Fabrizio Del Dongo
Genius
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Concetti Chiave

  • Nel VII cerchio dell'Inferno di Dante, una selva oscura e impenetrabile ospita coloro che hanno commesso suicidio e scialacquatori, riflettendo la loro trascuratezza per la vita e i beni terreni.
  • I suicidi sono trasformati in arbusti tormentati dalle Arpie, simbolizzando la degradazione dalla forma umana a quella vegetale come punizione per aver rinunciato alla vita.
  • Gli scialacquatori, che dissiparono le loro ricchezze, sono perseguitati e dilaniati da cagne nere, rappresentando il contrappasso per il loro spreco e insensatezza.
  • Dante incontra Pier della Vigna, un funzionario caduto in disgrazia, che narra la sua storia di tradimento e invidia, rivelando la sua disperazione culminata nel suicidio.
  • La descrizione dettagliata della selva e delle Arpie evidenzia l'atmosfera infernale e le sofferenze eterne inflitte ai dannati, mentre le anime raccontano storie di inganno e rovina.

Indice

  1. La Selva dei Suicidi
  2. Il Destino dei Suicidi
  3. Il Giudizio Universale
  4. La Caccia dei Dannati

La Selva dei Suicidi

Siamo nel cerchio VII, in una selva, senza sentieri, fitta di alberi nodosi e di sterpaglia. La selva si estende fino alla riva del Flegetonte

Coloro che si sono tolti la vita e gli scialacquatori

Nel sistema morale di Dante, sopprimere la propria persona equivale a dilapidare i propri beni.

Il Destino dei Suicidi

I suicidi sono trasformati in arbusti le cui foglie sono mangiate dalle Arpie.

Dono il Giudizio Universale, i dannati recupereranno il loro corpo che sarà appeso agli alberi. In vita non tennero conto della propria vita così ora sono ridotti ad uno stato inferiore (stato vegetale)

Gli scialacquatori sono inseguiti e sbranati da cagne nere come essi fecero in vita con il loro patrimonio

Pier della Vigna, funzionario di Federico II di Svevia

Lano, senese

Jacopo da Sant’Andrea

Anonimo suicida fiorentino

Federico II di Svevia

Minosse, giudice infernale

San Giovanni Battista, patrono di Firenze

Marte, a cui, in origine, era stata dedicata Firenze

Attila che avrebbe distrutto Firenze, ma in realtà fu Totila, re degli Ostrogoti

Dante e Virgilio entrano nel 2° girone del VII cerchio, in una selva priva di sentieri, fitta di alberi nodosi e di sterpi, limitata dall’argine del Flegetonte. Sui rami non ci sono frutti, ma rami velenosi. Non esiste una sterpaglia così folta nemmeno nella regione compresa fra il fiume Cecina e Corneto (oggi Tarquinia), frequentata dai cinghiali, cacciati dalle terre coltivate. Qui si annidano le luride Arpie che allontanarono i Troiani dalle isole Strofadi, annunciando loro un futuro triste. Le loro ali sono ampie e il collo e il viso hanno le sembianze umane. I piedi hanno gli artigli e il grande ventre è ricoperto di penne. Appollaiate sui rami degli alberi, esse emettono degli strani lamenti. Virgilio avverte Dante che si trova nel 2° girone e vi resterà finché non vedrà un’enorme distesa di sabbia. Perciò lo invita a guardare bene e gli anticipa che vedrà cose che, se gliele dicesse toglierebbero credito alla sue parole(= non ci crederebbe), da tanto che esse si qualificano come straordinarie e al di là di ogni legge naturale e umana.

Da ogni parte, Dante sente emettere delle grida lamentose, pur non vedendo da chi siano emesse. Per questo motivo egli si ferma, tutto confuso e con un artificio linguistico basato sull’uso del verbo” credere” indica questo suo stato d’animo: ha l’impressione che i lamenti escano dai cespugli dietro i quali sono nascosti i dannati. Per questo motivo, Virgilio interviene dicendogli che, se troncherà un rametto di queste piante, la sua supposizione si rivelerà non fondata. Dante dà seguito al suggerimento della sua guida, spezza un piccolo ramo e immediatamente sente un grido. Dopo che il rametto si è coperto del sangue che sgorga dalla ferita, la voce gli rimprovera di averlo lacerato senza motivo e di non aver alcun sentimento di pietà. Poi continua dicendo che, in vita, le anime di questo cerchio furono uomini che da dannati sono stati trasformati in sterpaglia e la sua mano avrebbe dovuto essere più pietoso persino se si fosse trattato di anime di serpenti. Qui si capisce la pena per contrappasso: poiché il vita, il dannato si è tolto la vita, ora nell’aldilà è ridotto ad uno stato inferiore, quello vegetale.

