MattiaSantangelo
Ominide
7 min. di lettura
Vota

Indice

  1. La prima terzina
  2. La seconda terzina
  3. Approfondimento sulle prime terzine della Divina Commedia

Approfondimento sulle prime terzine della Divina Commedia

Le prime terzine del I canto dell'Inferno nella Divina Commedia di Dante Alighieri costituiscono l'incipit di un'opera straordinaria, densa di simbolismo e significati allegorici. In particolare, il verso che recita "Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita" apre il viaggio spirituale e morale del poeta, alludendo a un momento di crisi personale e universale.


La prima terzina

Dante apre il suo viaggio collocandolo in un punto preciso: "nel mezzo del cammin di nostra vita". Questo verso richiama un tempo specifico nella vita dell'uomo, quello che, secondo la visione medievale, corrisponde ai 35 anni, approssimativamente la metà dell'aspettativa di vita umana che, secondo le Scritture, era di 70 anni (come indicato nel Salmo 89). Il pronome possessivo "nostra" indica che il cammino non è solo individuale, ma condiviso dall'intera umanità, facendo così della vicenda di Dante una parabola universale.


Il Sommo Poeta, come rappresentante dell'umanità, si trova quindi in un momento cruciale della sua esistenza, in quella che potremmo definire una crisi di mezza età o una crisi spirituale. La vita si divide tra il passato e il futuro, e questo punto intermedio è uno spazio di riflessione e smarrimento.


Nel secondo verso “mi ritrovai per una selva oscura”, l’espressione "mi ritrovai" è particolarmente significativa. Non dice che "mi sono perso" direttamente, ma che si è "ritrovato" nella selva, come se fosse giunto lì quasi inconsapevolmente, per un cammino sbagliato intrapreso senza accorgersene. Questo rafforza l’idea di uno smarrimento che non è solo fisico, ma soprattutto spirituale. Dante non ha deciso di entrare in una selva oscura, si ritrova lì, e questa passività evidenzia la natura involontaria della sua condizione.


La "selva oscura" è uno dei simboli centrali del poema: un luogo di confusione, peccato e angoscia. Questa selva rappresenta lo stato dell’anima di Dante, lontana dalla luce della ragione e della fede, persa nell’errore. Il termine "oscura" non allude solo alla mancanza di luce fisica, ma soprattutto alla cecità morale e spirituale.


La "diritta via" è il percorso corretto, quello della virtù, della fede e della rettitudine morale. Il verbo "era smarrita" rivela come Dante si sia allontanato dal sentiero della giustizia già da un certo tempo, ma è pur sempre in tempo per ritrovarlo. Non è un evento improvviso, ma il risultato di un graduale distacco. L'uso dell’aggettivo "diritta" per definire la via è emblematico: la rettitudine è simbolo del cammino verso Dio, verso la perfezione morale e spirituale, da cui Dante si è allontanato.


La seconda terzina

La seconda terzina viene introdotta da un’interiezione primaria, che esprime un sentimento di dolore e rimpianto. È una sorta di esclamazione tragica, un lamento che rafforza l’angoscia provata da Dante nel ricordare la sua esperienza nella selva. L’atto stesso di raccontare la condizione in cui si trovava, descritta con "quanto a dir", è difficile per lui, perché rievoca una sofferenza che non ha ancora superato. Il poeta non sta solo raccontando una vicenda, sta rivivendo un trauma.


Con "qual era", Dante fa riferimento alla selva oscura che ha appena menzionato, il luogo del suo smarrimento. Descrivere quella selva è arduo non solo per la sua natura fisica, ma per ciò che rappresenta a livello spirituale: l’abisso di confusione e perdizione in cui si trovava.


Nel secondo verso della seconda terzina introduce tre aggettivi, "selvaggia", "aspra" e "forte" che non solo caratterizzano la selva, ma esprimono le qualità della crisi spirituale che Dante sta vivendo.


L’aggettivo "selvaggia" descrive la selva come un luogo indomito, privo di ordine e regole. La selvatichezza è la qualità di ciò che è incontrollabile, che sfugge al dominio umano. In termini allegorici, rappresenta lo stato dell'animo di Dante, travolto da forze che non riesce a comprendere o governare. Inoltre, la selva selvaggia è un topos letterario che Dante trasforma per esprimere il caos interiore derivante dall’allontanamento dalla fede e dalla ragione.


L'attributo "aspra" introduce un'idea di difficoltà fisica e morale. L'asprezza della selva allude non solo alle difficoltà concrete del cammino, ma anche agli ostacoli spirituali e psicologici che Dante si trova ad affrontare. La strada verso la salvezza e la redenzione è tortuosa e impervia, segnata dalla fatica e dalla sofferenza. L'asprezza evoca anche l'asprezza delle passioni umane, del peccato e dell'errore che allontanano l'uomo dalla rettitudine.


Con "forte", Dante suggerisce la potenza e l'imponenza della selva. Qui, la selva non è solo un luogo difficile da attraversare, ma è anche oppressiva e minacciosa, come una forza inarrestabile. L'uso di questo aggettivo contribuisce a creare un’atmosfera di angoscia e impotenza, in cui Dante si sente piccolo e incapace di superare gli ostacoli che gli si parano davanti. In chiave allegorica, la "forza" della selva potrebbe rappresentare il peso delle passioni incontrollate e degli errori commessi, che rendono l’animo umano prigioniero di sé stesso.


Nell’ultimo verso della seconda terzina, si può ben denotare come il semplice atto di ricordare la selva possa riaccendere la paura in Dante. Questo verso testimonia quanto profonda sia stata la sua esperienza: anche solo il pensiero della selva è sufficiente a rinnovare in lui un senso di terrore. Ciò implica che la crisi non è stata semplicemente un episodio temporaneo, ma qualcosa che lo ha segnato profondamente, lasciando un'impronta permanente nella sua memoria e nella sua psiche.

Domande e risposte

Hai bisogno di aiuto?
Chiedi alla community