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squarcio unico sul tipo di organizzazione mafiosa che s’era sviluppata lontana
da Palermo.
Oggi gli storici sono convinti che la Fratellanza fosse un’organizzazione molto
più sofisticata e pericolosa di quanto all’epoca le autorità si rendessero conto. E
se la mafia è sopravvissuta così a lunga nella terra dello zolfo, come nel resto
della Sicilia occidentale , la cosa si deve in parte al fatto che, come la
Fratellanza , è stata sistematicamente sottovaluta.
*Corruzione nelle alte sfere 1890-1904
I Fasci dei lavoratori e la rivolta contro la mafia
I Fasci ( foto a destra) lavoratori
costituirono il più grande episodio di
mobilitazione progressista dei ceti
popolari del XIX secolo.
Il movimento coinvolse interi paesi ;
sottrasse alla passività migliaia di
persone; raccolse ed espresse vivaci ed
originali energie intellettuali. Nel
movimento, masse e dirigenti
inalberarono la bandiera del socialismo
che stava fondando il
suo partito in Italia.
In Sicilia all’inizio si ebbe l’impressione che fossero
un’edizione aggiornata delle vecchie società operaie di
origine mazziniana, con prevalenti finalità di mutuo
soccorso. Solo agli inizi degli anni Novanta le pubbliche
autorità e i notabili delle più diverse gradazione della
borghesia mafiosa siciliana cominciarono ad avvedersi
della rilevante novità politica che essi rappresentavano e
a temere l’attività.
La fondamentale originalità
dei Fasci siciliani
consisteva nella loro formula organizzativa di
associazioni aperte, non corporative e non
settarie, non condizionate da una qualsiasi
militanza ideologica degli aderenti. Essi avevano
come obbiettivo di mettere insieme il maggior
numero possibile di lavoratori, su concreti
programmi di iniziativa e di lotta che
raccoglievano una generale in vocazione di
giustizia contro i soprusi e le angherie del
sistema dominante.
L’idea di base era una e semplice: l’unione fa la
forza. Quindi per ciascun “fasciante” si 6
intravedeva la possibilità di poter finalmente contare qualcosa su una unitaria e
compatta forza di massa.
Il partito socialista , se pur con diffidenza, li adottò politicamente, s’ingegnò a
dotarli di un’ideologia e li assunse come fondamentali organizzazioni di base
sulle quali contare per realizzare il suo insediamento nell’isola.
I Fasci avevano le loro centrali direttive nelle città e contavano sull’appoggio di
numerosi intellettuali dell’epoca che comprendeva una rete di alleanze
ideologiche vastissime: dai marxisti, dai massoni ai cattolici. Quando i Fasci
cominciarono, in modo quasi indolore, ad apparire sulla scena (alla fine del
primo governo Crispi ( foto in alto a sinistra) e in breve periodo il primo governo
Giolitti) tanto i crispini quanto i giolittiani poterono coltivare l’intenzione di
utilizzarli come strumento da usare per dare problemi e fastidi alla controparte.
Ma quando il movimento si rafforzò , i latifondisti ne pretesero la liquidazione.
Francesco Crispi tornò al governo nel dicembre del 1893 con l’investitura
dell’uomo adatto ad usare l’invocato pugno di ferro. E, infatti, lo usò poco dopo,
nel gennaio successivo, sciogliendo manu militari i Fasci.
L’opinione pubblica del tempo si divise nel giudizio e tale divisione attraversò
anche il partito socialistiche( in sempre più evidente rottura con il Sud) che si
sarebbe avviato a rappresentare una forza di sostegno del liberalismo
progressista giolittiano, in funzione dell’obbiettivo di sviluppare al nord le
aristocrazie operaie, all’ombra del processo di industrializzazione del Paese.
La loro tragica sconfitta sarebbe stata anche una sconfitta dell’intera Italia.
Infatti, colpite a morte le potenzialità di liberazione e di progresso della realtà
siciliana, umiliata e ridotta al silenzio per anni l’intera forza della democrazia
meridionale, si stabilizzarono le condizioni che avrebbero reso irrecuperabile il
ritardo economico e sociale del Sud rispetto al Nord e si accentuò quella
frattura tra le due Italie. Tutto questo può significare che s ei Fasci avessero
vinto la loro battaglia forse la mafia non esisterebbe più.
