Versione originale in latino
Sed et bellum Volscum imminebat et civitas secum ipsa discors intestino inter patres plebemque flagrabat odio, maxime propter nexos ob aes alienum. Fremebant se, foris pro libertate et imperio dimicantes, domi a civibus captos et oppressos esse, tutioremque in bello quam in pace et inter hostes quam inter cives libertatem plebis esse; invidiamque eam sua sponte gliscentem insignis unius calamitas accendit. Magno natu quidam cum omnium malorum suorum insignibus se in forum proiecit. Obsita erat squalore vestis, foedior corporis habitus pallore ac macie perempti; ad hoc promissa barba et capilli efferaverant speciem oris. Noscitabatur tamen in tanta deformitate, et ordines duxisse aiebant, aliaque militiae decora volgo miserantes eum iactabant; ipse testes honestarum aliquot locis pugnarum cicatrices adverso pectore ostentabat. Sciscitantibus unde ille habitus, unde deformitas, cum circumfusa turba esset prope in contionis modum, Sabino bello ait se militantem, quia propter populationes agri non fructu modo caruerit, sed villa incensa fuerit, direpta omnia, pecora abacta, tributum iniquo suo tempore imperatum, aes alienum fecisse. Id cumulatum usuris primo se agro paterno avitoque exuisse, deinde fortunis aliis; postremo velut tabem pervenisse ad corpus; ductum se ab creditore non in servitium, sed in ergastulum et carnificinam esse. Inde ostentare tergum foedum recentibus vestigiis verberum. Ad haec visa auditaque clamor ingens oritur. Non iam foro se tumultus tenet, sed passim totam urbem pervadit. Nexi, vincti solutique, se undique in publicum proripiunt, implorant Quiritium fidem. Nullo loco deest seditionis voluntarius comes; multis passim agminibus per omnes vias cum clamore in forum curritur. Magno cum periculo suo qui forte patrum in foro erant in eam turbam inciderunt; nec temperatum manibus foret, ni propere consules, P. Servilius et Ap. Claudius, ad comprimendam seditionem intervenissent. At in eos multitudo versa ostentare vincula sua deformitatemque aliam. Haec se meritos dicere, exprobrantes suam quisque alius alibi militiam; postulare multo minaciter magis quam suppliciter ut senatum vocarent; curiamque ipsi futuri arbitri moderatoresque publici consilii circumsistunt. Pauci admodum patrum, quos casus obtulerat, contracti ab consulibus; ceteros metus non curia modo sed etiam foro arcebat, nec agi quicquam per infrequentiam poterat senatus. Tum vero eludi atque extrahi se multitudo putare, et patrum qui abessent, non casu, non metu, sed impediendae rei causa abesse, et consules ipsos tergiversari, nec dubie ludibrio esse miserias suas. Iam prope erat ut ne consulum quidem maiestas coerceret iras hominum, cum incerti morando an veniendo plus periculi contraherent, tandem in senatum veniunt. Frequentique tandem curia non modo inter patres sed ne inter consules quidem ipsos satis conveniebat. Appius, vehementis ingenii vir, imperio consulari rem agendam censebat; uno aut altero arrepto, quieturos alios: Servilius, lenibus remediis aptior, concitatos animos flecti quam frangi putabat cum tutius tum facilius esse.
