Pillaus
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Versione originale in latino


Hac expeditione consulis motum latius erat quam profligatum bellum; vastationem namque sub Ciminii montis radicibus iacens ora senserat conciveratque indignatione non Etruriae modo populos sed Umbriae finitima. Itaque quantus non unquam antea exercitus ad Sutrium venit; neque e silvis tantummodo promota castra sed etiam aviditate dimicandi quam primum in campos delata acies. Deinde instructa primo suo stare loco, relicto hostibus ad instruendum contra spatio: dein, postquam detractare hostem sensere pugnam, ad vallum subeunt.
Ubi postquam stationes quoque receptas intra munimenta sensere, clamor repente circa duces ortus, ut eo sibi e castris cibaria eius diei deferri iuberent: mansuros se sub armis et aut nocte aut certe luce prima castra hostium invasuros. Nihilo quietior Romanus exercitus imperio ducis continetur. Decima erat fere diei hora cum cibum capere consul milites iubet; praecipit ut in armis sint quacumque diei noctisve hora signum dederit. Paucis milites adloquitur; Samnitium bella extollit, elevat Etruscos; nec hostem hosti nec multitudinem multitudini comparandam ait; esse praeterea telum aliud occultum; scituros in tempore; interea taceri opus esse. His ambagibus prodi simulabat hostes, quo animus militum multitudine territus restitueretur; et, quod sine munimento consederant, veri similius erat quod simulabatur. Curati cibo corpora quieti dant et quarta fere vigilia sine tumultu excitati arma capiunt. Dolabrae calonibus dividuntur ad vallum proruendum fossasque implendas. Intra munimenta instruitur acies; delectae cohortes ad portarum exitus conlocantur. Dato deinde signo paulo ante lucem, quod aestivis noctibus sopitae maxime quietis tempus est, proruto vallo erupit acies, stratos passim invadit hostes; alios immobiles, alios semisomnos in cubilibus suis, maximam partem ad arma trepidantes caedes oppressit. Paucis armandi se datum spatium est; eos ipsos non signum certum, non ducem sequentes fundit Romanus fugatosque persequitur. Ad castra, ad silvas diversi tendebant. Silvae tutius dedere refugium; nam castra in campis sita eodem die capiuntur. Aurum argentumque iussum referri ad consulem; cetera praeda militis fuit. Caesa aut capta eo die hostium milia ad sexaginta. Eam tam claram pugnam trans Ciminiam silvam ad Perusiam pugnatam quidam auctores sunt metuque in magno civitatem fuisse ne interclusus exercitus tam infesto saltu coortis undique Tuscis Umbrisque opprimeretur. Sed ubicumque pugnatum est, res Romana superior fuit. Itaque a Perusia et Cortona et Arretio, quae ferme capita Etruriae populorum ea tempestate erant, legati pacem foedusque ab Romanis petentes indutias in triginta annos impetraverunt.

Traduzione all'italiano


Invece di porre termine alla guerra, questa spedizione del console ne aveva ampliato il raggio: infatti le genti che abitavano ai piedi dei monti Cimini erano state gravemente danneggiate dalle incursioni romane, e avevano contagiato con il loro risentimento non solo i popoli dell'Etruria, ma anche quelli confinanti dell'Umbria. Per questo motivo misero insieme nei pressi di Sutri un esercito più numeroso di quanto non avessero mai fatto prima, e non si limitarono soltanto a trasferire l'accampamento al di là della selva ma, per l'impazienza di arrivare allo scontro, portarono anche l'esercito nella pianura. Poi, schieratisi in ordine di battaglia, in un primo tempo rimasero fermi sulle loro posizioni, lasciando ai Romani lo spazio necessario per disporsi di fronte. Vedendo però che i nemici si rifiutavano di venire a battaglia, si presentarono sotto la trincea. Quando poi si resero conto che anche le postazioni più avanzate erano state ritirate all'interno delle fortificazioni, si levò sùbito dalle file un urlo rivolto ai comandanti, col quale chiedevano venissero loro portati dall'accampamento i viveri per quel giorno. Sarebbero rimasti lì con le armi in pugno, e nel corso della notte - o, al più tardi, alle prime luci del giorno - avrebbero attaccato il campo nemico. L'esercito romano, pur essendo certo non meno impaziente, venne trattenuto sul posto dalle disposizioni del comandante. Erano più o meno le quattro del pomeriggio, quando il console ordinò ai soldati di consumare il rancio, e li avvisò di farsi trovare armati, in qualunque ora del giorno o della notte egli avesse dato il segnale di attacco. Rivolse un breve discorso alle truppe, esaltando le guerre contro i Sanniti, sminuendo gli Etruschi, e sostenendo che i due nemici non erano da mettere sullo stesso piano né per valore né per numero di effettivi. Aggiunse poi che vi era un'altra arma segreta che avrebbero conosciuto a tempo debito, ma che per il momento era necessario rimanesse nascosta. Con questi accenni sibillini voleva alludere al fatto che i nemici erano minacciati alle spalle, e lo faceva per confortare il morale dei soldati, spaventati dalla grande quantità dei nemici. La messinscena era resa più verosimile dal fatto che il nemico aveva preso posizione senza però costruire dispositivi di difesa. Dopo aver ridato vigore ai corpi col rancio, si lasciarono andare al sonno. Furono svegliati verso le quattro del mattino e presero le armi senza fare rumore. Ai portatori vennero distribuite le asce per abbattere il terrapieno e riempire le fosse. L'esercito venne schierato al di qua delle fortificazioni, mentre le coorti scelte furono piazzate alle uscite delle porte. Avendo poi ricevuto il segnale poco prima dell'alba - ovvero l'ora che nelle notti d'estate è più propizia al sonno intenso -, l'esercito abbatté il terrapieno e saltò fuori, assalendo i nemici coricati in maniera disordinata. La morte ne sorprese alcuni del tutto immobili, altri mezzo addormentati nei loro giacigli, e la maggior parte mentre cercava affannosamente di prendere le armi. Soltanto a pochi venne lasciato il tempo di armarsi: ma anche questi, non avendo insegne da seguire e comandanti cui obbedire, vennero sbaragliati, messi in fuga e inseguiti. Disseminati in tutte le direzioni, tentarono di raggiungere l'accampamento o il fitto della boscaglia. E furono proprio le selve a offrire un rifugio più sicuro, perché l'accampamento situato in aperta campagna venne catturato nel corso di quello stesso giorno. L'ordine fu di consegnare oro e argento al console, mentre tutto il resto venne lasciato ai soldati. Quel giorno furono uccisi o fatti prigionieri 60.000 nemici. Alcuni autori sostengono che questa battaglia tanto gloriosa fu combattuta al di là della selva Ciminia nei pressi di Perugia, e che a Roma si stette in grande ansia, per paura che l'esercito tagliato fuori da quel bosco impraticabile che faceva da barriera venisse sopraffatto dagli Etruschi e dagli Umbri insorti da ogni parte. Ma in qualunque punto sia avvenuta la battaglia, è certo che a vincere furono i Romani. Da Perugia, Cortona e Arezzo, che a quell'epoca erano le città più in vista di tutto il mondo etrusco, arrivarono ambasciatori con richieste di pace e alleanza rivolte ai Romani. Venne loro concessa una tregua di trent'anni.

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