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Vassalli conosceva direttamente il dramma della tortura. In quel convengo, Greppi era rimasto colpito: era
seduto in una delle ultime file della sala e vicino a lui c’era una signora che girava delle carte e, come
succede, ha sbirciato quello che stava leggendo. Stava leggendo un dattiloscritto che era la sentenza del
1996, appena pubblicata, la prima sentenza del caso Primpke, del processo del Tribunale Militare di Roma
contro Primpke. Le ha chiesto se gliel’avrebbe prestate e se l’è fotocopiata. La sera rientrava a Torino, in
aereo ha cominciato a leggerla. Si è fermato ad un certo punto, dopo una trentina – quarantina di pagine
in cui in questa sentenza si diceva che Primpke, che poi ovviamente era imputato essenzialmente per la
strage delle Ardeatine, nel capo di imputazione c’era anche tortura per comportamenti suoi, in quel passo
della sentenza si diceva che in fondo non si trattava di tortura, ma semplicemente di qualche pugno nello
stomaco ed altri colpi qua e là. Greppi, d’istinto, in volo, ha chiuso quel fascicolo. Ha guardato sulla prima
pagina, sul frontespizio c’era scritto “In nome del popolo italiano” e ha concluso “Not in my name”. Deve
dire con grande soddisfazione che l’allora ministro della Giustizia sospese l’esecuzione della sentenza e la
Corte di Cassazione la cassò e quindi si fece un nuovo processo. Era una sentenza vergognosa, che tra
l’altro lo assolveva. Ma soprattutto quella motivazione: non è tortura. Il messaggio che si ricavava era che
legare un prigioniero ad una sedia e riempirlo di pugni in fondo non era tortura. Questo per dire quanto
anche il diritto abbia, nella sua applicazione pratica, bisogno di operatori.
Due cenni rapidi alla Convenzione contro la tortura ed altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o
degradanti adottata a New York il 10 dicembre 1984. Il 10 dicembre è la Giornata dei diritti umani, quindi
la scelta della data non era casuale. Importante questa Convenzione perché contiene una definizione di
tortura, che nell’ordinamento internazionale è punto di riferimento per tutte le successive evoluzioni
ogni atto con il quale un dolore o delle sofferenze acute, fisiche o
normative. E si dice che tortura indica “
mentali, sono intenzionalmente inflitte ad una persona con lo scopo in particolare di ottenere dalla stessa
o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un’azione che essa stessa od una terza
persona ha commesso o è sospettata di avere commesso, o di intimidirla, o di esercitare pressioni su di
lei o di intimidire o di esercitare pressioni su una terza persona o per qualunque altra ragione basata su
una qualunque forma di discriminazione, quando tali dolori o sofferenze sono inflitti da un pubblico
ufficiale o da qualsiasi altra persona che eserciti funzioni ufficiali, o su sua istigazione o con il suo
consenso o la sua acquiescenza espressa o tacita”.
Questa definizione è molto ampia, c’è un uso frequente di “qualunque”. Si intende cioè coprire uno
spettro molto ampio di comportamenti, che rientrano nella fattispecie o possono configurare una
fattispecie di tortura. L’unica attenuazione che comporta questa definizione è questo termine non attenga
“dolore od alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni od ad esse
al
conseguenti”. La definizione però è molto ampia, è molto estesa, e si sottolinea la qualificazione della
tortura con riferimento a comportamenti di pubblici ufficiali o da persone che esercitano funzioni
pubbliche. Per la verità, la norma è chiaramente stata formulata, concepita, voluta tenendo conto delle
torture che possono essere commesse in carcere, ecco il riferimento al funzionario pubblico, o negli
interrogatori da parte di funzionari di polizia, e quindi essenzialmente funzionai statali. Viene considerata
solo la tortura commessa a titolo ufficiale. Però la tendenza più recente nell’ordinamento internazionale è
a superare questo limite, introducendo anche ipotesi che la tortura venga commessa da privati.
La nozione prescelta nella Convenzione, si dice anche con estrema chiarezza, in alcune sentenze
soprattutto dei Tribunali Penali Internazionali, è una nozione che corrisponde al diritto internazionale
consuetudinario, e come avviene ormai per molte norme relative ai diritti umani non solo si ritiene che
siano transitate nel diritto internazionale generale, cioè che vincoli solo i 160 circa Stati che hanno
ratificato la Convenzione, ma li vincoli tutti in quanto assurti a diritto internazionale generale
consuetudinario, ma addirittura si tratti di norme di ius cogens, cioè di diritto imperativo, per cui è nulla
qualsiasi norma di trattato che sia in contrasto con una norma imperativa di diritto penale generale.
Quali sono gli obblighi che la Convenzione prevede? In primo luogo un obbligo tipico dei trattati
internazionali, quello cioè che è a carico degli Stati di adottare ogni misura legislativa, amministrativa o
giudiziaria per impedire episodi di tortura, così come anche trattamenti o pene crudeli, inumani o
degradanti che vengano commessi in qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione, né può essere
invocata nessuna circostanza eccezionale, dice la Convenzione, quindi è compreso anche lo Stato di
guerra o la minaccia di guerra od il terrorismo o l’emergenza. Questo è un caposaldo importante, cioè
l’obbligo da un lato da parte degli Stati di recepire la Convenzione nel loro ordinamento, ed abbiamo visto
come il nostro ordinamento ci abbia impiegato semplicemente un trentennio per farlo, ma soprattutto
l’estensione a qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione.
