Mika
di Mika
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Versione originale in latino


Vix humanae inde opis videri pugna potuit. Romani duce amisso, quae res terrori alias esse solet, sistere fugam ac novam de integro velle instaurare pugnam; Galli et maxime globus circumstans consulis corpus velut alienata mente vana in cassum iactare tela; torpere quidam et nec pugnae meminisse nec fugae. At ex parte altera pontifex Livius, cui lictores Decius tradiderat iusseratque pro praetore esse, vociferari vicisse Romanos defunctos consulis fato; Gallos Samnitesque Telluris Matris ac Deorum Manium esse; rapere ad se ac vocare Decium devotam secum aciem furiarumque ac formidinis plena omnia ad hostes esse.
Superveniunt deinde his restituentibus pugnam L. Cornelius Scipio et C. Marcius, cum subsidiis ex novissima acie iussu Q. Fabi consulis ad praesidium collegae missi. Ibi auditur P. Deci eventus, ingens hortamen ad omnia pro re publica audenda. Itaque cum Galli structis ante se scutis conferti starent nec facilis pede conlato videretur pugna, iussu legatorum collecta humi pila, quae strata inter duas acies iacebant, atque in testudinem hostium coniecta; quibus plerisque in scuta verutisque raris in corpora ipsa fixis sternitur cuneus ita ut magna pars integris corporibus attoniti conciderent. Haec in sinistro cornu Romanorum fortuna variaverat. Fabius in dextro primo, ut ante dictum est, cunctando extraxerat diem; dein, postquam nec clamor hostium nec impetus nec tela missa eandem vim habere visa, praefectis equitum iussis ad latus Samnitium circumducere alas, ut signo dato in transversos quanto maximo possent impetu incurrerent, sensim suos signa inferre iussit et commovere hostem. Postquam non resisti vidit et haud dubiam lassitudinem esse, tum collectis omnibus subsidiis, quae ad id tempus reservaverat, et legiones concitavit et signum ad invadendos hostes equitibus dedit. Nec sustinuerunt Samnites impetum praeterque aciem ipsam Gallorum relictis in dimicatione sociis ad castra effuso cursu ferebantur: Galli testudine facta conferti stabant. Tum Fabius audita morte collegae Campanorum alam, quingentos fere equites, excedere acie iubet et circumvectos ab tergo Gallicam invadere aciem; tertiae deinde legionis subsequi principes et, qua turbatum agmen hostium viderent impetu equitum, instare ac territos caedere. Ipse aedem Iovi Victori spoliaque hostium cum vovisset, ad castra Samnitium perrexit, quo multitudo omnis consternata agebatur. Sub ipso vallo, quia tantam multitudinem portae non recepere, temptata ab exclusis turba suorum pugna est; ibi Gellius Egnatius, imperator Samnitium, cecidit; compulsi deinde intra vallum Samnites parvoque certamine capta castra et Galli ab tergo circumventi. Caesa eo die hostium viginti quinque milia, octo capta; nec incruenta victoria fuit; nam ex P. Deci exercitu caesa septem milia, ex Fabi mille septingenti. Fabius dimissis ad quaerendum collegae corpus spolia hostium coniecta in acervum Iovi Victori cremavit. Consulis corpus eo die, quia obrutum superstratis Gallorum cumulis erat, inveniri non potuit; postero die inventum relatumque est cum multis militum lacrimis. Intermissa inde omnium aliarum rerum cura Fabius collegae funus omni honore laudibusque meritis celebrat.

