Concetti Chiave
- L'intervista a Bobin esplora la solitudine come "una materia", suggerendo che è un elemento essenziale e indivisibile della condizione umana.
- Bobin distingue tra una "solitudine cattiva" e una "buona", ma critica l'idea di unire concetti opposti, sostenendo che la solitudine pura non può contenere bontà.
- La vera solitudine è descritta come una condizione di vuoto interiore, un'attesa di trovare un significato più profondo e una connessione con sé stessi e con la vita.
- Il silenzio è visto come un elemento cruciale per comprendere la solitudine, permettendo una comunicazione con il proprio io interiore e con il divino.
- La distinzione tra solitudine e silenzio è che mentre la prima deriva dalla drammaticità umana, il silenzio è legato a una dimensione trascendente che offre una "respirazione" più ampia e profonda.
Indice
La solitudine come materia
Questa intervista a Bobin ha come tema centrale la solitudine o meglio quella che da lui è percepita come tale. Inizia, infatti, dando una definizione un po’ particolare di questo stato umano:
“la solitudine è una materia”. Ora, se si pensa al significato del termine materia la prima cosa che viene in mente è da riferirsi alla sostanza delle cose, l’essenza più profonda e misteriosa che riesce a dar forma a tutto ciò che esiste. È la solitudine che si sottende a tutto. Uomo compreso. Si tratta, quindi, di un’affermazione molto audace da fare dal momento che lascia un forte impatto su chi la legge. In realtà, però, l’ intervistato fa alcuni esempi della sua teoria per agganciarsi ad una tematica successiva, senza dare la dovuta importanza a un’ affermazione di tale spessore. E allora cosa significa tutto ciò? Forse un’ interpretazione è questa. Se si osserva la natura si può notare come ogni specie esistente sia sola nel suo esserci e non si replicherà mai uguale ad un’ altra se non a livello artificiale ma, entrando in questo campo, si perde la concezione della realtà e della verità per entrare in un’ illusione di creazione e quindi non è valido.
Unicità e solitudine
In un certo senso, però, per il semplice fatto di esser fatto venire alla luce dopo un oggetto di partenza, un oggetto, per usare un termine tecnico, clonato ha in sé l’unicità del tempo. Se si pensa, poi, all’uomo, l’evidenza che ognuno sia solo nel suo apparire è una certezza. Il discorso può anche essere esteso ai suoi organi interni. Un osso, un polmone, un fegato all’apparenza sono molto simili eppure ogni parte anatomica ha la sua peculiarità. Non a caso si fa sempre molta difficoltà nel fare dei trapianti. Si è compatibili ma non identici. Riassumendo, quindi, quello che Bobin aveva intenzione di esprimere con la sua frase è che la solitudine è l’unicità di ogni creatura.
Solitudine e grazia
Seguendo, quindi, il ragionamento è comprensibile capire il motivo della sua seguente affermazione: “La solitudine è più una grazia che una maledizione”. Se si analizza più in profondità, però, c’è qualcosa che stona. La solitudine intesa come materia, infatti, è legata ad un fattore esteriore, visivo e percettivo mentre sia la grazia che la maledizione sono delle condizioni legate all’animo dell’uomo assorbite solo da un cuore puro per la prima e un cuore macchiato per la seconda. C’è stata, quindi, un’associazione errata tra ciò che è prettamente estetico e ciò che invece è incorruttibilmente intimo. Bobin ha unito nella stessa parola solitudine due concetti: la solitudine stessa e la facoltà del silenzio ed è proprio quest’ ultimo rappresenta la grazia. È vero che lo scrittore nel corso dell’ intervista parla di una solitudine “cattiva” e una, invece, “buona” ma la realtà è che si sta snaturando la purezza di questo termine perché gli vengono attribuite caratteristiche che non gli appartengono. Si sta mescolando il nero con il bianco per avere un grigio banale e neutro senza far spiccare i due colori che lo formano. E in fondo una “solitudine buona” è questo, è un ossimoro che, però, non ha suscitato lo scalpore per cui era stato creato. La solitudine ha un qualcosa in sé che esprime una drammaticità così grande che non può contenere in sé nessuna bontà. Non è la semplice definizione del dizionario che può anche essere estesa all’animo umano per cui è considerata “La condizione, lo stato di chi è solo, come situazione passeggera o duratura” (secondo il Treccani) ma nasconde qualcosa in più. Un qualcosa che forse è riuscita a tradurre in parole la scrittrice Rebecca West nel suo romanzo “La famiglia Aubrey” in un dialogo tra una bambina, aspirante pianista, e suo padre, un giornalista brillante ma anticonvenzionale e, per questo, vive in umili condizioni: “In molti mi leggono e sembra che abbiano una buona opinione dei miei scritti. Ma quasi nessuno dà credito a una parola di quello che dico. E’ una sensazione molto curiosa, mia cara. Esisto e non esisto.
