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ALLE FRONDE DEI SALICI

E come potevano noi cantare

Con il piede straniero sopra il cuore,

fra i morti abbandonati nelle piazze

sull’erba dura di ghiaccio, al lamento

d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero

della madre che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento.

É la rappresentazione degli orrori commessi dai nazisti sulla popolazione inerme degli italiani,

massacri che suscitavano panico e paura tra i civili e il silenzio dei poeti. Orribili erano i morti

abbandonati nelle piazze, il lamento dei fanciulli, il grido straziante della madre che vedeva il proprio

figlio appeso sul palo del telegrafo. Scene reali che si verificavano nelle città e nelle campagne

italiane. I nazisti occupavano il Paese e i poeti non trovavano le parole per esprimere lo sconforto e il

dolore che avevano nel cuore, nell’anima. Tanto dolore paralizza la mano e offusca la mente. I poeti

erano ridotti all’impotenza, avevano finito di scrivere versi e avevano appeso i lori fogli puliti al

vento della guerra perché la poesia è impotente di fronte ai morti e alla barbarie. Questa poesia si

ispira al a un famoso salmo (n°136), in cui gli Ebrei espressero il proprio lamento per l’esilio a

Babilonia.

UOMO DEL MIO TEMPO

Sei ancora quello della pietra e della fionda,

uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,

con le ali maligne, le meridiane di morte,

t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,

alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,

con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,

senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,

come sempre, come uccisero i padri, come uccisero

gli animali che ti videro per la prima volta.

E questo sangue odora come nel giorno

Quando il fratello disse all’altro fratello:

«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,

è giunta fino a te, dentro la tua giornata.

Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue

Salite dalla terra, dimenticate i padri:

le loro tombe affondano nella cenere,

gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

Il tema della poesia è l’immutabilità della natura umana, rimasta uguale a quella dell’uomo fatta di istinti, di

pulsioni, di sentimenti e di egoismo, è rimasta uguale fino a oggi, anche se la scienza ha fatto passi da giganti. La

scienza ha perfezionato le armi che portano la morte i fratelli. Alcuni uomini, presi dalla volontà di potenza, ancora

oggi scatenano guerre che portano lutti e sofferenza alle popolazioni civili. La civiltà ha solo mutato le condizioni di

guerra: dalla fionda si è passati ai carri armati, e agli aerei che seminano la morte. L’uomo del nostro tempo,

afferma il poeta, ha perduto ogni considerazione dei fratelli e ha dimenticato la solidarietà e la religione che lo

trattengono dalla violenza. É rimasto uguale all’uomo che, attratto il fratello in un campo, lo ha ucciso. Di nuovo

l’uomo del nostro tempo tradisce oggi il fratello. E la menzogna di allora è arrivata fino all’uomo del nostro tempo.

Di fronte alla menzogna e all'inganno i giovani di oggi, i figli, farebbero bene a rinnegare i padri che portano la

guerra: le loro tombe giacciono in una terra desolata, gli avvoltoi rodono il loro cuore e il vento sparge nell’aria

l’odore dei loro cadaveri.

Storia : I grandi stermini italiani

La strage di Sant'Anna di Stazzema

I primi di agosto 1944, Sant’Anna di Stazzema era stata qualificata

dal comando tedesco “zona bianca”, ossia una località adatta ad

accogliere sfollati: per questo la popolazione in quell’estate aveva

superato le mille unità. Inoltre, sempre in quei giorni, i partigiani

avevano abbandonato la zona senza aver svolto operazioni militari di

particolare entità contro i tedeschi. Nonostante ciò all’alba del 12

agosto ’44, tre reparti di SS salirono a Sant’Anna, mentre un quarto

chiudeva ogni via di fuga a valle, sopra il paese di Valdicastello. Alle

sette il paese era circondato. Quando le SS giunsero a Sant’Anna,

accompagnati da fascisti collaborazionisti che fecero da guide, gli

uomini del paese si rifugiarono nei boschi per non essere deportati,

mentre donne vecchi e bambini, sicuri che nulla sarebbe capitato loro,

in quanto civili inermi, restarono nelle loro case. In poco più di tre ore

vennero massacrati 560 innocenti, in gran parte bambini, donne e

anziani. I nazisti li rastrellarono, li chiusero nelle stalle o nelle cucine

delle case, li uccisero con colpi di mitra e bombe a mano, compiendo

atti di efferata barbarie. Infine il fuoco, a distruggere e cancellare

tutto. Non fu rappresaglia, non fu vendetta. Come è emerso dalle

indagini della Procura Militare di La Spezia, si trattò di un atto

terroristico, di una azione premeditata e curata in ogni minimo

dettaglio. L’obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la

popolazione per rompere ogni collegamento fra le popolazioni civili e

le formazioni partigiane presenti nella zona.

