Concetti Chiave
- Virgilio alterna rimprovero e conforto, paragonando la sua lingua alla lancia di Achille, che ferisce e guarisce.
- Il suono del corno di Orlando evoca la disfatta dei paladini di Carlo Magno, simboleggiando dolore e minaccia nel crepuscolo dell'Inferno.
- Le presunte torri lontane si rivelano essere giganti, sottolineando l'errore della percezione visiva e preparando all'incontro con essi.
- I giganti rappresentano la materialità e la superbia sconfitta, in contrasto con la grandezza morale di figure come Farinata.
- Anteo, un gigante non legato, è convinto da Virgilio a trasportare i poeti nel nono cerchio, dimostrando la loro capacità di persuasione.
Indice
- Il rimprovero e il conforto di Virgilio
- Il suono del corno e la disfatta di Orlando
- L'illusione delle torri e la verità dei giganti
- La grandezza morale di Farinata e la materialità dei giganti
- La visione dei giganti e la paura crescente
- L'incontro con Anteo e la discesa nel nono cerchio
- La richiesta di Virgilio ad Anteo
Il rimprovero e il conforto di Virgilio
Una stessa lingua (quella di Virgilio) dapprima mi rimproverò, in modo da farmi arrossire, e poi mi ridiede conforto:
così sento dIre che la lancia di Achille e di Peleo soleva essere causa in un primo tempo di una offerta dolorosa e in un secondo tempo di una offerta buona.
Noi voltammo le spalle alla decima bolgia lungo !’argine che la circonda, attraversandolo senza parlare.
Qui era meno buio ché di notte e meno chiaro che di giorno, così che la mia vista si spingeva avanti di poco; ma udii un corno dal suono così fragoroso,
che avrebbe fatto sembrare debole qualunque tuono, il quale suono, continuando a percorrere il suo cammino, fece rivolgere attentamente la mia vista verso un unico punto in direzione opposta a quella da cui proveniva.
Dopo la grave disfatta, quando Carlo Magno perdette i paladini della fede, non suonò in modo così terribile Orlando.
Il suono del corno e la disfatta di Orlando
In un’ambigua atmosfera di crepuscolo, che nega alle cose la nettezza dei loro contorni, pur senza abolirli del tutto (e l’incertezza di questo crepuscolo, simbolicamente, prelude allo spegnersi totale della vita che caratterizzerà la condizione, morale e fisica, dei traditori imprigionati nel ghiaccio di Cocito), il cupo suono di un corno diffonde, come una minaccia, un dolore lancinante e incontenibile. Il Poeta ripensa all’agonia di Orlando nella gola di Roncisvalle nei Pirenei (la disfatta ad opera degli Arabi della retroguardia dell’esercito franco comandata da Orlando ebbe luogo nel 778 d. C.): quando il paladino, già ferito, si risolse a suonare il corno per chiedere aiuto, la maggior parte dei suoi compagni era morta. Ecco come la sua morte è descritta nella Chanson de Roland (versi l753-1767): "Rolando ha messo l’olifante alle labbra, l’imbocca bene e lo suona con grande forza. Alti sono i poggi e lunga è la sua voce; trenta gran leghe l’odono rispondere. Carlo l’ode e tutto il suo esercito... Il conte Rolando con pena ed affanno a gran dolore suona il suo olifante. Dalla bocca sgorga il chiaro sangue. Le sue tempie si rompono per lo sforzo. Altissimo è il rimbombo del corno: l’ode Carlo... il duca Namo lo ascolta, l’ascoltano i Franchi".
La morte di Orlando é - nota V. Rossi - uno degli episodi "che più profondamente colpirono fa fantasia e il cuore degli uomini dei Medioevo". Nella terzina 16 "è l’eco gagliarda di questa commozione: nel primo verso, arduo di ritmo, sanguina il dolore cristiano (la bella osservazione è del Torraca) per quella sconfitta; nel terzo, dominato, da una lunga e sonora e suggestiva parola e chiuso dal più gran nome della leggenda epica, corre un fremito tra di sgomento e di ammirazione".