Traduzione all'italiano


Da quel momento in poi sembrò che la battaglia non dipendesse troppo da forze umane. I Romani, perso il proprio comandante - ciò che di solito in altri casi crea scompiglio -, riuscirono a bloccare la fuga e cercarono di riequilibrare le sorti della battaglia. I Galli, in particolar modo quella parte di essi che stava intorno al cadavere del console, tiravano frecce a caso e fuori bersaglio, come avessero perso l'uso della ragione. Alcuni erano come paralizzati e non riuscivano a concentrarsi né sul combattimento né sulla fuga. Dalla parte opposta il pontefice Livio, cui Decio aveva affidato i littori dandogli disposizione di sostituirlo nel comando, urlava che i Romani avevano vinto, perché con la morte del console si erano liberati del debito nei confronti degli dèi: i Galli e i Sanniti appartenevano ormai alla madre Terra e agli dèi Mani, Decio trascinava con sé richiamandolo l'esercito che aveva votato in sacrificio con la propria persona, e i nemici erano in preda al panico e alle furie. Poi, mentre già quelli stavano riequilibrando la battaglia, dalle retrovie arrivarono con rinforzi Lucio Cornelio Scipione e Gaio Marcio, inviati dal console Quinto Fabio in aiuto al collega. Lì essi appresero la fine di Publio Decio, che era un grande incitamento a osare qualunque tipo di azione in nome dello Stato. Poi, visto che i Galli serravano i ranghi tenendo gli scudi attaccati al corpo per proteggersi, e il corpo a corpo non sembrava facilmente praticabile, i luogotenenti ordinarono di raccogliere le aste che si trovavano al suolo in mezzo ai due schieramenti, e di scagliarle contro la formazione a testuggine dei nemici. La maggior parte delle aste andarono a conficcarsi negli scudi e solo poche punte trafissero la carne, ma la formazione nemica perdette compattezza, perché molti, pur non avendo ricevuto un graffio, stramazzarono a terra storditi. All'ala sinistra romana furono queste le alterne vicende che si verificarono. Alla destra Fabio - come già detto in precedenza - temporeggiando era riuscito a protrarre lo scontro. Quando ebbe l'impressione che sia le urla e l'animosità dei nemici sia i loro colpi non avessero più la stessa intensità, ordinò ai prefetti della cavalleria di guidare le ali ai fianchi dei nemici, per assalirli di lato con il maggior impeto possibile al segnale convenuto. Ai fanti ordinò invece di avanzare per gradi, stanando il nemico dalle posizioni in cui era attestato. Quando si rese conto che gli avversari non opponevano resistenza e che davano evidenti segni di spossatezza, raccolti tutti i riservisti (tenuti in serbo per quel preciso momento), lanciò la fanteria all'assalto e diede ai cavalieri il segnale della carica contro il nemico. I Sanniti non ressero l'urto: superato nella foga della ritirata lo schieramento dei Galli, abbandonarono gli alleati nella mischia, correndo a perdifiato verso l'accampamento. I Galli, da parte loro, riformarono la testuggine, e non si disunirono. Fu allora che Fabio, saputo della morte del collega, ordinò ai 500 cavalieri che formavano l'ala campana di abbandonare la linea del combattimento e di aggirare lo schieramento dei Galli per prenderli alle spalle. Ai principes della terza legione ordinò di seguirli, e, là dove si fossero imbattuti in reparti nemici scompigliati dall'assalto della cavalleria, di incalzarli massacrandoli mentre erano in preda al panico. Egli poi, promesso in voto un tempio e le spoglie nemiche a Giove Vincitore, si diresse verso l'accampamento sannita, dove stava convergendo tutta la massa sbandata. Proprio sotto la trincea, poiché le porte non erano ampie abbastanza per far passare una tale quantità di armati, gli uomini rimasti chiusi fuori cercarono ancora una volta di ricorrere alla battaglia: lì cadde Gello Egnazio, il comandante in capo delle forze sannite. I Sanniti vennero poi ricacciati al di là della trincea, e dopo un brevissimo scontro l'accampamento venne conquistato e i Galli raggiunti alle spalle. In quella giornata vennero uccisi 25.000 nemici, mentre i prigionieri catturati ammontarono a 8.000. Ma la vittoria non fu certo priva di perdite, visto che tra gli uomini di Decio vi furono 7.000 caduti, tra quelli di Fabio più di 1.700. Questi fece cercare il corpo del collega, e bruciò in onore di Giove Vincitore una catasta fatta con le spoglie dei nemici. Per quel giorno non si riuscì a trovare il corpo del console, perché giaceva sepolto sotto i cumuli di Galli ammassati l'uno sull'altro. Fu rinvenuto il giorno successivo e riportato indietro accompagnato dalle lacrime copiose dei soldati. Fabio, lasciando da parte ogni altra incombenza, rese gli onori funebri al collega, che onorò in ogni modo e cui rivolse un meritato elogio.

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