
Ad esempio siamo abituati a inviare messaggi quotidianamente a chi conosciamo. Ma quando è che si esagera, e quando si può dire che gli altri esagerano con noi? In altre parole, inviando a una persona una quantità eccessiva di messaggi via social si può andare incontro a una condanna per molestie?
La risposta è ‘dipende’. Dipende dal contesto, dal contenuto dei messaggi e dalle parti in causa. Come si vede da un recente caso giudiziario che ha alzato un vero e proprio polverone. Per fare chiarezza sulla questione abbiamo parlato con l’Avvocato Giuliano De Luca, Legal Expert di Generazioni Connesse, il Safer Internet Centre italiano coordinato dal Ministero dell’Istruzione e del Merito.
In questo articolo scoprirai:
- Il caso della madre naturale che “tartassa” sui social i figli e i genitori adottivi e la sentenza che la scagiona
- Le motivazioni della sentenza: l’istantaneità dei messaggi può essere evitata
- Si può davvero rimanere impuniti se si esagera con i messaggi sui social?
- Hai bisogno di aiuto? Generazioni Connesse è il Safer Internet Centre Italiano a cui puoi rivolgerti
Tartassare una persona con messaggi tramite social è una molestia? Il caso
Certo è che nel mondo dei social network torto e ragione camminano sul filo del rasoio. È il caso di una signora che aveva inviato una serie di richieste di amicizia, tramite Instagram e Facebook, ai due figli precedentemente dati in adozione. Un’orda di notifiche che via via erano diventate sempre più insistenti, al punto da convincere i genitori adottivi a rivolgersi all’Autorità Giudiziaria. La madre naturale, condannata nei primi due gradi di giudizio, è stata poi assolta dalla Corte di Cassazione. Ciò significa quindi che possiamo tempestare di notifiche chiunque indistintamente?
Prima di tutto, attenzione a fare di tutta un’erba un fascio: perché la Giurisprudenza non funziona così. “Molto spesso capita che le sentenze siano strumentalizzate per interessi particolari e mi riferisco a i cosiddetti articoli acchiappaclick o clickbait o peggio ancora con l’intento di disinformare o creare vere e proprie fake news.Il corretto approccio ad una pronuncia giurisprudenziale invece, consiste nel reperire il testo integrale del provvedimento ed analizzare i fatti ed il ragionamento che hanno seguito dai giudici per giungere alla propria decisione. Proviamo a tradurre in termini chiari e semplici cosa è accaduto e che cosa ha deciso la prima sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenze n. 40033 del 3 ottobre 2023” ha spiegato l’Avvocato De Luca.
Andando quindi a ritroso, tutto è iniziato quando la signora imputata aveva inviato una serie di richieste di amicizia tramite Facebook ai propri figli naturali. A queste si erano aggiunti nel corso del tempo diversi messaggi, via Facebook e Instagram, inviati ai genitori adottivi. La coppia ha quindi deciso di rivolgersi all’Autorità Giudiziaria che ha condannato, in primo grado, la madre naturale per il reato di atti persecutori, previsto dall’articolo 612 bis del Codice Penale. La colpevolezza della donna è stata confermata anche in Appello, ma qui la Corte di Caltanissetta ha commutato la condanna in un reato di molestia (articolo 660 del Codice Penale).
A ribaltare la situazione ci ha poi pensato la Corte di Cassazione a cui la donna aveva fatto ricorso. Con la sentenza n. 40033 depositata il 3 ottobre 2023, la Suprema Corte ha fatto cadere tutte le accuse perché “il fatto non sussiste”. Per i giudici, infatti, i reiterati messaggi inviati dalla donna tramite Facebook e Instagram non prefigurano il reato di molestia. Ciò significa quindi che si può agire impunemente su questo versante? Non è proprio così, come ci spiega l’Avvocato De Luca.
L’istantaneità alla base della sentenza
Alla base di questa sentenza ci sono infatti degli elementi da tenere in considerazione per comprendere realmente il punto di vista dei giudici. Prima di tutto, occorre partire dall’articolo 660 del Codice Penale - per cui la donna era stata condannata in Appello - che punisce “chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo”. Nell’emettere la sentenza, i giudici della Cassazione hanno puntato i riflettori sulla locuzione ‘col mezzo del telefono’, asserendo che questa andava contestualizzata. Infatti, il Codice Penale risale al lontanissimo 1930: ovvero quando gli smartphone, e prima ancora Internet, non esistevano.
Con l’espressione ‘col mezzo del telefono’, infatti, il Codice Penale intende l’utilizzo delle linee telefoniche, e non del telefono in sé, perché 97 anni fa smartphone e simili non esistevano nemmeno nella più fervida immaginazione del genio di turno. Il secondo punto preso in considerazione dai giudici è il ‘raggio d’azione’ della molestia. Inviare costantemente messaggi via social, o tramite posta elettronica, non è assimilabile a tempestare qualcuno di chiamate telefoniche perché viene meno l’elemento dell’immediatezza. Il reato si prefigura quando “il destinatario è costretto, sia de auditu che de visu, a percepirli, con corrispondente turbamento della quiete e tranquillità psichica".
In sostanza quando la vittima si ritrova “senza possibilità di sottrarsi all'immediata interazione con il mittente”. Nel caso di molestie tramite messaggistica, invece, il destinatario dei messaggi potrebbe teoricamente impostare un blocco alle notifiche, sottraendosi così al rischio di venire importunato.
Si può davvero rimanere impuniti se si inviano troppi messaggi a qualcuno?
Tutto ciò, però, non deve trarre in inganno. Il caso infatti è singolare ma, come ricorda l’Avvocato Giuliano De Luca, vanno sfatati i falsi miti, perché “questa sentenza seppur importante deve essere considerata in quanto tale, nulla esclude che in futuro un caso simile possa essere interpretato in maniera diversa”. E questo perché, come detto in precedenza, la Giurisprudenza può trarre spunto dai casi passati, ma non opera nel ‘generale’. Si tratta di una disciplina che, al contrario, riflette sul singolo caso: “A riguardo voglio solo citare come esempio che, qualche mese fa la stessa sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 34171 ha confermato che l’invio massivo di messaggi di posta elettronica offensivi integrano il reato di molestia. Altro aspetto importante da sottolineare è che questa pronuncia non esclude la possibilità che comportamenti molesti possano configurare altre ipotesi di reato, come ad esempio gli atti persecutori. Pertanto raccomando a tutti di utilizzare gli strumenti di comunicazione sempre in modo consapevole e corretto”.
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