Pillaus
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Versione originale in latino


Voleronem amplexa favore plebs proximis comitiis tribunum plebi creat in eum annum qui L. Pinarium P. Furium consules habuit. Contraque omnium opinionem, qui eum vexandis prioris anni consulibus permissurum tribunatum credebant, post publicam causam privato dolore habito, ne verbo quidem violatis consulibus, rogationem tulit ad populum ut plebeii magistratus tributis comitiis fierent. Haud parva res sub titulo prima specie minime atroci ferebatur, sed quae patriciis omnem potestatem per clientium suffragia creandi quos vellent tribunos auferret.
Huic actioni gratissimae plebi cum summa vi resisterent patres, nec quae una vis ad resistendum erat, ut intercederet aliquis ex collegio, auctoritate aut consulum aut principum adduci posset, res tamen suo ipsa molimine gravis certaminibus in annum extrahitur. Plebs Voleronem tribunum reficit: patres, ad ultimum dimicationis rati rem venturam, Ap. Claudium Appi filium, iam inde a paternis certaminibus invisum infestumque plebi, consulem faciunt. Collega ei T. Quinctius datur. Principio statim anni nihil prius quam de lege agebatur. Sed ut inventor legis Volero, sic Laetorius, collega eius, auctor cum recentior tum acrior erat. Ferocem faciebat belli gloria ingens, quod aetatis eius haud quisquam manu promptior erat. Is, cum Volero nihil praeterquam de lege loqueretur, insectatione abstinens consulum, ipse incusationem Appi familiaeque superbissimae ac crudelissimae in plebem Romanam exorsus, cum a patribus non consulem, sed carnificem ad vexandam et lacerandam plebem creatum esse contenderet, rudis in militari homine lingua non suppetebat libertati animoque. Itaque deficiente oratione, "quando quidem non facile loquor" inquit, "Quirites, quam quod locutus sum praesto, crastino die adeste; ego hic aut in conspectu vestro moriar aut perferam legem". Occupant tribuni templum postero die; consules nobilitasque ad impediendam legem in contione consistunt. Summoveri Laetorius iubet, praeterquam qui suffragium ineant. Adulescentes nobiles stabant nihil cedentes viatori. Tum ex his prendi quosdam Laetorius iubet. Consul Appius negare ius esse tribuno in quemquam nisi in plebeium; non enim populi sed plebis eum magistratum esse; nec illam ipsam submovere pro imperio posse more maiorum, quia ita dicatur: "si vobis videtur, discedite, Quirites." Facile contemptim de iure disserendo perturbare Laetorium poterat. Ardens igitur ira tribunus viatorem mittit ad consulem, consul lictorem ad tribunum, privatum esse clamitans, sine imperio, sine magistratu; violatusque esset tribunus, ni et contio omnis atrox coorta pro tribuno in consulem esset, et concursus hominum in forum ex tota urbe concitatae multitudinis fieret. Sustinebat tamen Appius pertinacia tantam tempestatem, certatumque haud incruento proelio foret, ni Quinctius, consul alter, consularibus negotio dato ut collegam vi, si aliter non possent, de foro abducerent, ipse nunc plebem saevientem precibus lenisset, nunc orasset tribunos ut concilium dimitterent; darent irae spatium; non vim suam illis tempus adempturum, sed consilium viribus additurum; et patres in populi et consulem in patrum fore potestate.