Non solo aumentarono incredibilmente le difficoltà per fare ritrovare alla
società dell’isola la strada del progresso, ma si crearono anche le condizioni
che avrebbero consentito alla peggiore Sicilia di spargersi pericolosamente nel
mondo. Quella tragedia di fine secolo fu, infatti, alle origini dell’esportazione
della mafia nelle lontane Americhe e in particolare negli Stati Uniti, un processo
sviluppatosi indivisibilmente con l’ondata emigratoria delle centinaia di migliaia
di poveracci siciliani costretti a lasciare un’isola nella quale si era bruscamente
passati alla disperazione.
*Forme di potere del regno mafioso
Giolittiano
Uno sguardo d’insieme all’età di Giolitti
Sotto Giolitti ( foto in basso) si ristabilizzò il potere mafioso e divenne quasi
intaccabile quel sistema di dominio al quale si erano sfortunatamente opposti i
Fasci dei lavoratori. Nel rapporto con lo Stato e con la sua amministrazione
locale si rafforzò , e divenne quasi normativo per tutti, il tracciato segnato dalla
prassi politica della mafia agraria, con il suo decisivo potere di controllo delle
elezioni politiche ed amministrative. 7
La stragrande maggioranza del ceto politico siciliano, espresso e sostenuto
dalla mafia, divenne parte organica di una
struttura del potere nazionale fondata
sull’accetazione del dualismo Nord-Sud. Alla
frattura nazionale tra le due Italie corrispondevano
nell’siola altre fratture specifiche: quella tra la
vasta area occidentale caratterizzata dalla
schiacciante prevalenza del latifondo e l’area
orientale, intorno a Catania, aperta ad esperienze
più dinamiche; nonché la grande , tradizionale
frattura tra la città e la campagna.
Questo stato di cose aveva un’incidenza così
rilevante sulla realtà da dividere anche i socialisti,
riapparsi sulla scena a rappresentare la più
significativa espressione delle vocazioni al
progresso. Nell’insieme il periodo vide crescere il
fasto e il prestigio della città di Palermo. Grazie al fatto che il potere Giolittiano
era uno dei meno invadenti che si fossero conosciuti, soprattutto in città se ne
sarebbe apprezzata la tendenza al lasciar fare che generava una positiva
sensazione di profittevole autonomia.
A fronte di un’Italia del nord, che con la FIAT (automobili), la Pirelli (gomma)
ed altre industrie si avvicina ai paesi più sviluppati dell’Europa, c’è un
meridione povero, senza risorse, arretrato, senza potere. Ed è dal Mezzogiorno
d’Italia, con la sua agricoltura povera, che partono migliaia di emigrati; è nel
Mezzogiorno d’Italia che l’ignoranza è diffusissima e le organizzazioni politiche
e sindacali sono quasi del tutto assenti. Quale terreno più fertile –quello del
Mezzogiorno appunto- per consentire a Giolitti di mantenere il controllo politico
del paese? È nel Mezzogiorno, infatti, che il primo ministro ricorre ad una
politica clientelare, che promette e minaccia in epoca di elezioni, che si avvale
dei prefetti per favorire le liste governative e di altri figuri per ottenere
l’elezione di candidati fedeli. E così il "ministro della malavita" –come il
meridionalista Salvemini bolla Giolitti in un libro pubblicato nel 1910- corrompe
il corpo elettorale, riesce a destreggiarsi tra gli opposti partiti, accontenta
liberali e socialisti, agrari e contadini, industriali e braccianti. E non si discosta
molto dal criticatissimo trasformismo di Agostino Depretis, che aveva
governato a lungo, solo grazie alle coalizioni politiche di comodo che
presiedeva, quelle caratterizzate dalla mancata distinzione tra i partiti di destra
e di sinistra, quasi, in sintesi perversa, contro la natura stessa della
democrazia, basata, invece, sul confronto dialettico. In pratica Giolitti, con
senso pragmatico, mira ad ottenere solo il successo del suo governo,
affrontando o scansando i grandi problemi politici e gestionali a seconda anche
dei contesti geografici. Più che mai, infatti, con i suoi governi sopravvivono due
paesi, uno al nord ed uno al sud; uno (il nord) pronto a vivere in uno stato
democratico, l’altro (il sud) ancora legato alle pratiche clientelari e tribali. Ed in
mezzo, lo statista Giolitti col suo governo, che comprende le diverse realtà del
paese, che non rischia, che non si impegna nella politica del cambiamento, che
impedisce al popolo qualsiasi salto di qualità. 8
*Espansione in America
La mafia mette le radici al di là
dell’Atlantico
La storia di questo insediamento iniziò nella
seconda metà del secolo XIX, e raggiunse la sua
fase adulta, con effetti di ormai stabile e vistoso
successo, tra gli anni venti e trenta del secolo XX, ai
tempi del proibizionismo e della Chicago dominata
da AL Capone e dai distinti gangsters con gli abiti
gessati e il “borsalino”.