Traduzione all'italiano
Da una parte c'era la minaccia di guerra con i Volsci e dall'altra in città regnava la discordia e divampava l'odio fra i patrizi e la plebe, a causa soprattutto di coloro che erano stati resi schiavi per debiti. I plebei, frementi d'ira, dicevano che mentre fuori della patria combattevano per la libertà e la potenza dello Stato, in patria erano stati resi schiavi dai loro concittadini e che la libertà della plebe era salvaguardata più in guerra che in pace, più fra i nemici che fra i cittadini. Questo malcontento che andava serpeggiando divampò per la eccezionale sventura capitata a un plebeo. Un uomo anziano si precipitò nel Foro con addosso i segni di tutte le sue disgrazie: la veste era piena di sudiciume, ancora più spaventoso era l'aspetto del suo corpo, cadaverico nel colorito e distrutto dalla consunzione; inoltre la barba e i capelli incolti avevano dato al suo volto un aspetto selvaggio. Nonostante fosse tanto sfigurato, lo si poteva tuttavia riconoscere e la gente diceva che aveva comandato reparti militari e, unanimemente commiserandolo, ricordava le sue altre benemerenze in guerra. Lui stesso, come testimonianza di battaglie combattute con onore in diverse località, mostrava le cicatrici sul petto. A chi gli chiedeva come mai avesse un aspetto simile, come mai fosse così sfigurato - si era radunata nel frattempo intorno a lui una grande folla, quasi come in un'assemblea - rispose che mentre era in guerra contro i Sabini, a causa delle devastazioni, non solo era rimasto privo del raccolto dei campi, ma gli era stata anche incendiata la casa, depredato ogni avere, rubato il bestiame, e infine, in un periodo per lui oltremodo critico, gli era stato anche imposto un teributo, per cui fu costretto a contrarre un debito. Questo, ingranditosi con gli interessi, dapprima lo costrinse a spogliarsi del fondo paterno e avito, poi degli altri beni e infine, come un cancro, arrivò fino a intaccare il corpo: fu dal creditore non tratto in schiavitù, ma inviato ai lavori forzati e alla tortura. Mostrava quindi la schiena deturpata da tracce recenti di nerbate. A tale spettacolo, a tali parole sorse un immenso clamore, e il tumulto non fu circoscritto al Foro, ma dilagò per tutta la città. I debitori, quelli vincolati, quelli già in catene e quelli in libertà, da ogni parte si riversarono nelle strade e implorarono la protezione dei Quiriti. Da ogni parte accorreva gente che spontaneamente si univa alla rivolta. In disordine, a gruppi, per tutte le strade, con grande clamore, affluirono di corsa verso il Foro. I senatori che vi si trovarono per caso corsero un grosso rischio imbattendosi in quella folla, e si sarebbe arrivati allo scontro se non fossero intervenuti i consoli Publio Servilio e Appio Claudio a reprimere la rivolta. Ma la folla, indirizzandosi a loro, andava mostrando le catene e gli altri segni della sua miseria. Questo, dicevano, era stato il loro compenso, e maledivano il servizio militare prestato da ciascuno, chi in un luogo e chi in un altro; chiedevano in tono più di minaccia che di supplica che convocassero il Senato e circondarono la Curia per essere loro stessi arbitri e guida delle decisioni. I consoli misero insieme giusto quei pochi senatori che casualmente erano lì intorno. Gli altri erano terrorizzati all’idea non solo di entrare nella curia, ma anche nel foro, e il senato non poteva fare nulla per l’insufficienza numerica dei presenti. Allora i dimostranti cominciarono a credere che li stessero prendendo in giro e cercassero di guadagnare tempo: pensavano che l’assenza dei senatori non fosse dovuta al puro caso o al panico, ma a una precisa volontà ostruzionistica, ed erano certi, vedendo che i senatori menavano il can per l’aia, che ci si stesse prendendo gioco della loro miseranda condizione. Quando ormai sembrava che anche l’autorità consolare non avesse più alcun potere coercitivo su quella massa di gente imbestialita, ecco che finalmente arrivarono quei senatori rosi dal dubbio se si rischiasse di più standosene al coperto o comparendo in senato. Raggiunto così il numero legale dei presenti, né i senatori né tantomeno i consoli riuscivano a mettersi d’accordo su una soluzione possibile. Appio, che aveva un carattere impulsivo, era dell’opinione di risolvere la cosa con l’impiego dell’autorità consolare: con un paio di arresti, gli altri si sarebbero calmati. Servilio, invece, più incline ad adottare misure di compromesso, era dell’opinione che fosse più sicuro, oltre che più semplice, assecondare la rabbia dei dimostranti piuttosto che ricorrere alla repressione.