sogno premonitore di Ugolino?
  6. Il sogno premonitore di Ugolino, in cui vede se stesso e i suoi figli cacciati come lupi, simboleggia la sua imminente cattura e morte per mano dei suoi nemici, rappresentando la disperazione e la consapevolezza del suo destino.

  7. Come viene descritto il dolore di Ugolino per la morte dei suoi figli?
  8. Il dolore di Ugolino è descritto come una sofferenza intensa e impotente, accentuata dalla sua incapacità di piangere e dalla disperazione di vedere i suoi figli morire di fame, un dolore che supera persino la sua sete di vendetta.

  9. Cosa rappresenta la Tolomea e chi vi è punito?
  10. La Tolomea è la terza zona del nono cerchio dell'Inferno, dove sono puniti i traditori degli ospiti. Qui le anime sono immerse nel ghiaccio, incapaci di piangere, e il loro dolore è amplificato dal freddo che congela le lacrime.

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