La battaglia e la stage di Forno

Spinti dall'entusiasmo i partigiani delle brigate "Luigi Mulargia" e della "Silvio

Ceragioli" scesero in forze a Forno. In breve conquistarono il paese, erano le

15.30 del 9 giugno 1944. La situazione era comunque considerata

eccessivamente rischiosa da alcuni dirigenti del Comitato di Liberazione

Nazionale e l'11 venne consigliato alla "Mulargia" di rientrare alla base sulle

quote più alte dei monti circostanti. Il comandante Marcello Garosi e gli altri

comandanti decisero di rimanere, preparandosi ad accogliere la reazione dei

tedeschi.

Nel frattempo fra i fascisti di Massa si sparse il panico mentre parallelamente

nella popolazione della zona cresceva il fermento. La notizia arrivò fino a Lucca

dove le diserzioni fra i repubblichini incrementarono copiosamente. Azioni

sempre più audaci vennero messe in atto, ma i tempi non erano maturi e

l'imperfetto coordinamento fra i vari gruppi sarà una delle cause della disfatta.

Il passo di Colonnata, che era d'importanza strategica, venne presidiato da un distaccamento che la sera del 12 giugno non venne raggiunto

dai rifornimenti. I partigiani allora abbandonarono la posizione per poche ore per potersi rifocillare, senza attendere il cambio. Fu fatale:

all'alba del 13 un migliaio di soldati appartenenti alle SS, alla X Mas e alla Guardia Nazionale Repubblicana di La Spezia mossero contro

Forno appoggiati da due semoventi. In particolare i militi della X Mas ebbero la fortuna di trovare il passo di Colonnata sgombro e di poter

così operare un accerchiamento. Alle 3.20 venne dato l'allarme: patrioti della "Silvio Ceragioli" affrontarono le avanguardie tedesche e

vennero fatte esplodere le cariche piazzate sulle pendici del monte Bizzarro. Tutta la testa della colonna nemica e tre camion di soldati vennero

annientati. Ma la scarsità di munizioni impose comunque una ritirata per i partigiani. Nel frattempo la X Mas aveva sfruttato a pieno l'effetto

sorpresa e alle 6 del mattino l'accerchiamento era completo. I partigiani che non riuscirono a mettersi in salvo operarono una efficace

resistenza dai locali del cotonificio poco più a monte del paese. Il comandante Marcello Garosi che per una ferita ad una gamba non aveva

preso direttamente parte alle ultime azioni era alloggiato fuori dal paese: tentò più volte di raggiungere i compagni assediati al cotonificio ma

venne respinto e infine ferito gravemente. Continuò a sparare contro i nemici, infine conservò l'ultima pallottola per sé, per non cadere vivo

nelle loro mani. Così Garosi, detto "Tito", morì in località Pizzacuto alle 9.30, poco distante dal cotonificio.

A mezza mattina i nazi-fascisti avevano riconquistato Forno. Subito dopo cominciò la vera carneficina. 72 giovani del luogo vennero fucilati

sull'argine del Frigido, i partigiani presi prigionieri vennero rinchiusi nella caserma dei carabinieri e arsi vivi. Altre 400 persone vennero

avviate verso i campi di concentramento in Germania e le loro case furono saccheggiate e date alle fiamme.

