Mika
di Mika
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Versione originale in latino


Neque eo minus principio insequentis anni, Q. Servilio Ahala L. Genucio consulibus, dies Manlio dicitur a M. Pomponio tribuno plebis. Acerbitas in dilectu, non damno modo civium sed etiam laceratione corporum lata, partim virgis caesis qui ad nomina non respondissent, partim in vincula ductis, invisa erat, et ante omnia invisum ipsum ingenium atrox cognomenque Imperiosi, grave liberae civitati, ab ostentatione saevitiae adscitum quam non magis in alienis quam in proximis ac sanguine ipse suo exerceret.
Criminique ei tribunus inter cetera dabat quod filium iuvenem nullius probri compertum, extorrem urbe, domo, penatibus, foro, luce, congressu aequalium prohibitum, in opus servile, prope in carcerem atque in ergastulum dederit, ubi summo loco natus dictatorius iuvenis cotidiana miseria disceret vere imperioso patre se natum esse. At quam ob noxam? Quia infacundior sit et lingua impromptus; quod naturae damnum utrum nutriendum patri, si quicquam in eo humani esset, an castigandum ac vexatione insigne faciendum fuisse? Ne mutas quidem bestias minus alere ac fovere si quid ex progenie sua parum prosperum sit; at hercule L. Manlium malum malo augere filii et tarditatem ingenii insuper premere et, si quid in eo exiguum naturalis vigoris sit, id exstinguere vita agresti et rustico cultu inter pecudes habendo.

Traduzione all'italiano


Tuttavia, all'inizio dell'anno seguente, durante il consolato di Quinto Servilio Aala e di Lucio Genucio, il tribuno della plebe Marco Pomponio non ebbe esitazioni a citare in giudizio Lucio Manlio. Il risentimento nei suoi confronti era dovuto alla severità dimostrata nella leva, per la quale i cittadini avevano subito non solo ammende pecuniarie ma anche violenze fisiche, alcuni essendo stati frustati per non aver risposto alla chiamata, altri essendo stati gettati in carcere. Ma ciò che più irritava erano la crudeltà del carattere e il suo soprannome, Imperioso: era offensivo per un paese libero ed era stato assunto come ostentazione della ferocia da lui mostrata tanto nei confronti di estranei quanto verso gli amici più cari e i membri della sua stessa famiglia. Tra le altre imputazioni il tribuno lo accusava del comportamento tenuto nei riguardi del figlio: quest'ultimo, benché non fosse stato riconosciuto colpevole di alcun reato, era stato bandito da Roma, dalla casa paterna e dai penati; Manlio lo aveva allontanato dal foro, privato della luce del giorno e della compagnia dei coetanei, costretto a un lavoro da schiavo, come in un carcere, in un ergastolo, dove un giovane di nobili natali e figlio di un dittatore potesse apprendere dalla quotidiana sofferenza quanto fosse veramente imperioso il padre che l'aveva generato. E quale era stata la sua colpa? La scarsa eloquenza e prontezza di lingua. Ma non sarebbe stato cómpito del padre, se in lui ci fosse stato qualcosa di umano, correggere questo difetto di natura invece di peggiorarlo con punizioni e tormenti? Perfino gli animali allo stato brado, se uno dei loro piccoli è meno fortunato, non di meno continuano a nutrirlo e a curarsi di lui. Ma, per Ercole, Lucio Manlio il male che affliggeva il figlio lo aumentava facendogli del male, e in più soffocandone lo sviluppo dell'indole già poco pronta. E se poi in lui restava qualcosa della naturale vitalità, Manlio la spegneva costringendo il giovane a vivere in maniera selvaggia e a crescere tra le bestie.

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