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La Teogonia di Esiodo si presenta tutta come un unico lungo mito, di carattere
però narrativo, non esplicativo: un racconto cioè fine a se stesso, che non ha il
compito di spiegare qualcos'altro. Questo è invece ciò che Esiodo fa ne “Le opere e
i giorni”, quando si rivolge al fratello Perse, con il quale è in lite per l'eredità del
padre, e cerca di ammonirlo ricordandogli che il destino dell'uomo è il lavoro. Il
poeta racconta infatti che esisteva un'epoca molto remota in cui gli uomini
potevano lavorare per un unico giorno all'anno e vivere nell'abbondanza per tutto
il resto del tempo; tuttavia Zeus ha privato gli uomini di questo dono a causa
dell'inganno di Prometeo, che gli ha sottratto il fuoco per riconsegnarlo agli
uomini. La vendetta di Zeus si ripercuote tanto sul titano quanto sugli uomini:
per punire l'umanità il padre degli dei crea la donna, un “fardello” che in qualche
modo compensi l'alleviamento delle difficoltà dovuto all'acquisizione del fuoco. A
questo si affianca il mito delle cinque età: un mito significativo, che sarà ripreso
da Platone e che vede la storia umana come un processo di inesorabile decadenza
scandito dal nome stesso delle diverse età (dell'oro, dell'argento, del bronzo, degli
eroi, del ferro). Tale mito ricorre in tutto il dibattito che nasce nel V secolo a
proposito del progresso umano, in particolare nell'ambito della sofistica.
Il mito esiodeo delle cinque età è il primo utilizzo della materia mitologica per
spiegare un determinato stato di cose.
Nella Teogonia, il mito viene utilizzato con questa stessa finalità in un episodio,
quello di Prometeo. Il mito di Prometeo nella Teogonia è diverso da quello
presente in “Opere e giorni”: nella Teogonia, esso compare a proposito della
nascita della stirpe dei Titani. Essi sono quattro: Menezio, Atlante (vittima di un
inganno da parte di Eracle, che gli lascia il mondo da portare sulle spalle),
Prometeo ed Epimeteo. Gli ultimi due sono chiaramente nomi parlanti.
In entrambe le narrazioni Prometeo è il fautore della discordia tra uomini e dei,
ma in due modi diversi. Nella Teogonia, il poeta esordisce narrando che un tempo
uomini e dei, nella città di Mecone (identificata con Sicione), Tale
diekrivnanto.
verbo si può tradurre in due modi: “vennero a contesa” (accezione giuridica) o,
forse più propriamente, “si separarono”. In ogni caso, all'origine della discordia
sta come antefatto l'episodio del sacrificio in occasione del quale Prometeo offre a
Zeus il grasso e le ossa dell'animale sacrificato, tenendo la carne per gli uomini.
Ancora una volta la vendetta di Zeus si scatena su Prometeo e sugli uomini, che
vengono puniti con la perdita del fuoco e l'arrivo sulla terra di Pandora.
Il ruolo di Prometeo è, a differenza di quello del fratello Epimeteo, dominante. I
Titani sono esseri ambivalenti, che nel mito appaiono talvolta malvagi e talvolta
benevoli, o possono avere in sé entrambe le componenti. Il loro ruolo è
fondamentale nell'orfismo.
L'orfismo è un culto misterico, coltivato da pochi adepti e quindi minoritario
rispetto alla religiosità tradizionale (quella degli dei omerici), anche in alcuni casi
questi due aspetti possono non escludersi a vicenda. Il concetto su cui si
impernia l'orfismo, e che ne costituisce la grande differenza rispetto al culto
omerico, è quello della metempsicosi. Punto di partenza è il mito della discesa agli
Inferi di Orfeo, nella misura in cui si tratta di un rito sciamanico: sciamano è
colui che è in grado di scindere reversibilmente l'anima dal corpo. È quindi un
concetto estraneo alla religiosità tradizionale dei Greci, in cui la scissione
dell'anima dal corpo è un fatto irreversibile e coincide con la morte. In effetti lo
sciamanesimo non nasce in Grecia e i protagonisti di miti “sciamanici” sono quasi
sempre eroi stranieri. Al suo arrivo in Grecia, esso viene a costituire
un'alternativa alla visione tradizionale e, d'altra parte, parlare di sciamanesimo è
la premessa perché si passi poi all'idea di reincarnazione. A suo modo, anche
l'esperienza profetica si configura come un atto sciamanico: il corpo della Pizia
viene posseduto dal dio e in quel momento la sua anima è altrove. Non è un caso,
che nei poemi omerici non vi siano allusioni al profetismo pitico: esso è infatti un
fenomeno più tardo.
È importante sottolineare che i Greci vedono la reincarnazione come qualcosa di
negativo: essa rappresenta infatti una punizione, il castigo per una colpa che va
espiata fino a che l'anima non sia degna di salire al cielo. Questo concetto, tipico
dell'orfismo, sarà poi ripreso in ambito filosofico da Pitagora, Empedocle e,
soprattutto, Platone.
Il Fedone è l'opera in cui Platone vi si sofferma più compiutamente, affermando
che l'anima colpevole, per espiare, si reincarna in un corpo animale (subisce
quindi una degradazione). Questo non permette però di comprendere come sia
possibile un processo di espiazione all'interno di un corpo animale. In ogni caso,
tale concetto è necessariamente legato all'idea, presente anche nella cultura
greca, che esista un “peccato originale” da cui scaturirebbe il bisogno di espiare.