La strage del piroscafo Giudecca

E’ il 13 ottobre del 1944, In laguna la giornata concede

profumi primaverili, tra le calli, i chioggiotti vivono una

insolita tranquillità. Ma a qualche miglio dal porto di

Chioggia, il vaporetto Giudecca, che da Vigo collega

Chioggia a Venezia, naviga con quasi duecento passeggeri,

in gran parte di Chioggia, Sottomarina, e d’altri centri del

litorale. Dopo quindici minuti di navigazione, vale a dire:

“Le dodici e quarantacinque”, Il piroscafo è già oltre il

pontile di Caroman e diventa bersaglio di tre “caccia-

bombardieri” dell’aviazione anglo-americana. Malgrado

ciò, la nave a vapore riesce a giungere nei pressi

dell’abitato di Pallestrina. I Velivoli scemano l’altitudine e

a volo radente, iniziano a mitragliare il piroscafo. Non solo,

precipita la prima bomba che involontariamente centra la

cabina di comando ed uccide il timoniere. La seconda

bomba impatta contro la prua dell’imbarcazione Acnil.

La terza esplode all’interno del locale macchine. Il piroscafo, s’inclina, mutandosi in una trappola mortale. Non

basta: gli effetti delle esplosioni scaraventano schegge di bombe, e frammenti della motonave, fino a raggiungere

l’abitato d’Ognissanti. Il “battello Giudecca” è avvolto da fiamme, urla di terrore e scene rosso sangue. L’orrore

della guerra, avvinghia la nave posandola sul fondo della laguna. Una bomba punta in direzione di una piccola

imbarcazione e dilania un’intera famiglia. Intanto i caccia-bombardieri continuano le operazioni di

mitragliamento, e le scene di panico si spostano sull’abitato d’Ognissanti. Corpi straziati d’ogni età, urlano il

proprio desiderio di non morire. In tanti pregano per la vita dei più piccoli, ma non basta, i 20 mm dei caccia sono

senza pietà. Tra densi ed acri fumi, ad Ognissanti il terrore si trasforma in distruzione. Ma la storia insegna e

tramanda le virtù del popolo lagunare, infatti i pescatori della vicina Pallestrina indifferenti a bombe d’aereo,

incuranti dei mitragliamenti s’imbarcano per prestare immediato soccorso ai 150 naufraghi del Giudecca. Ma lo

sguardo della morte anticipa la propria opera su 67 incolpevoli cittadini, travolti dai baci di una guerra mai

compresa

Le stragi di Civitella e San Pancrazio

Il 18 giugno 1944 arrivò nel paese di Civitella un gruppo di partigiani, entrati

nel circolo ricreativo vi trovarono quattro soldati tedeschi. Nello scontro che

ne seguì due dei tedeschi rimasero uccisi, gli altri invece riuscirono a scappare

e a raggiungere dei commilitoni più a valle.

Dopo questi fatti la popolazione di Civitella abbandonò in massa il paese. Ci

furono perquisizioni e violenze ma nessuno si fece delatore, tant'è che venne

imposto un ultimatum di 24 ore, se entro quel tempo non fossero stati

comunicati al comando tedesco i nominativi dei partigiani coinvolti vi

sarebbero state rappresaglie.

I giorni passarono, da parte tedesca venne l'assicurazione che l'uccisione dei

tre soldati (uno dei due che si erano salvati era poi morto per le ferite) era

stata vendicata in scontri diretti coi partigiani e che Civitella poteva stare

tranquilla. Il 29 di giugno a Civitella si festeggiavano i santi Pietro e Paolo,

per le assicurazioni avute dai tedeschi quasi tutti gli abitanti rientrarono in

paese. In realtà era una trappola: la notte vari reparti circondarono Civitella,

Cornia e San Pancrazio.

Civitella

Durante la messa della mattina i soldati irruppero in chiesa e fecero uscire tutti, dividendo gli uomini dalle donne e i bambini. Poi, dopo

aver indossato dei grembiuli per non macchiare le divise, iniziarono a uccidere gli uomini a gruppi di cinque con un colpo alla nuca.

Don Lazzeri, arciprete di Civitella, pur potendo facilmente sottrarsi alla morte scelse di condividere la sorte dei suoi parrocchiani, per

questo è stato insignito della medaglia d'oro al valor civile. Scamparono solo un seminarista che scartò all'ultimo il colpo che doveva

ucciderlo gettandosi dalle mura e un padre con una bambina in braccio, fatto fuggire di nascosto da un soldato. Dall'altra parte

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