Pillaus
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Versione originale in latino


Et hic annus tribunum auctorem legis agrariae habuit. Tib. Pontificius fuit. Is eandem viam, velut processisset Sp. Licinio, ingressus dilectum paulisper impediit. Perturbatis iterum patribus Ap. Claudius victam tribuniciam potestatem dicere priore anno, in praesentia re, exemplo in perpetuum, quando inventum sit suis ipsam viribus dissolui. Neque enim unquam defuturum qui et ex collega victoriam sibi et gratiam melioris partis bono publico velit quaesitam; et plures, si pluribus opus sit, tribunos ad auxilium consulum paratos fore, et unum vel adversus omnes satis esse.
Darent modo et consules et primores patrum operam ut, si minus omnes, aliquos tamen ex tribunis rei publicae ac senatui conciliarent. Praeceptis Appi moniti patres et universi comiter ac benigne tribunos appellare, et consulares ut cuique eorum privatim aliquid iuris adversus singulos erat, partim gratia, partim auctoritate obtinuere ut tribuniciae potestatis vires salubres vellent rei publicae esse, quattuorque tribunorum adversus unum moratorem publici commodi auxilio dilectum consules habent. Inde ad Veiens bellum profecti, quo undique ex Etruria auxilia convenerant, non tam Veientium gratia concitata quam quod in spem ventum erat discordia intestina dissolui rem Romanam posse. Principesque in omnium Etruriae populorum conciliis fremebant aeternas opes esse Romanas nisi inter semet ipsi seditionibus saeviant; id unum venenum, eam labem civitatibus opulentis repertam ut magna imperia mortalia essent. Diu sustentatum id malum, partim patrum consiliis, partim patientia plebis, iam ad extrema venisse. Duas civitates ex una factas; suos cuique parti magistratus, suas leges esse. Primum in dilectibus saevire solitos, eosdem in bello tamen paruisse ducibus. Qualicumque urbis statu, manente disciplina militari sisti potuisse; iam non parendi magistratibus morem in castra quoque Romanum militem sequi. Proximo bello in ipsa acie, in ipso certamine, consensu exercitus traditam ultro victoriam victis Aequis, signa deserta, imperatorem in acie relictum, iniussu in castra reditum. Profecto si instetur, suo milite vinci Romam posse. Nihil aliud opus esse quam indici ostendique bellum; cetera sua sponte fata et deos gesturos. Hae spes Etruscos armaverant, multis in vicem casibus victos victoresque.

Traduzione all'italiano


Quell’anno vide un tribuno, Tiberio Pontificio, proporre la legge agraria: seguendo pari passo le orme di Spurio Licinio - come se a lui fosse andata bene -, per un certo periodo riuscì a ostacolare la leva. Di fronte al rinnovarsi delle preoccupazioni senatoriali, Appio Claudio disse che l’anno prima si era avuta la meglio sul potere dei tribuni e che la vittoria in quella precisa occasione potenzialmente valeva anche per i giorni a venire, in quanto allora si era scoperto che esso poteva essere annientato proprio con le sue stesse forze. Infatti ci sarebbe sempre stato un tribuno desideroso di ottenere un successo personale ai danni del collega e disposto a conquistarsi il favore del patriziato rendendo un servizio allo Stato. E, all’occorrenza, un numero più consistente di tribuni non avrebbe esitato a spalleggiare il console; d’altra parte sarebbe bastato uno contro tutti. La sola cosa che i consoli e i senatori più in vista dovevano fare era questa: cercare di portare, se non tutti, almeno qualcuno dei tribuni dalla parte dello Stato e del senato. L’intero ordine senatoriale, seguendo le istruzioni di Appio, cominciò a dimostrare ai tribuni gentilezza e disponibilità; e gli ex consoli, contando sull’influenza che ciascuno di essi vantava sui singoli, in parte con favori personali, in parte con l’autorità di cui disponevano, fecero in modo che i tribuni mettessero i loro poteri al servizio dello Stato. Così, quattro di essi, contro un solo e ostinato avversario dell’interesse generale, collaborarono coi consoli nella realizzazione della leva. Fatto questo, partì la spedizione armata contro Veio, dove si erano concentrati dei contingenti provenienti da tutta l’Etruria, non tanto per sostenere la causa dei Veienti, quanto piuttosto perché c’era la speranza che le discordie interne potessero accelerare il crollo della potenza romana. I capi di tutte le genti etrusche si scalmanavano nelle assemblee sostenendo che l’egemonia di Roma sarebbe durata in eterno, se essi non avessero smesso di sbranarsi tra di loro in tutte quelle lotte fratricide. Quello era l’unico veleno, la sola rovina delle società fiorenti, nata per far conoscere ai grandi potentati il senso della caducità. A lungo contenuto, vuoi per l’accorta gestione dei senatori, vuoi per la rassegnazione della plebe, il male stava ormai dilagando in maniera incontrollabile. Di uno stato se n’erano fatti due, con tanto di leggi e magistrati autonomi in ciascuno di essi. Nei primi tempi c’era un’opposizione accesa e sistematica alla leva e poi, quando si trattava di combattere, erano pronti a obbedire ai comandanti. Qualunque fosse la situazione interna, bastava reggesse la disciplina militare per tenere in piedi tutto. Ma adesso disobbedire ai magistrati era diventata una moda che aveva coinvolto anche il mondo militare romano. Che considerassero l’ultima guerra da loro combattuta: quando lo schieramento allineato era già nel pieno dello scontro, ecco che tutti i soldati avevano deciso di comune accordo di rimettere la vittoria nelle mani degli ormai vinti Equi, di liberarsi delle insegne, di abbandonare il comandante sul campo e di rientrare alla base contro ogni ordine ricevuto. Nessun dubbio che se gli Equi avessero fatto ancora uno sforzo Roma sarebbe crollata sotto i colpi dei suoi stessi soldati. Non ci voleva molto: una semplice dichiarazione di guerra e una dimostrazione di efficienza militare. Al resto avrebbero pensato il destino e il volere degli dèi. Queste speranze spinsero gli Etruschi a scendere in guerra, nonostante la lunga sequenza di alterne vittorie e sconfitte.

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