L'illusione delle torri e la verità dei giganti
Avevo per poco tempo tenuto la testa volta in quella direzione, allorché mi sembrò di scorgere numerose alte torri; per cui dissi: "Maestro, dimmi, che città è questa? "
E Virgilio a me: " Poiché tu ti spingi con lo sguardo attraverso il buio troppo da lontano, accade poi che tu confonda nel raffigurarti ciò che vedi.
Tu vedrai bene, se arriverai in quel luogo, quanto il senso (della vista) possa errare da lontano; perciò sprona maggiormente te stesso".
Poi mi prese affettuosamente per mano, e disse: " Prima che noi giungiamo più innanzi, affinché la cosa ti appaia meno sorprendente,
devi sapere che non sono torri, bensì giganti, e che stanno tutti nel pozzo lungo la sua parete circolare dall’ombelico in giù ".
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La grandezza morale di Farinata e la materialità dei giganti
Il verso 33 si contrappone idealmente a quello che, nel canto X. definiva lo energico ergersi di Farinata (dalla cintola in su tutto ‘l vedrai). La grandezza dell’eroe ghibellino era anzitutto forza morale (com’avesse l’inferno in gran dispitto), carattere indomabile che si esprimeva, plasticamente, nel suo atteggiamento statuario. Quella dei giganti, è bruta materialità, porta in sé i segni della sconfitta e del disfacimento. Osserva il Chiari: "chiunque ricorda il canto X dell’Inferno sa che per Farinata la condanna, che lo imprigiona nell’arca rossa di fuoco, è superata dalla grandezza spirituale e dalla nobiltà del magnanimo difensore a viso aperto di Firenze, e sente che qui invece si insiste sul lungo distendersi dei corpi immensi al disopra della ripa e nella profondità del pozzo, e che l’accenno alla loro mole non è accompagnato da nessun tratto di libera vigoria, ma anzi è unito e superato dall’accenno dell’immobilità che impone una forza divina, trionfante di essi, i superbi, in eterno".
Posti a guardia dell’ultimo cerchio dell’inferno, i giganti si distinguono dai custodi dei cerchi superiori per la loro immobilità cieca ed ottusa. Il Poeta si compiace di sottolineare, lungo tutto l’arco dell’episodio che li ha per protagonisti, il contrasto fra la maestà del loro apparire e la loro forza umiliata, resa inerme dalla confusione che ha invaso le loro menti. Simboli di una superbia dissennata, portata al parossismo (vollero misurarsi con la divinità, pretesero di debellare con la forza l’intelligenza), occupano ora, il gradino più basso nella gerarchia infernale.
La visione dei giganti e la paura crescente
Come quando la nebbia si dissolve, l’occhio gradatamente distingue quello che nasconde il vapore che rende densa l’aria,
così, penetrando con lo sguardo nell’aria spessa e buia, a mano a mano che mi avvicinavo all’orlo del pozzo, si dileguava il mio errore e aumentava la mia paura;
poiché come il castello di Montereggioni è cinto di torri nella cerchia delle mura che lo circondano, così la sponda che gira intorno al pozzo
soverchiavano come torri con metà del loro corpo i mostruosi giganti, che Giove sembra ancora minacciare col tuono dal cielo.
E io già di uno di costoro intravedevo il viso, le spalle e il petto e gran parte del ventre, e le due braccia abbandonate lungo i fianchi.
Certamente la natura, quando smise di produrre simili esseri viventi, fece cosa molto buona, perché sottrasse a Marte (il dio della guerra) tali esecutori (delle sue volontà).
E se la natura non si pente degli elefanti e delle balene. chi riflette con attenzione, la giudica per questo più giusta e più assennata;
poiché nei casi in cui lo strumento della ragione si aggiunge alla volontà di nuocere e alla forza fisica, gli uomini non possono opporre alcuna difesa.