Qualche volta credo di sapere meglio di chiunque altro cosa significhi essere un fantasma prima di essere morto.
Il vuoto interiore
” La solitudine, quindi, sta a significare quell’attimo intenso che si protrae nel tempo in cui sai di esistere perché il tuo cuore ancora batte, il tuo respiro è forte eppure nel vivere più profondo si ha la percezione di essere piatti. Forse inutili perché si ha una voce che non viene udita, un corpo che non viene osservato, un pianto che non viene consolato, un animo che è ignorato. Ciò avviene in relazione con le altre persone nella fase più superficiale, più visibile all’occhio umano ma è ancora più radicato all’occhio del cuore. La vera e più intensa solitudine è il percepire di essere così degli sconosciuti a sé stessi e alla vita che sfiora la pelle ad ogni ticchettio dell’orologio. Sfiora perché non penetra nell’uomo dal momento che non trova una via di ingresso. È il trascorrere il tempo avendo il flagello di non percepire come funziona il proprio cuore, di ignorare cosa fa paura o cosa dona piacere. È sapere di avere la responsabilità di stare lasciando delle tracce su questa terra ma sono invisibili all’artefice mentre un frettoloso futuro bussa alle porte dell’interiorità perché si vuole costruire qualcosa di nuovo ma non si è pronti ad affrontarlo perché mancano dei pezzi del passato. Si vive, perciò, un eterno, tormentoso presente come Italo Calvino scrive ne “Il Visconte dimezzato”: "A volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane". Una metà che, però, non si riesce a compensare perché non si capisce come. Una sensazione che anche Bobin, alla fine, descrive: “C’è un vuoto in te, che non sopporti più e che ti affretti a riempire con cibi più o meno indigesti. Spesso riempiamo in fretta questo vuoto, questo buco, questa attesa nascente, mentre essa avrebbe bisogno ancora di un po’ di tempo per poterci dire quello che ha da dirci. Noi invece cerchiamo di colmarla immediatamente. È come una domanda che ci viene posta e che noi cerchiamo di fermare. Non rispondiamo… cerchiamo di ucciderla” I due autori hanno in comune il fatto di sentire un vuoto per la solitudine. Eppure c’è qualcosa di più del semplice vuoto. Non è vero che non c’è nulla nell’effetto che dà questa condizione perché altrimenti tutta la drammaticità non scaturirebbe nel cuore in quanto non ci si può preoccupare di qualcosa inesistente. Non c’è un vuoto perché non si prova apatia perché non si prova volontariamente ad essere privati dei propri sentimenti ma non si è capito come usarli. Non è vuoto perché nel momento in cui si cerca di trovare risposte non si riceve nulla ma si mette a nudo la propria condizione immobile. Non è vuoto perché non c’è l’abbandono perché si sa che in ognuno c’è qualcosa che batte e che ama. Se così non fosse si smetterebbe di sentirsi in questo modo. Non è vuoto ma una lunga attesa verso l’atto di dare al proprio fantasma un corpo. E questo momento quando arriverà? Nell’attimo in cui si imparerà a fare silenzio.
Il silenzio e il suo potere
Ed è ciò che Bobin ha raccontato nella sua intervista come il percepire “la maggior parte di quelle ore e di quei giorni come ore e giorni di pienezza in cui mi sento legato proprio a tutto!”. Il silenzio riesce a mettere in ordine tutto quello che è ignoto in noi perché è puro. E nella sua purezza, paradossalmente, riesce a creare un dialogo con l’uomo.