Viene quindi introdotta un’analogia fra l’anima che parla ed un pezzo di legno che viene bruciato: quando si fa ardere un pezzo di legno non ancora secco (= verde), da una parte esce la linfa (= evaporazione dell’umidità) e dall’altra scoppietta (= cigola) a causa dell’aria che esce, così dal rametto (scheggia) spezzato escono contemporaneamente parole e sangue. Per questo motivo Dante si ferma e se ne sta immobile preso dal timore. Virgilio prende la parola e dice all'anima imprigionata nell'albero di essere stato costretto a indurre Dante a compiere quel gesto, perché solo così egli avrebbe compreso ciò che lui stesso aveva cantato nei versi dell'Eneide. Quindi invita il dannato a manifestarsi e a raccontare la sua storia, affinché Dante, tornato sulla Terra, possa risarcirlo del danno subìto, restaurando la sua fama.

Il dannato risponde: “ Con il tuo dolce modi di fare mi invogli a parlare per cui io non posso tacere e a voi non pvi dispiaccia se mi dilungherò (= a ragionar n’invischi. Questo termine ci rimanda al tema della caccia, un divertimento preferito nella società cortese dell’epoca di Federico II) un poco a parlare [di me]”. L’anima dannata è quella Pier della Vigna, colui che “tenne entrambe le chiavi del cuore dell’imperatore Federico II” di Svevia. La metafora significa che Pier della Vigna, protonotaro alla corte imperiale, era capace di dominare la volontà dell’Imperatore, inducendolo, con molta abilità, ora a negare ora ad assentire. Egli fu tanto ligio ai suoi doveri che per essi arrivò a sacrificare il sonno e tutte le forze.

A questo punto, viene introdotta una perifrasi per indicare l’invidia, descritta come una prostituta che non allontanò mai lo sguardo sfacciato (= occhi putti) dalla reggia imperiale (= di Cesare), simile alla rovina comune di tutti gli uomini e vizio tipico di tutte le corti principesche I cortigiani accesi d’invidia provocarono a tal punto l’ira dell’Imperatore che, ben presto, gli onori si trasformarono in lutti. Pertanto il suo animo, per piacere che viene dallo sfogare, in silenzio, il proprio disprezzo nei confronti dei calunniatori, credendo di evitare con la morte il disprezzo di cui si sentiva circondato, lo indusse a commettere violenza contro se stesso anche se era innocente [Pier della Vigna si suicidò]. Inoltre, precisa che, mai venne alla fedeltà promessa al suo Signore il quale era degno di ogni onore. Quindi rivolge ai due pellegrini una preghiera: se qualcuno di voi ritorna sulla terra, riabiliti la mia memoria che giace ancora nel disonore causato dall’invidia.

Virgilio resta un attimo in silenzio, quindi invita Dante a rivolgere altre domande al dannato. Il discepolo si dice troppo turbato per rivolgere la parola all’anima dannata, quindi è Virgilio che chiede a Pier della Vigna in che modo l'anima del suicida venga imprigionata dentro gli alberi della selva e se accade talvolta che qualcuna di esse ne fuoriesca.

Il Giudizio Universale

Il tronco emette nuovamente un soffio d'aria, quindi la voce spiega brevemente che quando l'anima del suicida si separa dal corpo e giunge davanti a Minosse, il giudice infernale, quest’ultimo la manda nel VII Cerchio. Qui essa cade in un punto qualsiasi e germoglia, dando vita ad una pianta selvatica. Le Arpie, poi, nutrendosi delle foglie dell'albero, provocano ulteriore sofferenza alle anime. Il giorno del Giudizio Universale, spiega ancora il dannato, essi andranno a riprendere le loro spoglie mortali, ma non le rivestiranno: porteranno i corpi nella selva, dove ciascuna anima appenderà il proprio all'albero dove è imprigionata, poiché non è giusto riavere ciò che ci si è tolto violentemente. Essi trascineranno nella selva dei suicidi le loro spoglie, appesa ognuna alla pianta nata dalla loro anima che in vita e per sempre gli sarà nemica.

