Versione originale in latino
Tum primum Caerites, tamquam in verbis hostium vis maior ad bellum significandum quam in suis factis, qui per populationem Romanos lacessierant, esset, verus belli terror invasit, et quam non suarum virium ea dimicatio esset cernebant; paenitebatque populationis et Tarquinienses exsecrabantur defectionis auctores; nec arma aut bellum quisquam apparare sed pro se quisque legatos mitti iubebat ad petendam erroris veniam. Legati senatum cum adissent, ab senatu reiecti ad populum deos rogaverunt, quorum sacra bello Gallico accepta rite procurassent, ut Romanos florentes ea sui misericordia caperet quae se rebus adfectis quondam populi Romani cepisset; conversique ad delubra Vestae hospitium flaminum Vestaliumque ab se caste ac religiose cultum invocabant: eane meritos crederet quisquam hostes repente sine causa factos? Aut, si quid hostiliter fecissent, consilio id magis quam furore lapsos fecisse, ut sua vetera beneficia, locata praesertim apud tam gratos, novis corrumperent maleficiis florentemque populum Romanum ac felicissimum bello sibi desumerent hostem, cuius adflicti amicitiam cepissent? Ne appellarent consilium, quae vis ac necessitas appellanda esset. Transeuntes agmine infesto per agrum suum Tarquinienses, cum praeter viam nihil petissent, traxisse quosdam agrestium populationis eius, quae sibi crimini detur, comites. Eos seu dedi placeat, dedere se paratos esse, seu supplicio adfici, daturos poenas. Caere, sacrarium populi Romani, deversorium sacerdotum ac receptaculum Romanorum sacrorum, intactum inviolatumque crimine belli hospitio Vestalium cultisque dis darent. Movit populum non tam causa praesens quam vetus meritum, ut maleficii quam beneficii potius immemores essent. Itaque pax populo Caeriti data indutiasque in centum annos factas in senatus consultum referri placuit. In Faliscos eodem noxios crimine vis belli conversa est; sed hostes nusquam inventi. Cum populatione peragrati fines essent, ab oppugnatione urbium temperatum; legionibusque Romam reductis reliquum anni muris turribusque reficiendis consumptum et aedis Apollinis dedicata est.
Traduzione all'italiano
Fu in quel momento che gli abitanti di Cere, come se nelle parole dei nemici ci fossero più minacce di guerra che non nelle provocazioni e nelle devastazioni da loro inflitte ai Romani, vennero presi per la prima volta dal terrore di dover affrontare lo scontro e cominciarono a rendersi conto dell'inadeguatezza delle loro forze a quel genere di conflitto. Così si pentivano dei saccheggi compiuti e maledicevano i Tarquiniesi per averli trascinati alla defezione. Non c'era un solo cittadino che si armasse o facesse preparativi di guerra, ma tutti chiedevano di inviare ambasciatori a chiedere perdono dell'errore commesso. Quando gli ambasciatori si presentarono al senato, i senatori li mandarono di fronte al popolo. Lì, invocando gli dèi, i cui oggetti sacri essi avevano conservato durante la guerra con i Galli proteggendoli secondo le prescrizioni rituali, gli ambasciatori implorarono i celesti di ispirare a un popolo romano ora florido e potente quella stessa compassione che la gente di Cere aveva avuto per Roma sull'orlo della disfatta. Poi, rivoltisi verso il santuario di Vesta, implorarono il collegio dei flamini e le Vestali, cui essi avevano offerto ospitalità con religiosa devozione. Chi poteva credere che gente comportatasi in maniera così meritoria nei confronti dei Romani potesse essersi ora trasformata in nemica senza averne alcun motivo? O che se anche avesse commesso qualche gesto ostile, ciò non fosse dovuto a un momento di follia ma costituisse un atto premeditato, mirato a guastare con misfatti recenti i benefici conquistati in passato e collocati per di più presso uomini tanto riconoscenti, a trasformare in nemico di un popolo romano ora nel pieno del benessere e della potenza militare chi gli era stato amico nell'ora delle difficoltà? Non chiamassero 'premeditazione' ciò che andava invece chiamato 'forza e necessità'! I Tarquiniesi, attraversando in assetto di guerra il loro territorio, avevano chiesto solo il permesso di passare: poi però si erano trascinati dietro gente dei campi che aveva preso parte ai saccheggi, e questi venivano adesso imputati agli abitanti di Cere. Se i Romani desideravano che quegli uomini fossero consegnati, erano disposti a farlo; se invece desideravano che li si punisse, non avrebbero esitato a metterli a morte. Ma Cere, vero santuario del popolo romano, asilo per i sacerdoti e rifugio per gli oggetti sacri dei Romani, fosse lasciata intatta e immune dall'accusa di voler muovere guerra, in nome dell'ospitalità offerta alle Vestali e della reverenza dimostrata nei confronti delle divinità. Ciò che commosse il popolo non fu tanto la causa perorata in quel momento, quanto piuttosto il ricordo dei meriti conquistati in passato: così fu portato a scegliere di dimenticare un'offesa piuttosto che un beneficio. Pertanto agli abitanti di Cere venne concessa la pace, e si decise di proclamare una tregua di cento anni, sancendola con un senatoconsulto. La violenza della guerra venne rivolta contro i Falisci, sui quali pendeva lo stesso tipo di imputazione. Ma non si trovarono tracce del nemico. Dopo aver devastato le campagne nella loro estensione, i Romani si astennero dall'assediare i centri abitati. Una volta ricondotte a Roma le legioni, il resto dell'anno venne impiegato nella riparazione di mura e torri, e ci fu la consacrazione di un tempio ad Apollo.