Versione originale in latino
At enim apparet quidem pollui omnia nec ullis piaculis expiari posse; sed res ipsa cogit vastam incendiis ruinisque relinquere urbem et ad integra omnia Veios migrare nec hic aedificando inopem plebem vexare. Hanc autem iactari magis causam quam veram esse, ut ego non dicam, apparere vobis, Quirites, puto, qui meministis ante Gallorum adventum, salvis tectis publicis privatisque, stante incolumi urbe, hanc eandem rem actam esse ut Veios transmigraremus. Et videte quantum inter meam sententiam vestramque intersit, tribuni. Vos, etiamsi tunc faciendum non fuerit, nunc utique faciendum putatis: ego contra - nec id mirati sitis, priusquam quale sit audieritis - etiamsi tum migrandum fuisset incolumi tota urbe, nunc has ruinas relinquendas non censerem. Quippe tum causa nobis in urbem captam migrandi victoria esset, gloriosa nobis ac posteris nostris; nunc haec migratio nobis misera ac turpis, Gallis gloriosa est. Non enim reliquisse victores, sed amisisse victi patriam videbimur: hoc ad Alliam fuga, hoc capta urbs, hoc circumsessum Capitolium necessitas imposuisse ut desereremus penates nostros exsiliumque ac fugam nobis ex eo loco conscisceremus quem tueri non possemus. Et Galli evertere potuerunt Romam quam Romani restituere non videbuntur potuisse? Quid restat nisi ut, si iam novis copiis veniant - constat enim vix credibilem multitudinem esse - et habitare in capta ab se, deserta a vobis hac urbe velint, sinatis? Quid? Si non Galli hoc sed veteres hostes vestri, Aequi Volscive, faciant ut commigrent Romam, velitisne illos Romanos, vos Veientes esse? An malitis hanc solitudinem vestram quam urbem hostium esse? Non equidem video quid magis nefas sit. Haec scelera, quia piget aedificare, haec dedecora pati parati estis? Si tota urbe nullum melius ampliusve tectum fieri possit quam casa illa conditoris est nostri, non in casis ritu pastorum agrestiumque habitare est satius inter sacra penatesque nostros quam exsulatum publice ire? Maiores nostri, convenae pastoresque, cum in his locis nihil praeter silvas paludesque esset, novam urbem tam brevi aedificarunt: nos Capitolio, arce incolumi, stantibus templis deorum, aedificare incensa piget? Et, quod singuli facturi fuimus si aedes nostrae deflagrassent, hoc in publico incendio universi recusamus facere?
Traduzione all'italiano
Ma, voi mi direte, così facendo tutto risulterebbe contaminato senza alcuna possibilità di purificazione; tuttavia lo stato delle cose in sé e per sé ci obbliga ad abbandonare una città trasformata in un deserto dagli incendi e dalle rovine, e a trasferirci a Veio dove tutto è intatto, evitando così di vessare la povera plebe con la ricostruzione qui della città. Eppure che questo sia un semplice pretesto più che il motivo reale credo vi sia chiaro, o Quiriti, senza che debba venirvelo a dire io; vi ricordate infatti benissimo di come, prima dell'arrivo dei Galli (quando cioè gli edifici pubblici e privati erano intatti e la nostra città era sana e salva), era già stata discussa questa stessa proposta di trasferirci a Veio. E considerate quale sia il divario tra il mio e il vostro modo di vedere le cose. Voi ritenete che anche se allora la cosa non doveva essere messa in pratica, adesso lo dev'essere comunque. Io al contrario - e non meravigliatevi delle mie parole prima di averne colto il significato -, anche se allora fosse stato giusto emigrare quando Roma era intatta, penso che adesso non dovremmo abbandonare queste rovine. Perché allora la vittoria sarebbe stata per noi e per i nostri discendenti un motivo glorioso per emigrare in una città conquistata, mentre adesso questa emigrazione risulterebbe per noi una umiliante vergogna, e una ragione di vanto per i Galli. Sembrerà infatti non che abbiamo abbandonato il nostro paese da vincitori, ma che l'abbiamo perduto da vinti; che la rotta presso l'Allia, la presa di Roma e l'assedio del Campidoglio ci abbiano imposto di abbandonare i nostri penati, condannandoci volontariamente all'esilio e alla fuga da quella terra che non eravamo in grado di difendere. Bisognerà lasciar credere che i Galli siano riusciti a distruggere Roma e che i Romani non siano stati capaci di ricostruirla? E cosa vi resta da fare, qualora debbano ripresentarsi con nuove truppe - si sa che il loro numero è sterminato - e decidano di stabilirsi in questa città conquistata da loro e da voi abbandonata, se non rassegnarvi? Se invece non i Galli ma i vostri nemici di un tempo, Equi e Volsci, dovessero emigrare a Roma, vi piacerebbe che essi diventassero Romani e voi Veienti? Oppure non preferite che questo sia un deserto vostro piuttosto che una città dei nemici? Non vedo cosa possa esserci di più abominevole. E voi sareste disposti a tollerare queste scelleratezze e queste vergogne solo perché vi infastidisce mettervi a ricostruire? Se in tutta la città non si riuscirà a tirare su nessuna casa che sia più bella o più ampia della famosa capanna del nostro fondatore, non sarebbe meglio abitare in capanne alla maniera di pastori e contadini, ma in mezzo ai nostri penati e ai nostri riti piuttosto che andare in esilio tutti insieme di comune accordo? I nostri antenati, degli stranieri, dei pastori, anche se da queste parti c'erano solo foreste e paludi, edificarono una città dal nulla in pochissimo tempo. E a noi, anche se il Campidoglio e la cittadella sono intatte e i templi degli dèi ancora in piedi, dà fastidio ricostruire ciò che è stato distrutto dagli incendi? E ciò che ciascuno di noi avrebbe fatto se fosse bruciata la sua casa, ci rifiutiamo di farlo insieme in questo incendio che ha coinvolto tutti?