Versione originale in latino
Ludi quam amplissimi ut fierent senatus decrevit. Ad eos ludos auctore Attio Tullio vis magna Volscorum venit. Priusquam committerentur ludi, Tullius, ut domi compositum cum Marcio fuerat, ad consules venit; dicit esse quae secreto agere de re publica velit. Arbitris remotis, "invitus" inquit, "quod sequius sit, de meis civibus loquor. Non tamen admissum quicquam ab iis criminatum venio, sed cautum ne admittant. Nimio plus quam velim, nostrorum ingenia sunt mobilia. Multis id cladibus sensimus, quippe qui non nostro merito sed vestra patientia incolumes simus. Magna hic nunc Volscorum multitudo est; ludi sunt; spectaculo intenta civitas erit. Memini quid per eandem occasionem ab Sabinorum iuventute in hac urbe commissum sit; horret animus, ne quid inconsulte ac temere fiat. Haec nostra vestraque causa prius dicenda vobis, consules, ratus sum. Quod ad me attinet, extemplo hinc domum abire in animo est, ne cuius facti dictive contagione praesens violer." Haec locutus abiit. Consules cum ad patres rem dubiam sub auctore certo detulissent, auctor magis, ut fit, quam res ad praecavendum vel ex supervacuo movit, factoque senatus consulto ut urbe excederent Volsci, praecones dimittuntur qui omnes eos proficisci ante noctem iuberent. Ingens pavor primo discurrentes ad suas res tollendas in hospitia perculit; proficiscentibus deinde indignatio oborta, se ut consceleratos contaminatosque ab ludis, festis diebus, coetu quodam modo hominum deorumque abactos esse.
Traduzione all'italiano
Il senato decretò che venissero celebrati dei giochi con la maggior sontuosità possibile. Su suggerimento di Azio Tullio, vi prese parte una nutrita delegazione di Volsci. Prima dell’inizio della manifestazione, Tullio, seguendo il piano concertato con Marcio a casa sua, si presentò ai consoli e disse di voler discutere segretamente di una questione di pubblico interesse. Una volta allontanati gli estranei, disse: “Mi rincresce dover dire dei miei concittadini cose che non li mettono in buona luce. Tuttavia non sono venuto a denunciarli per aver commesso qualche reato, ma per evitare che lo commettano. Il carattere volubile del nostro popolo è superiore anche ai miei desideri. Prova ne sia il numero delle nostre disfatte militari: se esistiamo ancora non è merito nostro ma della vostra tolleranza. Attualmente ci sono parecchi Volsci a Roma; ci sono i giochi; i cittadini saranno concentratissimi sullo spettacolo. Ricordo benissimo la bravata dei giovani sabini, sempre qui a Roma e in concomitanza di un’analoga occasione. Ciò che mi spaventa è la possibilità di qualche gesto imprevedibile e sconsiderato. Per questo, nel nostro comune interesse, ho ritenuto opportuno, o consoli, mettervi sul chi vive riguardo a questa eventualità. Quanto a me, ho intenzione di tornarmene subito a casa: non voglio, restando qui, farmi complice di quel che si fa o si dice.” Detto questo, se ne andò. I consoli riferirono al senato l’incerta informazione (proveniente però da fonte certissima) e, come sempre succede in casi del genere, fu più l’autorità della fonte che la notizia stessa a spingerli a prendere misure precauzionali superiori alle reali necessità. Un decreto del senato ingiunse ai Volsci di abbandonare Roma. Tramite degli araldi venne loro ordinato di partire prima del calare della notte. La reazione immediata fu il panico: si misero a correre all’impazzata per andarsi a riprendere la loro roba nelle pensioni dov’erano alloggiati. Poi, mentre erano già per strada, subentrò l’indignazione: li avevano trattati alla stregua di criminali e scellerati, cacciandoli dai giochi in quei giorni di festa e, in qualche modo, anche dal consesso degli dèi e degli uomini.