Traduzione all'italiano


Alle elezioni successive, Volerone, divenuto un beniamino della plebe, fu nominato suo tribuno per quell’anno che ebbe come consoli Lucio Pinario e Publio Furio. Contrariamente a quanto tutti si aspettavano, e cioè che egli avrebbe usufruito della carica per dare addosso ai consoli uscenti, Volerone diede invece la precedenza all’interesse popolare rispetto al risentimento privato e, senza il benché minimo attacco verbale ai consoli, presentò al popolo un progetto di legge secondo il quale i magistrati della plebe avrebbero dovuto essere eletti dai comizi tributi. Benché a prima vista sembrasse un provvedimento del tutto innocuo, si trattava di cosa serissima perché avrebbe tolto al patriziato la possibilità di far eleggere i tribuni di suo gradimento attraverso il voto dei clienti. Questa proposta, salutata con entusiasmo dalla plebe, si scontrò con l’opposizione incrollabile dei senatori; dato però che né l’influenza dei consoli né quella dei cittadini più in vista riuscì a ottenere il veto di uno dei membri del collegio (ed era questo l’unico tipo di ostruzionismo praticabile), la questione, a causa della sua intrinseca delicatezza, fu il principale argomento di discussione per l’intera durata dell’anno. La plebe rielegge Volerone tribuno: i senatori, pensando che si sarebbe arrivati ai ferri corti, eleggono console Appio Claudio, figlio di Appio e già subito detestato e malvisto dalla plebe per le battaglie antidemocratiche sostenute dal padre. Come collega gli assegnano Tito Quinzio. All’inizio dell’anno non si parlava d’altro che di quella legge. E come Volerone ne era stato il promotore, così il suo collega Letorio la sosteneva con ancora più entusiasmo e pertinacia. Era fierissimo del suo prestigioso servizio militare perché come soldato dava dei punti a tutti i coetanei. Mentre Volerone non aveva altro argomento che la legge ma si asteneva da ogni forma di attacco contro le persone dei consoli, Letorio, invece, lanciatosi in una filippica contro Appio e le crudeltà antipopolari della sua arrogantissima famiglia, arrivò ad accusare i patrizi di aver eletto non un console ma un carnefice chiamato a torturare e a fare a pezzi la plebe; solo che la rozzezza del suo linguaggio da caserma non era in grado di sostenere la franchezza del suo sentire. Così, mancandogli le parole, disse: “Visto che i gran discorsi non sono il mio forte, o Quiriti, vediamo di mettere in pratica quel che ho detto e troviamoci qui domani. Quanto a me, o vi morirò davanti agli occhi, o farò passare la legge.” Il giorno successivo i tribuni occupano i rostri, mentre i consoli e i patrizi rimangono in piedi in mezzo alla gente, col preciso intento di impedire l’approvazione della legge. Letorio ordina di allontanare tutti i non aventi diritto di voto. I giovani nobili rimanevano al loro posto senza dar retta agli uscieri. Allora Letorio ordina di arrestarne qualcuno. Il console Appio replicò che l’autorità dei tribuni era ristretta alla plebe in quanto non si trattava di una magistratura del popolo ma della plebe; se anche poi si fosse trattato di una magistratura del popolo, stando alla tradizione, non aveva alcun diritto di ordinare l’allontanamento di nessuno in quanto la formula era questa: “Se non vi dispiace, Quiriti, allontanatevi.” Spostando la discussione sulla sfera del diritto e facendolo in maniera sprezzante, Appio poteva facilmente provocare Letorio. Così, livido dalla rabbia, il tribuno inviò il suo messo al console, mentre quest’ultimo gli mandò un littore gridando che Letorio era soltanto un privato cittadino senza alcun potere o magistratura. E il tribuno avrebbe pero la propria inviolabilità, se l’intera assemblea non avesse preso le sue parti dando minacciosamente addosso al console, e una folla coi nervi a fior di pelle non si fosse riversata nel foro da tutti i quartieri della città. Ciò nonostante, Appio si ostinava a tener testa a un tumulto di quelle proporzioni e la cosa sarebbe finita in un bagno di sangue se Quinzio, l’altro console, non avesse incaricato gli ex-consoli di afferrare il collega e di trascinarlo fuori dal foro con la forza (nel caso fosse stato necessario), e se egli stesso non avesse ora supplicato la folla di calmarsi ora richiesto ai tribuni di aggiornare la seduta, in modo da far sbollire i furori. Il tempo non li avrebbe privati della forza: anzi, ad essa avrebbe aggiunto la capacità di riflettere e i senatori avrebbero fatto la volontà del popolo come il console quella del senato.

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