La Caccia dei Dannati

Dante e Virgilio sono ancora attenti ad ascoltare il dannato, pensando che volesse dire altre cose, quando sono sorpresi da un rumore, simile a colui (il cacciatore) che sente arrivare il cinghiale e la muta dei cani con il battitore verso il suo appostamento e che ode i cani [abbaiare da lontano] e le fronde degli alberi stormire.

Ed ecco due anime arrivare da sinistra, nude e ricoperte di graffi, che fuggono così’ velocemente da spezzare ogni ramo. Quella davanti grida “Vieni adesso, o morte!” E l’altro, a cui sembrava di non correre troppo velocemente, grida: “Lano, non furono altrettanto abili nella fuga le tue gambe negli scontri, avvenuti dalle parti del Toppo” (qui il riferimento è ad un torneo fra Senesi e Aretini alla Pieve del Toppo: il senese Lano, durante un combattimento se la diede a gambe, mentre l’inseguitore è Jacopo di Sant’Andrea, famoso per la sua eccessiva prodigalità). E poiché forse gli veniva meno il respiro si getto in un cespuglio facendo con esso un tutt’uno. Dietro a loro la selva era piena di cagne nere (forse simboli dei rimorsi dei due dannati), piene di desiderio [di azzannare una preda] e veloci come cani da caccia liberati dalla catena. Esse addentarono il dannato che si era riparato nel cespuglio, lo lacerarono e ne portarono via i pezzi.

A quel punto Virgilio prese per mano Dante e lo conduce verso l’arbusto che invano si lamenta per le ferite sanguinanti.. Esso dice: “ Oh Jacopo da Sant’Andrea, a che cosa ti è servito che ti facessi da riparo? Che colpa ho io della tua vita peccaminosa?

Virgilio, dopo essersi fermato presso di lui, gli chiede: “ Chi sei tu che da tante cime spezzate di rami (= punte), parli emettendo anche sangue. Egli risponde. “Oh anime che siete arrivate ad assistere ad uno strazio così indecoroso che, con violenza, mi ha strappato le foglie, raccoglietele dai piedi del mio disgraziato cespuglio. Io sono originario della città (Firenze) che cambiò il suo originario patrono, Marte, assumendo per protettore S. Giovanni Battista. Per questo motivo, Marte con la sua arte della guerra, renderà [Firenze] sempre piena di sventure, e se non fosse per il fatto che sul ponte dell’Arno è rimasta ancora una statua in suo onore [in onore di Marte], quei cittadini che la fecero risorgere dalle ceneri rimaste dopo il passaggio di Attila, avrebbero fatto un lavoro inutile [= Firenze non esisterebbe più e se esiste ancora è perché sussiste sul Ponte Vecchio una statua dedicata al dio greco]”: il dannato termina dicendo che della sua dimora fece il luogo del suo patibolo, cioè si impiccò in casa sua.

Domande da interrogazione

  1. Qual è il destino dei suicidi nel cerchio VII dell'Inferno di Dante?
  2. I suicidi sono trasformati in arbusti le cui foglie sono mangiate dalle Arpie. Al Giudizio Universale, recupereranno il loro corpo, che sarà appeso agli alberi, poiché in vita non tennero conto della propria vita.

  3. Chi è Pier della Vigna e quale ruolo ha nella narrazione?
  4. Pier della Vigna era un funzionario di Federico II di Svevia, accusato ingiustamente e suicidatosi. Nel testo, racconta la sua storia a Dante e Virgilio, chiedendo di riabilitare la sua memoria sulla Terra.

  5. Come viene rappresentata l'invidia nel testo?
  6. L'invidia è descritta come una prostituta che non allontana mai lo sguardo sfacciato dalla reggia imperiale, causando la rovina di Pier della Vigna e trasformando gli onori in lutti.

  7. Cosa accade durante la "Caccia dei Dannati"?
  8. Durante la "Caccia dei Dannati", due anime fuggono da cagne nere che le inseguono e le sbranano, rappresentando i rimorsi per la loro vita passata. Una delle anime si rifugia in un cespuglio, ma viene comunque lacerata.

  9. Qual è il significato del dialogo tra Dante, Virgilio e l'anima imprigionata nell'albero?
  10. Il dialogo serve a spiegare la pena per contrappasso dei suicidi, che in vita si tolsero la vita e ora sono ridotti a uno stato vegetale. Virgilio spiega che solo spezzando un ramo Dante avrebbe compreso la sofferenza delle anime imprigionate.

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