Gesù e il silenzio
Ma in che modo? Per rispondere a ciò bisogna guardare ad una particolare figura: Gesù. Se si pensa alla Sua nascita, la prima cosa su cui ci si focalizza è la straordinarietà dell’evento in quanto l’infinito si è fatto carne ed è entrato nel finito. Eppure questo atto è avvenuto in silenzio tanto che sono dovuti intervenire gli angeli per dare l’annuncio ai pastori. La sua infanzia è stata trascorsa nel silenzio in quanto si conosce davvero poco ma quel poco basta per sapere che lavorò con il suo padre putativo Giuseppe come falegname e quante volte la fatica ha lasciato senza fiato i due uomini? E nel momento in cui Gesù iniziò a testimoniare con e per i suoi discepoli in tutta la Galilea sembra che il silenzio si sia rotto ma a pensarci bene quelle parole per dilettare la folla erano formali mentre le vere parole che convertivano i cuori giungevano nel silenzio di una lacrima o in un sorriso appena accennato. Bisogna anche ricordare il momento in cui lo stesso Gesù si ritirò in preghiera nel silenzio del deserto prima di morire. Una morte la cui angoscia era coperta da un teso silenzio sfociato in un urlo straziante per poi ricadere nella più cupa assenza di suoni. Tutto questo cosa vuole dire? Gesù è nel silenzio perché Lui stesso è il silenzio. Se si fa l’etimologia della parola si potrà scoprire che un’antica interpretazione dice che nell'idea del silenzio è insita l'idea del legare, dell'unire, cioè l'idea di creare un canale di comunicazione privilegiato. Gesù, quindi, è il legame tra finito e infinito, tra uomo e Dio ed è per questo che la sua vita è permeata da questa condizione ma è anche un legame tra il nostro vivere e quella parte di noi che non si riesce a conoscere, quella parte reputata morta, ignorata.
Silenzio e comunicazione interiore
Ovviamente è un processo non immediato perché si deve imparare a stare in silenzio e non significa solamente non proferire parola ma significa cercare di sentire il proprio cuore battere, affrontare in pieno il moto dell’animo che persiste e scovare nel buio più profondo quella luce di parole preparate proprio per ognuno. Ma se il silenzio viene da Dio questo significa che un ateo non potrà mai percepire la profondità dello stare senza parole? Certo che no. Ogni uomo ha in sé parole nascoste che trascendono la vita di tutti i giorni e si insinuano nell’ uomo ma tante volte rimangono silenti perché non viene data loro la possibilità di esprimersi andando a finire in quell’interiorità all’uomo sconosciuta. Eppure se si riesce a tacere tutto ciò che si ha dentro pian piano viene in superficie andando a completare le parti mancanti dell’individuo. E a questo punto è lecita la domanda: “Ma che differenza c’è tra le parole udite nel silenzio di un cristiano e di un ateo?” Forse non si potrà rispondere oggettivamente al quesito dal momento che ognuno ha in sé una delle due posizioni ma, parlando secondo il cristianesimo, le parole che provengono dal Cristo sono le più belle perché le più candide, che vanno a toccare con un amore unico il cuore. Una sensazione, però, comune ad entrambi può essere racchiusa nelle parole di Bobin: “ed è per me una convinzione non sradicabile – credo che non siamo mai, mai, mai abbandonati. Mai.” Almeno finchè si avrà il silenzio.
Conclusione: solitudine e silenzio
In conclusione, quindi, la solitudine e silenzio sono due cose ben distinte, seppur conseguenti, dal momento che hanno due matrici diverse: la drammaticità umana e il trascendentale divino le quali non possono essere mescolare insieme ma solo legate così che ognuna risplenda nel proprio essere e siano per gli uomini “realtà "respiranti": aiutano a respirare, offrono la più ampia respirazione possibile.”
Domande da interrogazione
- Qual è la definizione di solitudine secondo Bobin?
- Come Bobin distingue tra solitudine "buona" e "cattiva"?
- Qual è il ruolo del silenzio nella comprensione della solitudine?
- In che modo il silenzio è collegato a Gesù secondo l'articolo?
- Qual è la differenza tra le parole udite nel silenzio di un cristiano e di un ateo?
Bobin definisce la solitudine come una "materia", suggerendo che è l'essenza profonda e misteriosa che dà forma a tutto ciò che esiste, compreso l'uomo.
Bobin parla di una solitudine "buona" e una "cattiva", ma l'articolo critica questa distinzione, affermando che la solitudine è drammatica e non può contenere bontà.
Il silenzio è visto come una grazia che permette di mettere in ordine ciò che è ignoto in noi, creando un dialogo con l'uomo e aiutando a comprendere la propria condizione.
Gesù è descritto come il silenzio stesso, un legame tra finito e infinito, e la sua vita è permeata dal silenzio, che rappresenta un canale di comunicazione privilegiato.
L'articolo suggerisce che le parole provenienti dal Cristo sono considerate le più belle e candide, ma entrambe le esperienze di silenzio possono portare a una sensazione di non essere mai abbandonati.