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Costituzione di Medina, stilata da Muhammad nel periodo tra il 622 e il 624. Tale
documento riguardava la umma intesa in senso ampio (ovvero anche gli ebrei di
Medina) che era chiamata a contribuire nella sua interezza per garantire l’ordine
sociale e il respingimento dei nemici. Proprio nella Comunità di Medina guidata da
Muhammad prima e dai califfi ben diretti poi, almeno di Abū Bakr e Omar, è stato
identificato lo stato islamico. Inizialmente, l’accento era posto sulla legittimazione
del potere che derivava da tre principi propri delle popolazioni nomadiche, ovvero
consenso interno, accordo tra governanti e governati e il giuramento di
fedeltà [Esposito 2001].
In questo quadro un ruolo di primo piano era svolto dal khalīfa (califfo).
Il termine «khalīfa» si ritrova in due versetti del Corano:
Il primo allude ad Adamo, Il secondo allude a Davide:
Il primo a cui venne attribuito il titolo di «khalīfat rasūl allāh», successore del
Messaggero di Dio è stato Abū Bakr, nominato durante un’assemblea pubblica.
Khalīfa inizia, dunque, a essere utilizzato per designare il capo della comunità
chiamato anche amīr al-mu’minīn(principe dei credenti). Egli non aveva alcuna
autorità nel dare nuove interpretazioni a questioni religiose: la sua funzione
consisteva semplicemente nel conservare le antiche dottrine, avendo una semplice
delega di autorità per l’applicazione e la difesa della sharī‘ah.
Tale titolo implicava l’idea che i successori di Muhammad assumessero le loro
funzioni di giudice e di capo temporale della comunità. Per contro si considerava che
la funzione profetica di Muhammad fosse cessata con lui.
- Abū Bakr designò come successore Omar, il quale costituì un consiglio che
elesse ‘Uṯmān. Quest’ultimo venne preferito al cugino di Muhammad, ‘Alī.
- A succedergli fu Mu‘awiya che diede il via alla dinastia omayyade.
- Proprio con gli omayyadi i principi nomadici di cui sopra iniziano ad avere
meno peso.
- Mu‘awiya affermò di non essere il rappresentante di Mohammed, ma di Dio.
Il titolo di «khalīfa allāh» ovvero «vicario di Dio», utilizzato poi dagli Abbasidi,
destò l’opposizione di molti ‘ulama che rigettavano l’idea che il califfo fosse il
rappresentante di Dio e ciò che questo implicava. L’ultimo califfo fu ucciso nel 1258
dai mongoli che conquistarono Baghdad.
I sultani ottomani ripresero il titolo, sostenendo di averlo ricevuto da un discendente
della famiglia abbaside che viveva ospite della corte mamelucca. In ogni caso, esso fu
poi abolito dal parlamento di Ankara nel 1924.
Sulla base di quanto avvenuto nel periodo dei califfi ben diretti, come si accennava, si
è costituita la teoria classica del califfato. Essa non vede il califfato come un
modello ideale, quanto come una condizione storica che si è realizzata nel
passato e che non potrà ripresentarsi. Seppur nelle fonti i termini khalīfa e imām
siano usati in modo interscambiabile, essi assumono, secondo le interpretazioni
successive, significati diversi.
Il primo è fondamentalmente applicato dai sunniti per alludere ai poteri temporali
del califfo, mentre l’altro alla facoltà di guidare la preghiera del venerdì che egli
esercita nella grande moschea della capitale. Il califfo deve essere scelto per elezione
(iḫtiyār) da parte dei membri della comunità che possono «sciogliere e legare» o per
designazione (‘ahd) da parte del predecessore. L’approvazione di tale momento è
garantita dalla bay‘a, la promessa di obbedienza da parte della comunità. Il compito
del califfo è di applicare la sharī‘ah e difendere e espandere il territorio islamico.
Gli ‘ulama (sapienti in materia religiosa) svolgono un compito di controllo dei
requisiti prima dell’investitura nonché successivamente, nel momento della
consultazione.
Il primo a delineare tale teoria fu al-Māwārdi (450 h.-1058 e.v.) che in un’opera dal
titolo «Principi del potere» evidenziava che il ruolo del califfo dovesse essere di
sostituto del profeta e non di Dio, scevro da funzioni sacrali e volto a svolgere una
funzione meramente esecutiva (e non legislativa).
