Versione originale in latino
Patrum interim animos certamen regni ac cupido versabat; necdum ad singulos, quia nemo magnopere eminebat in novo populo, pervenerat: factionibus inter ordines certabatur. Oriundi ab Sabinis, ne quia post Tati mortem ab sua parte non erat regnatum, in societate aequa possessionem imperii amitterent, sui corporis creari regem volebant: Romani veteres peregrinum regem aspernabantur. In variis voluntatibus regnari tamen omnes volebant, libertatis dulcedine nondum experta. Timor deinde patres incessit ne civitatem sine imperio, exercitum sine duce, multarum circa civitatium inritatis animis, vis aliqua externa adoriretur. Et esse igitur aliquod caput placebat, et nemo alteri concedere in animum inducebat. Ita rem inter se centum patres, decem decuriis factis singulisque in singulas decurias creatis qui summae rerum praeessent consociant. Decem imperitabant: unus cum insignibus imperii et lictoribus erat: quinque dierum spatio finiebatur imperium ac per omnes in orbem ibat, annuumque intervallum regni fuit. Id ab re quod nunc quoque tenet nomen interregnum appellatum. Fremere deinde plebs multiplicatam servitutem, centum pro uno dominos factos; nec ultra nisi regem et ab ipsis creatum videbantur passuri. Cum sensissent ea moveri patres, offerendum ultro rati quod amissuri erant, ita gratiam ineunt summa potestate populo permissa ut non plus darent iuris quam detinerent. Decreverunt enim ut cum populus regem iussisset, id sic ratum esset si patres auctores fierent. Hodie quoque in legibus magistratibusque rogandis usurpatur idem ius, vi adempta: priusquam populus suffragium ineat, in incertum comitiorum eventum patres auctores fiunt. Tum interrex contione advocata, "Quod bonum, faustum felixque sit" inquit, "Quirites, regem create: ita patribus visum est. Patres deinde, si dignum qui secundus ab Romulo numeretur crearitis, auctores fient." Adeo id gratum plebi fuit ut, ne victi beneficio viderentur, id modo sciscerent iuberentque ut senatus decerneret qui Romae regnaret.
Traduzione all'italiano
Nel frattempo, tra i senatori, era in pieno svolgimento una lotta febbrile per la gestione del potere. Non si era però ancora giunti a candidature individuali perché nel nuovo popolo non c'era nessuna figura particolarmente di spicco: si trattava di uno scontro di diverse fazioni all'interno delle classi. I cittadini di origine sabina, dopo la morte di Tito Tazio, non avevano più avuto un loro re. Così, nel timore di dover rinunciare alla spartizione del potere pur continuando a godere degli stessi diritti politici, volevano che venisse eletto un re della loro etnia. Ma i Romani di vecchia data rifiutavano l'idea di avere un re forestiero. Pur nella pluralità di vedute, tutti volevano ugualmente essere sottoposti all'autorità di un monarca: infatti non avevano ancora assaporato il dolce piacere della libertà. Poi i senatori cominciarono a preoccuparsi seriamente, pensando che la città priva di un governo e l'esercito privo di un comandante in campo rischiassero un qualche attacco da fuori, visto che si trovavano in mezzo a una serie di vicini particolarmente maldisposti nei loro confronti. Erano quindi tutti d'accordo sulla necessità di avere qualcuno a capo, ma nessuno aveva in animo di rinunciare a favore dell'altro. Così i cento senatori decidono di governare collegialmente: creano dieci decurie e da ognuna di esse traggono un rappresentante destinato a gestire l'amministrazione dello stato. Governavano, quindi, in dieci, anche se uno solo aveva le insegne ed era scortato dai littori. Il potere di ciascuno di essi durava cinque giorni, poi passava a rotazione a tutti gli altri. Si trattò di un intervallo di un anno. Siccome intercorse tra due regni, fu chiamato interregno, termine ancor oggi in uso. Ma allora la plebe cominciò a lamentare l'aggravarsi del suo rapporto di sudditanza, visto che al posto di un padrone adesso gliene toccavano cento. Era chiaro che avrebbero al massimo sopportato un re e questo eletto secondo le loro preferenze. Quando i senatori si resero conto dell'andazzo, pensarono che sarebbe stato bene offrire spontaneamente ciò che era destino avrebbero perso. E così si guadagnarono il favore popolare concedendo il potere supremo, senza però elargire più prerogative di quante ne mantennero per sé. Infatti decretarono che il popolo avrebbe eletto il re, ma la nomina sarebbe stata valida solo dopo la loro ratifica. Ancor oggi, quando si votano le leggi e si eleggono i magistrati, viene esercitato questo diritto, anche se ormai privato della sua importanza: i senatori anno la loro ratifica prima che il popolo vada alle urne e quando non si conosce ancora l'esito del voto. In quell'occasione, il sovrano in carica convocò l'assemblea e disse: "La fortuna, la prosperità e la felicità possano assisterci! Quiriti, sceglietevi un re, questo è il volere dei senatori. E se chi eleggerete sarà degno di esser chiamato successore di Romolo, in quel caso vogliano confermare la vostra scelta." La proposta fu talmente gradita al popolo che, per non sembrare da meno nella generosità, si limitò a decidere e a ordinare che fosse il senato a stabilire chi doveva regnare a Roma.