Versione originale in latino
Haec vociferante Horatio cum decemviri nec irae nec ignoscendi modum reperirent nec quo evasura res esset cernerent, C. Claudi, qui patruus Appi decemviri erat, oratio fuit precibus quam iurgio similior, orantis per sui fratris parentisque eius manes ut civilis potius societatis in qua natus esset, quam foederis nefarie icti cum collegis meminisset. Multo id magis se illius causa orare quam rei publicae; quippe rem publicam, si a volentibus nequeat, ab invitis ius expetituram; sed ex magno certamine magnas excitari ferme iras; earum eventum se horrere. Cum aliud praeterquam de quo rettulissent decemviri dicere prohiberent, Claudium interpellandi verecundia fuit. Sententiam igitur peregit nullum placere senatus consultum fieri. Omnesque ita accipiebant privatos eos a Claudio iudicatos; multique ex consularibus verbo adsensi sunt. Alia sententia, asperior in speciem, vim minorem aliquanto habuit, quae patricios coire ad prodendum interregem iubebat. Censendo enim quodcumque, magistratus esse qui senatum haberent iudicabat, quos privatos fecerat auctor nullius senatus consulti faciendi. Ita labente iam causa decemvirorum, L. Cornelius Maluginensis, M. Corneli decemviri frater, cum ex consularibus ad ultimum dicendi locum consulto servatus esset, simulando curam belli fratrem collegasque eius tuebatur, quonam fato incidisset mirari se dictitans ut decemviros, qui decemviratum petissent - aut soli ii aut maxime - oppugnarent; aut quid ita, cum per tot menses vacua civitate nemo iustine magistratus summae rerum praeessent controversiam fecerit, nunc demum cum hostes prope ad portas sint, civiles discordias serant, nisi quod in turbido minus perspicuum fore putent quid agatur. Ceterum - nonne enim maiore cura occupatis animis verum esse praeiudicium rei tantae auferri? - sibi placere de eo quod Valerius Horatiusque ante idus Maias decemviros abisse magistratu insimulent, bellis quae immineant perfectis, re publica in tranquillum redacta, senatu disceptante agi, et iam nunc ita se parare Ap. Claudium ut comitiorum quae decemviris creandis decemvirum ipse habverit sciat sibi rationem reddendam esse utrum in unum annum creati sint, an donec leges quae deessent perferrentur. In praesentia omnia praeter bellum omitti placere; cuius si falso famam volgatam, vanaque non nuntios solum sed Tusculanorum etiam legatos attulisse putent, speculatores mittendos censere qui certius explorata referant: sin fides et nuntiis et legatis habeatur, dilectum primo quoque tempore haberi et decemviros quo cuique eorum videatur exercitus ducere, nec rem aliam praeverti.
Traduzione all'italiano
Di fronte all'attacco di Orazio, i decemviri non sapevano se era il caso di indignarsi o di lasciar perdere, e non capivano quale piega avrebbe preso la cosa. Gaio Claudio, che era lo zio paterno di Appio Claudio, pronunciò un discorso più simile a un'implorazione che a una requisitoria. In nome dei Mani di suo fratello, padre di Appio, supplicò il nipote di ricordarsi del consorzio civile all'interno del quale era nato piuttosto che dello scellerato patto stipulato insieme ai colleghi. Questa supplica gliela rivolgeva più nel suo interesse che non in quello del paese. Perché la repubblica avrebbe rivendicato il proprio diritto contro la loro volontà, se i decemviri non erano in grado di garantirlo spontaneamente. Ma grandi scontri di solito generano grandi rancori: e Claudio ne temeva gli esiti. Benché i decemviri volessero evitare che il dibattito si spostasse su temi estranei a quelli posti all'ordine del giorno, tuttavia non ebbero il coraggio di interrompere Claudio. Egli quindi espresse il parere che il senato non doveva prendere alcuna decisione. Così tutti compresero che Claudio riteneva i decemviri privati cittadini. E molti degli ex-consoli si dimostrarono d'accordo. Un'altra proposta, apparentemente più spregiudicata ma di fatto molto meno drastica della precedente, invitava i patrizi a riunirsi per nominare un interré. Varando infatti un qualsiasi provvedimento, venivano riconosciuti magistrati quelli che avevano convocato il senato, mentre sarebbero rimasti privati cittadini se invece si accettava la proposta di chi caldeggiava la completa astensione dall'attività. Mentre la posizione dei decemviri era sempre più in bilico, Lucio Cornelio Maluginense, fratello del decemviro Marco Cornelio, cui era stato intenzionalmente riservato l'ultimo intervento nel dibattito, in un primo tempo si mise a difendere il fratello e il resto del collegio fingendo di essere in apprensione per la guerra, e poi disse di essersi curiosamente domandato in base a quale fatalità avesse potuto succedere che contro i decemviri si fossero scagliati - soltanto o soprattutto - proprio quelli che avevano puntato al decemvirato; e perché mai, mentre nel corso di tutti quei mesi di pace interna nessuno di loro aveva posto in discussione la legittimità dei magistrati preposti alle più alte cariche, e soltanto adesso, coi nemici ormai quasi alle porte, si mettessero ad alimentare dissensi tra i cittadini; a meno che non pensassero che in uno stato di confusione i reali motivi del loro comportamento si sarebbero rivelati meno perspicui. Quanto al resto, non era forse meglio non pregiudicare una questione tanto importante quando le menti erano occupate da un pensiero ben più grave? Intorno all'accusa mossa da Valerio e Orazio secondo la quale i decemviri avrebbero dovuto uscire di carica prima delle Idi di maggio, Cornelio disse che a suo parere la questione andava dibattuta in senato, non prima però di aver posto fine alle guerre incombenti e di aver riportato la pace nello Stato. Appio Claudio si tenesse pronto già fin da allora a rendere conto dei comizi per elezioni dei decemviri che egli stesso, un decemviro, aveva presieduto: se erano stati nominati per un anno oppure fino a quando non fossero state approvate le leggi mancanti. Quanto poi al presente, l'opinione di Cornelio era che ci si dovesse occupare esclusivamente della guerra. Se poi le voci riguardanti la guerra si dimostravano infondate e i senatori ritenevano che non solo i messaggeri romani ma anche gli ambasciatori dei Tuscolani avessero riferito delle notizie prive di senso, allora - questo quanto lui suggeriva - sarebbe stato necessario inviare sul posto delle pattuglie di ricognizione perché riportassero informazioni più sicure dopo aver attentamente esaminato la situazione. Se invece si prestava fede ai messaggeri romani e agli ambasciatori, si facesse al più presto la leva, i decemviri guidassero gli eserciti dove sarebbe parso più opportuno a ciascuno di loro; si desse alla guerra la precedenza assoluta su ogni altra questione.