La faccia di quel gigante mi sembrava lunga, e grossa come la pigna di San Pietro in Roma (questa figura di bronzo ai tempi di Dante si trovava nell’atrio di San Pietro; oggi invece è all’interno del Vaticano, nel cortile detto della, Pigna), e le altre membra erano proporzionate ad essa;
così che la sponda, che gli serviva da veste dalla metà del corpo in giù, lasciava vedere tanto della parte superiore del suo corpo, che di arrivargli ai capelli
tre abitanti della Frisia (rinomati per la loro alta statura) difficilmente avrebbero potuto vantarsi; poiché ne scorgevo trenta palmi (poco più di sette metri) abbondanti dal collo in giù.
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L'incontro con Anteo e la discesa nel nono cerchio
"Raphél may améch zabi almì" cominciò a gridare la mostruosa bocca, alla quale non si addicevano discorsi più gradevoli.
E Virgilio, rivolgendosi a lui: " Spirito sciocco, accontentati del corno, e sfogati con quello quando ti prende l’ira o un’altra passione!
Cerca intorno al tuo collo, e troverai la cinghia che lo tiene legato, o anima ottenebrata, e guardalo come attraversa il tuo petto possente ".
Poi mi disse: " Da solo rivela chi egli sia; costui è Nembrot per il cui empio pensiero nel mondo non si usa più un unico linguaggio.
Lasciamolo stare e non parliamo inutilmente; perché per lui ogni linguaggio è tale (così: cioè incomprensibile) come per altri è il suo, che non è conosciuto da nessuno.
Percorremmo dunque un più lungo cammino, diretti verso sinistra; ed a un tiro di balestra incontrammo l’altro (gigante) molto più crudele nell’aspetto e più grande.
Chi fosse l’artefice che lo legò, non so dire, ma egli aveva piegato davanti il braccio sinistro e dietro il braccio destro
per mezzo di una catena che lo teneva legato dal collo in giù, in modo che essa gli si avvolgeva intorno per cinque giri nella parte visibile del corpo.
"Questo superbo volle sperimentare la sua forza contro l’altissimo Giove " disse Virgilio, " per cui ha una simile ricompensa.
Il suo nome è Fialte, e mostrò la sua grande forza al tempo in cui i giganti fecero paura agli dei: ora non muove. più le braccia che egli mosse. "
E io a lui: " Se fosse possibile, vorrei che i miei occhi vedessero l’immane Briareo ",
Per cui Virgilio rispose: " Tu vedrai qui vicino Anteo, che sa esprimersi e non è legato, il quale ci deporrà sul fondo dell’inferno.
Quello che tu vuoi vedere é molto più distante, ed è incatenato e ha la stessa corporatura di Fialte, tranne che appare più terribile nel volto ".
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Mai vi fu terremoto tanto violento, che scuotesse una torre con lo stesso impeto con il quale fu pronto a scuotersi Fialte.
Allora più che mai ebbi paura della morte, e non vi sarebbe stato bisogno d’altro oltre la paura (perché io morissi), se non avessi veduto le catene.
Allora proseguimmo nel nostro cammino, e giungemmo presso Anteo, che sovrastava la parete rocciosa di oltre sei metri, se non si teneva conto della testa.
Alle: "alla - secondo l’Anonimo Fiorentino - è una misura in Fiandra... ch’è intorno di braccia due e mezzo". Il Poeta ci fornisce le misure del corpo di Anteo con un procedimento analogo a quello da lui usato per definire, nelle sue reali dimensioni, la grandezza di Nembrot: "invece di offrire la misura dell’insieme, Dante la sdoppia ponendo la necessità di una somma di due grandezze di per sé già eccezionali: l’effetto è la nozione visiva dei gigantesco, ma (e questa è la funzione dell’indicazione numerica) contenuto nei limiti" (Mattalia).
