Versione originale in latino
Extremo anno pacis aliquid fuit, sed, ut semper alias, sollicitae certamine patrum et plebis. Irata plebs interesse consularibus comitiis noluit; per patres clientesque patrum consules creati T. Quinctius Q. Servilius. Similem annum priori habent, seditiosa initia, bello deinde externo tranquilla. Sabini Crustuminos campos citato agmine transgressi cum caedes et incendia circum Anienem flumen fecissent, a porta prope Collina moenibusque pulsi ingentes tamen praedas hominum pecorumque egere. Quos Servilius consul infesto exercitu insecutus ipsum quidem agmen adipisci aequis locis non potuit, populationem adeo effuse fecit, ut nihil bello intactum relinquerent multiplicique capta praeda rediret. Et in Volscis res publica egregie gesta cum ducis tum militum opera. Primum aequo campo signis conlatis pugnatum, ingenti caede utrimque, plurimo sanguine; et Romani, quia paucitas damno sentiendo propior erat, gradum rettulissent, ni salubri mendacio consul fugere hostes ab cornu altero clamitans concitasset aciem. Impetu facto dum se putant vincere vicere. Consul metuens ne nimis instando renovaret certamen, signum receptui dedit. Intercessere pauci dies, velut tacitis indutiis utrimque quiete sumpta, per quos ingens vis hominum ex omnibus Volscis Aequisque populis in castra venit, haud dubitans si senserint Romanos nocte abituros. Itaque tertia fere vigilia ad castra oppugnanda veniunt. Quinctius sedato tumultu quem terror subitus exciverat, cum manere in tentoriis quietum militem iussisset, Hernicorum cohortem in stationem educit, cornicines tubicinesque in equos impositos canere ante vallum iubet sollicitumque hostem ad lucem tenere. Reliquum noctis adeo tranquilla omnia in castris fuere ut somni quoque Romanis copia esset. Volscos species armatorum peditum, quos et plures esse et Romanos putabant, fremitus hinnitusque equorum, qui et insueto sedente equite et insuper aures agitante sonitu saeviebant, intentos velut ad impetum hostium tenuit.
Traduzione all'italiano
L’anno si chiuse con uno spiraglio di pace, ma, come in tutte le precedenti occasioni, si trattò di una situazione appesa a un filo per la rivalità tra patrizi e plebei. La plebe, indignata, non volle prendere parte ai comizi consolari; grazie ai voti dei senatori e dei loro clienti vennero nominati consoli Tito Quinzio e Quinto Servilio. L’anno del loro mandato assomigliò a quello appena trascorso: disordini all’inizio, e alla fine una guerra esterna a mettere a posto ogni cosa. I Sabini, attraversando a marce forzate i campi Crustumini, seminarono morte e devastazione intorno al fiume Aniene; furono respinti soltanto a due passi dalla porta Collina e dalle mura, non prima però di aver messo insieme un consistente bottino di prigionieri e di bestiame. Il console Servilio, buttatosi all’inseguimento con un contingente armato, non riuscendo a raggiungere le loro schiere in un punto pianeggiante, si diede a devastare la zona con una tale meticolosità che nulla venne risparmiato e egli ritornò con un bottino nemmeno lontanamente paragonabile a quello fatto dai Sabini. Nella campagna contro i Volsci brillarono per efficienza tanto il comandante quanto i soldati. Sulle prime ci fu uno scontro in aperta pianura ed entrambe le formazioni lamentarono moltissime perdite e un gran numero di feriti. E i Romani, colpiti più a fondo da quelle perdite a causa dell’inferiorità numerica, avrebbero cominciato a ritirarsi, se il console, ricorrendo a una coraggiosa menzogna, non avesse ridato forza e convinzione urlando che il nemico stava fuggendo dall’altra parte dello schieramento. Si buttarono così al contrattacco e, credendosi vincitori, ottennero la vittoria. Il console, ritenendo che un inseguimento troppo insistito avrebbe riacceso la battaglia, fece dare il segnale della ritirata. Per qualche giorno, in una specie di tacito accordo, entrambe le parti non si mossero. Nel frattempo, un ingente schieramento di rinforzi reclutato tra tutte le tribù dei Volsci e degli Equi raggiunse il loro accampamento, con la certezza che i Romani sarebbero partiti nel cuore della notte se lo fossero venuti a sapere. Così, intorno a mezzanotte, mossero all’attacco dell’accampamento. Quinzio, dopo aver placato il trambusto seguito all’improvviso spavento, diede ordine ai soldati di rimanere tranquillamente nelle proprie tende; quindi guidò sugli avamposti una coorte di Ernici e, dopo aver fatto montare a cavallo i suonatori di corno e i trombettieri, ordinò di suonare i loro strumenti di fronte alla trincea e di tenere il nemico sul chi vive fino all’alba. Per il resto della notte, nell’accampamento la calma fu così totale che anche i Romani riuscirono a dormire. Quanto ai Volsci, intravedendo quelle figure di fanti armati (che essi ritenevano molto più numerosi e romani) e sentendo il nitrito e lo scalpitare dei cavalli imbizzarriti per la novità della cavalcatura e per quel suono assordante nelle orecchie, rimasero in stato di allerta come di fronte all’imminenza di un attacco nemico.