La fase fondamentale di questo fenomeno è da
cercare negli anni della prospera età giolittiana, in questa fase si registò
un’eccezionale accelerazione del movimento migratorio.
La mafia d’oltre oceano funzionava da insostituibile “agenzia” per l’ingresso e il
dislocamento negli Usa di nuove ondate di poveri . per la prima volta usciva dai
suoi originari confini , avviandosi decisamente ad un avvenire internazionale.
Il caso Petrosino
La prima delle specifiche invenzioni della mafia americana
fu “ l’industria della protezione”; più conosciuto come “
pizzo”, i mafiosi imponeva ai commercianti e ai più diversi
titolari o esercenti di attività economiche in cambio di una
fantomatica protezione.
Fu proprio nel contesto della lotta alla mano nera che si
ebbe il primo confronto tra l’immigrazione italiana onesta
e quella che rappresentava il volto della mafia.
La vicenda ebbe inizio con il responsabile della polizia di
New York che decise di dare vita a una task force segreta.
Si trattava di un corpo autonomo rispetto alla stessa
polizia ufficiale per indagare sui traffici della mano nera. Il comando fu affidato
a un italiano : il tenete Joe Petrosini, ( foto a sinistra) di origine campana. ( già
noto per aver scoperto che la mano nera ricattava il famoso
tenero Enrico Caruso).
Petrosini capì che per combattere la mano nera aveva bisogno
di informazioni dalla polizia italiana , questa fu reticente; così
egli decise di indagare direttamente a Palermo cuore della
“malavita”. Arrivato in Italia si fece registrare sotto falso nome
e rifiutò qualsiasi contatto con la polizia italiana considerandola
collusa con la mafia. Riuscì grazie alla forza di persuasione dei
suoi dollari a entrare in contatto con molte figure di prestigio
della malavita siciliana, tra cui anche Don Vito Cascio Ferro
(foto a destra) l’inafferrabile boss dell’epoca.
Petrosini era diventato troppo pericoloso così il 12 marzo venne assassinato
davanti al suo albergo.
Il caso esplose subito. I sospetti caddero su Cascio Ferro ma un onorevole di
prestigio filogiolittiano si affrettò subitò a proteggerlo e non se ne fece nulla. 9
Dopo la sua morte ,negli Usa, la mafia continuò a svilupparsi in forme sempre
meno elementari della mano nera. A quei tempi stava crescendo tra i futuri
boss Lucky Luciano che si sarebbe rivelato elemento fondamentale della mafia
siculo-americana.
*La mafia tra le due guerre mondiali
La crisi del primo dopo guerra
La guerra mondiale di per sé era stata una “guerra di massa” che aveva
coinvolto anche i contadini meridionali e siciliani e
aveva funzionato, nel suo complesso, come un
gigantesco detonatore sociale dagli affetti
imponderabili.
Almeno due furono le principali novità destinate a
svilupparsi drammaticamente nel dopoguerra
siciliano: l’una, che chiamava in causa le forze
operaie e popolari, consisteva nelle suggestioni
diffusesi dall’Oriente russa con la rivoluzione
d’ottobre che sembrava aprire la strada a un
prossimo crollo del capitalismo ; l’altra, che riguardava in particolare il mondo
delle campagne, consisteva in una quasi parossistica accentuazione della fame
di terra dei contadini, con una carica rivendicativa non indifferente. Le due