Questo è un tema rilevante soprattutto per il caso Guantanamo, perché le prime sentenze dei tribunali
americani che hanno dovuto occuparsi di ricorsi di detenuti a Guantanamo avevano accettato
l’impostazione fornita dal governo americano, e cioè che Guantanamo è territorio cubano, quindi non è in
sovranità territoriale degli Stati Uniti. La Convenzione su questo non lascia dubbi: altre pronunce,
soprattutto di Corti superiori, Corti d’appello fino ad arrivare anche alla Corte Suprema, hanno
correttamente ritenuto che Guantanamo Bay è sì territorio cubano, ma da oltre un secolo affittato agli
Stati Uniti d’America, e quindi non è rilevante chi ne eserciti la sovranità nel senso classico
dell’ordinamento internazionale, ma è rilevante chi ne controlli effettivamente il territorio esercitandone la
giurisdizione. Negli ordinamenti di common law essenzialmente, il significato del sostantivo giurisdizione
non è quello che gli attribuiamo noi, perché per noi la giurisdizione è l’esercizio dell’attività giudiziaria da
parte dei giudici, nel mondo anglosassone jurisdiction è l’esercizio dei pubblici poteri nella loro totalità,
quindi l’attività legislativa è jurisdiction, l’attività di governo è jurisdiction, ovviamente anche le sentenze
in qualsiasi
dei giudici sono jurisdiction. Sotto questo profilo è rilevante che la Convenzione sottolinei “
territorio sottoposto alla sua giurisdizione ”, ecco perché quei tribunali, quei giudici di appello, fino ad
arrivare anche alla Corte Suprema, ha poi operato una correzione della rotta, precisando sì che è vero che
Cuba è sovrana sul territorio di Guantanamo, ma la giurisdizione è effettivamente esercitata dagli Stati
Uniti d’America.
L’altro pilastro essenziale di questa Convenzione è la norma che prevede il divieto dell’espulsione e di
respingimento o di allontanamento di una persona verso un altro Stato nel quale vi siano seri motivi di
ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Sotto questo profilo abbiamo avuto diversi casi nei
quali è stato disposto che non si procedesse all’estradizione perché la persona sarebbe stata costretta a
rientrare in un Paese nel quale sarebbe stata sottoposta a tortura. Quindi in sostanza l’esercizio della
giurisdizione deve essere sensibile a questo tipo di dimensione.
Ci sono delle sentenze dei Tribunali Penali Internazionali, in particolare per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda,
nelle quali si dice che non è necessario che l’atto sia compiuto da un funzionario pubblico. Questo è stato
confermato anche dalla Camera di Appello del Tribunale per l’ex Jugoslavia. La situazione del conflitto
nell’ex Jugoslavia era tale per cui nella cornice di un conflitto terrificante, in realtà convivevano conflitti
molto diversi, cioè c’era il tipico conflitto internazionale, cioè uno Stato contro un altro Stato, ma c’era
una pluralità di conflitti armati non internazionali, nei quali interagivano anche delle milizie difficilmente
qualificabili, sotto certi profili, con connotazioni puramente pubblicistiche.
I due Statuti dei tribunali per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda, che sono stati adottati dal Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite, entrambi contemplavano la fattispecie di tortura, dichiarata esplicitamente
sia come crimine di guerra sia come crimine contro l’umanità. La stessa impostazione è stata recepita e
codificata nello Statuto di Roma del 17 luglio 1998 dalla Corte Penale Internazionale. All’articolo 7
troviamo la tortura tra i crimini contro l’umanità ed all’articolo 8 troviamo la tortura tra i crimini di guerra.
La Corte Penale Internazionale, che scaturisce dallo Statuto di Roma, ha fatto propria una ricchissima
giurisprudenza dei Tribunali Penali Internazionali per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda, che hanno costituito
praticamente il fondamento per questa importante istituzione.
In bellissimo libro, che ha avuto anche un discreto successo negli anni, Cassese scrive, sempre con il suo
“Ogni mattina, quando ci laviamo, dovremmo rallegrarci di vivere in Europa, non
scrivere appassionato:
solo non ci sono più guerre ma abbiamo la fortuna di essere protetti da uno straordinario raggio di
giustizia, la Corte europea dei diritti umani, che vigila sui nostri diritti fondamentali. La Corte che ha sede
a Strasburgo, ha emesso due sentenze importanti in materia di terrorismo, in cui ha ancora una volta
statuito che le giuste e sacrosante esigenze nella lotta contro questo fenomeno devastante non possono
assolutamente portare ad una compressione dei nostri diritti umani né di quelli dei presunti terroristi ”.
Cassese è molto attento: apre subito due strade, una sono i nostri diritti umani, cioè la repressione del
terrorismo in molti dei nostri Paesi ha portato ad una compressione dei nostri diritti umani, non ci
muoviamo più liberamente, siamo soggetti a controlli spesso molto invasiv