La richiesta di Virgilio ad Anteo
"O tu che nella fortunosa valle che fece Scipione erede di gloria, quando Annibale fu volto in fuga col suo esercito,
portasti un giorno innumerevoli leoni catturati, e che se avessi preso parte alla grande guerra dei tuoi fratelli, ancora vi è chi potrebbe credere
che avrebbero vinto i giganti (i figli della terra), deponici, e non sdegnare di farlo, dove il freddo congela le acque di Cocito.
Non ci fare andare né da Tizio né da Tifo (il primo di questi due giganti fu fulminato da Apollo per aver tentato di sedurre Latona, il secondo da Giove): il mio compagno può darti ciò che nell’inferno è desiderato (la fama tra i vivi); perciò abbassati, e non volgere altrove il viso.
Egli ti può ancora dare, gloria nel mondo. poiché egli vive, e attende ancora di vivere a lungo se la grazia divina non lo chiama a sé prima dei tempo. "
Così parlò Virgilio; e Anteo stese sollecito le mani, di cui Ercole aveva sentito una volta la stretta poderosa, e afferrò la mia guida.
Virgilio, quando si sentì afferrare, mi disse: "Avvicinati, così che io possa prenderti"; poi fece in modo che egli ed io formassimo un solo fascio.
Come appare la Garisenda (la minore delle due famose torri di Bologna) quando la si guarda dalla parte in cui è inclinata, allorché una nuvola passa sopra ad essa, in direzione contraria alla sua pendenza (sì, che ella incontro penda: sembra allora che la nuvola sia ferma e la torre stia per piombare a terra),
così apparve Anteo a me che facevo attenzione per vederlo nell’atto del suo piegarsi, e fu un momento tale che avrei voluto andare per un’altra strada.
Ma dolcemente ci depose sul fondo che imprigiona Lucifero e Giuda; né, così chinato, lì indugiò,
ma si levò diritto come in una nave l’albero.
La similitudine della Garisenda - nella quale la limpida osservazione di un dato reale si congiunge ad un senso allucinante di incubo - ripropone, in termini di movimento e dì miracolo, l’immagine delle torri che aveva fin qui definito staticamente, come masse minacciose ma immote, i giganti. Il carattere miracoloso della discesa dei due poeti dall’argine estremo dell’ottavo cerchio sul fondo del nono è espresso con particolare rilievo - attraverso un’avversativa e la netta contrapposizione, tonale e ritmica, dei due emistichi - dal verso 142. Il sovrannaturale si dispiega poi grandiosamente ai nostri occhi nell’immagine conclusiva del canto, analoga a quella che pone fine alla discesa di Gerione.
Domande da interrogazione
- Qual è il significato del rimprovero e del conforto di Virgilio?
- Come viene descritta la disfatta di Orlando?
- Cosa rappresentano i giganti nel testo?
- Qual è l'importanza dell'incontro con Anteo?
- Come viene descritta la discesa nel nono cerchio?
Virgilio rimprovera e poi conforta il protagonista, simile alla lancia di Achille che prima ferisce e poi guarisce, mostrando la dualità di guida e sostegno.
La disfatta di Orlando è evocata attraverso il suono del corno, simbolo di dolore e sconfitta, che richiama l'agonia di Orlando a Roncisvalle.
I giganti simboleggiano la superbia e la forza bruta, contrastando con la grandezza morale di Farinata, e sono posti a guardia dell'ultimo cerchio dell'inferno.
L'incontro con Anteo è cruciale per la discesa nel nono cerchio, poiché Anteo, non legato e capace di esprimersi, aiuta i protagonisti a scendere nel fondo dell'inferno.
La discesa nel nono cerchio è descritta con un senso di miracolo e movimento, paragonata alla torre Garisenda, e culmina con Anteo che depone dolcemente i poeti sul fondo.