Responsabili di questo peccato originale sarebbero per l'appunto i Titani: secondo
il mito orfico, infatti, i Titani, colpevoli di aver fatto a pezzi il corpo di Dioniso,
vengono puniti da Apollo che, in una sorta di contrappasso, colpendoli con il
fulmine smembra i loro corpi in tante parti. Da queste parti sarebbe poi nato il
genere umano: il peccato originale dell'uomo è la sua natura titanica.
Il mito di Prometeo viene utilizzato in chiave filosofica da Platone nel Protagora.
La datazione dei dialoghi platonici è molto problematica: non possediamo alcuna
notizia sulla cronologia assoluta, mentre sulla base di dati interni si può
delineare una cronologia relativa al cui interno il Protagora si collocherebbe tra le
opere della maturità, o forse in posizione intermedia tra queste e quelle giovanili:
se, infatti, la padronanza della scrittura fa pensare a un dialogo della maturità,
rimanda invece alle opere giovanili il carattere inconcludente (aporetico) della
trama del dialogo. Proprio questa è la differenza tra i dialoghi della giovinezza e
quelli della maturità: nei primi Socrate si limita a demolire le convinzioni
dell'avversario di turno (ha quindi una funzione unicamente “distruttiva”), mentre
nei secondi acquista anche un ruolo costruttivo. Quello della maturità non è più
il Socrate che Platone ricorda come il suo maestro: è un Socrate dietro cui si cela
in realtà un pensiero filosofico ormai del tutto autonomo.
Il terzo gruppo, quello dei dialoghi “della vecchiaia”, prosegue ed approfondisce la
trattazione della dottrina delle idee.
Nel Protagora, ambientato ad Atene, il giovane Ippocrate confida a Socrate di voler
diventare allievo del sofista Protagora. I due si recano insieme da Protagora e
Socrate gli rivolge la sua fatidica domanda: “Che insegni?” Questo è, sempre,
cosa
ciò che Socrate vuole dai propri interlocutori: il “che cosa”, la definizione.
Protagora non è un interlocutore che si lasci facilmente trarre in inganno (a
differenza di altri delle opere giovanili) e risponde che ciò che insegna è la ,
sofiva
vale a dire l'arte che permette all'individuo di emergere tanto nella sfera privata
quanto, soprattutto, in quella pubblica (quindi in politica). In quest'ultimo caso la
coincide con la Socrate obietta però che quest'ultima non è
sofiva politikh; tevcnh.
cosa che si possa insegnare, ma Protagora, determinato a tenergli testa,
attraverso il racconto del mito di Prometeo intende dimostrare a Socrate che la
virtù politica si può, invece, insegnare.
Il mito raccontato da Protagora ha quindi lo scopo di dimostrare che tutti gli
uomini hanno in sé per natura, in quanto proviene dagli dei, la capacità di
mettere in pratica giustizia e rispetto, e . È un'idea che ha molto in
divkh aijdwvV
comune con l'egualitarismo della democrazia ateniese, fatto singolare in quanto
solitamente i sofisti sono avversi alla democrazia. Del resto la sofistica è in sé
“antidemocratica” nella misura in cui insegna a prevalere sugli altri attraverso
l'uso della parola; ma della democrazia essa ha bisogno, e infatti non è casuale
che anche i più accesi sostenitori dell'oligarchia tra i sofisti esercitino la propria
attività ad Atene. La democrazia ateniese è ciò che fa sì che sia garantita non
soltanto la libertà di parola, ma anche una certa – seppur limitata – mobilità
sociale per cui chi ne ha i mezzi può emergere anche senza essere di sangue
aristocratico.
Dalle parole di Protagora sembrerebbe quindi trasparire l'immagine di un “sofista
democratico”, anche se affermare che tutti gli uomini abbiano per natura il senso
della giustizia e del rispetto non esclude comunque che possano esservene alcuni
che li possiedono in misura superiore ad altri.
Opera platonica ricchissima di miti è la Repubblica. Seconda per lunghezza tra le
opere di Platone, con i suoi dieci libri, essa si può considerare il vero e proprio
testamento spirituale di Platone.
Il tema centrale attorno a cui ruota la Repubblica (ogni dialogo platonico è,
infatti, costruito su un tema principale: l'anima nel Fedone, l'amore nel Fedro e
nel Simposio...) è la giustizia. L'opera ha la forma di un lunghissimo dialogo
raccontato in prima persona da Socrate, che narra di essersi recato in visita da
Cefalo, il ricchissimo e anziano padre di Lisia, e di aver domandato al suo ospite
quali siano i vantaggi della vecchiaia. Cefalo afferma in primo luogo che la
vecchiaia lo ha reso sereno liberandolo dalla schiavitù delle passioni, poi, quando
Socrate gli domanda se la sua serenità non sia dovuta anche alla sua grande
ricchezza, ammette che in effetti la ricchezza lo aiuta, in quanto fa sì che non
abbia bisogno di delinquere e gli permette quindi di vivere da uomo giusto. Da qui
prende piede il dibattito sul tema della giustizia, cui partecipano Socrate, Cefalo e
Polemarco.
Socrate pone, inevitabile, la sua domanda, “Che cos'è la giustizia?”, cui Cefalo
risponde affermando il principio tradizionale della morale greca secondo cui la
giustizia si identifica con il fare bene agli amici e male ai nemici