La difficoltà nell’articolazione di tale teoria derivava anche dal fatto che
storicamente, a un certo punto, coesistevano due figure distinte: da un lato i califfi,
con potere nominale e dall’altro i sultani, che detenevano effettivamente la forza
grazie al potere degli eserciti. Tale circostanza fu giustificata da al-Māwārdi
sottolineando che i sultani ricevevano la loro legittimazione dai califfi a cui dovevano
obbedienza.
Al-Ghazali (1058-1111), invece, ritenne di distinguere i due ruoli evidenziandone
come uno fosse di tipo religioso e l’altro di tipo temporale e ritenendo che le due
investiture non dipendessero le une dalle altre.
Ibn Jama‘a (1241-1333) si spinse oltre e ritenne che il sultano potesse, per il bene
della comunità, ricevere la delega dei poteri propri del califfo.
Solo successivamente il califfato venne rappresentato come ideale che poteva
consentire una riforma in senso religioso della realtà politica. In particolare, Ibn
Taymiyya (1263-1328) suggerisce nella sua opera «La politica secondo la legge
religiosa» (siyāsa šar’iyya) la necessità di rifondare una comunità su basi coraniche,
in cui i governanti decidono secondo giustizia e a cui i sudditi devono obbedienza.
Uno degli aspetti centrali è l’obbligo di ribellarsi a chi non rispetta la legge divina.
Come evidenzia Monterosso [2005, 33], Ibn Taymiyya può essere considerato il
fondatore di una teologia politica dell’islam, perché evidenzia come «la politica fa
riferimento alla legge divina per realizzarsi e Dio, attraverso il diritto rivelato,
impone alla politica la sua volontà legislatrice».
I principali pensatori dell’islam radicale sono, per il pensiero sciita (su cui non mi
soffermerò), Khomeini e per il pensiero sunnita Qutb (1906-1966). Qutb descrive
una visione molto specifica di come dovrebbe essere il mondo, fornisce una critica di
come è attualmente il mondo (jahiliyyah) e sostiene una linea d’azione per realizzare
quel mondo («jihād») [Gregg 2010, 293].
Qutb sostiene che l’islam conosca solo due
jahiliyya denota «ignoranza
tipi di società, quella islamica e quella jahili. Il termine
pre-islamica» ed è usato da Qutb per descrivere il nemico dell’islam, ovvero tutte le
società che non seguono in modo puntuale i dettami dell’islam (fossero anche
formalmente islamiche).
jihād allora assume in quest’ottica la veste di un imperativo morale, sia personale
I l
che universale, finalizzato a liberare gli «oppressi» (mustad‘afun): il diritto di
distruggere tutti gli ostacoli sotto forma di istituzioni e tradizioni che limitano la
libertà di scelta dell’uomo.
Qutb, tuttavia, precisa che l’islam non attacca gli individui né li costringe ad accettare
le sue convinzioni. Invece, attacca le istituzioni e le tradizioni per liberare gli esseri
umani dalle loro influenze velenose, che distorcono la natura umana e limitano la
libertà umana. Come ricorda Campanini [2010, 1649], il jihād, secondo Qutb, «ha
caratteri specificatamente difensivi e deve servire fondamentalmente a tre scopi:
respingere qualsiasi aggressione alle vite e alle proprietà dei musulmani; prevenire
l’oppressione e la persecuzione dei musulmani che vivono in territorio non islamico;
rispondere alla rottura di un patto o di un accordo da parte del nemico».
L’importanza di questo autore risiede nel fatto che le sue idee sono state utilizzate,
con finalità molto diverse, dalla sinistra islamica e dai movimenti islamici
contemporanei.
Da un lato, infatti, insieme a Hasan Hanafi (1935-2021), ha offerto argomenti alla
teologia della liberazione islamica. Dio, infatti, secondo questo approccio teologico, è
concepito come un potere trascendente che mette gli uomini sullo stesso piano e
compito degli uomini è di realizzare la giustizia, liberando gli oppressi e gli sfruttati.
Dall’altro è stato usato dai movimenti radicali islamici come strumento di
legittimazione teorica. Questi ultimi, tuttavia, pur rivendicando come Qutb la
necessità di una lotta contro l’oppressore, se ne discostano sensibilmente
introducendo altri principi radicali. Basti pensare che ‘Abdallāh ‘Azzām, considerato
come il pensatore alle radici di al-Qā‘ida, ha sostenuto la liceità dell’imposizione della
religione, anche con la forza, a chi non si converte spontaneamente e la liceità di
uccidere a prescindere da qualsiasi vincolo legale [Campanini 2016].