Daniele Grassucci
Autore
Dipendenza da smartphone

Lo smartphone è diventato il colpevole perfetto. Gli si attribuisce la distrazione a scuola, la fatica a concentrarsi, persino il modo in cui i ragazzi stanno insieme. Ma quando una ragazza di 15 anni dice “sono consapevole di essere dipendente”, salta la scorciatoia del giudizio. Perché a quel punto la partita vera non è tra adulti moralisti e ragazzi irresponsabili. È più complicata.

In questa puntata speciale di Skill Factor - il nuovo format Youtube di Skuola.net, che mette a confronto il POV di mondi apparentemente agli antipodi -  il match è in casa: Isabella, mamma e manager, e Benedetta, figlia quindicenne, portano in studio due visioni che si incastrano e si scontrano sullo stesso oggetto.

Da un lato il divieto di smartphone a scuola, con i telefoni “spenti e dentro una scatola” (non proprio a prova di tentazione); dall’altro l’uso quotidiano, i trucchi per aggirare le regole, le nuove abitudini, e quell’oscillazione continua tra disconnessione e dipendenza che, a sentirle parlare, riguarda molto più di una generazione.

Indice

  1. Il divieto a scuola: telefoni spenti, scatole-deposito e giudizi contrastanti
  2. “Sono dipendente”: la sincerità che sposta il discorso dal moralismo ai fatti
  3. “Sto parlando a mia figlia e a otto amiche”: relazioni, chiamate e lo studio che non si fa più da soli
  4. Un mese senza smartphone: meno distrazioni, batteria piena e… noia
  5. La creatività come effetto collaterale
  6. Social, profili privati e corpi sotto pressione
  7. Limiti d’età sui social: “soggettivo” contro “fondamentale”

Il divieto a scuola: telefoni spenti, scatole-deposito e giudizi contrastanti

Nella scuola di Benedetta la procedura non è militaresca: all’ingresso i telefoni vengono “spenti e messi all’interno di una scatola”. Traduzione: la regola c’è, l’infrastruttura molto meno.

Durante la ricreazione – “quando non c’è sorveglianza” – i telefoni “vanno ripresi e messi spenti in tasca”, con un inciso e una piccola confessione: “Non so quante persone li tengono spenti. Io no”.

Isabella, la madre, racconta la notizia del divieto con l’entusiasmo di chi aspetta una tregua: lei e il marito si guardano e pensano “finalmente”, mentre dall’altra parte arriva il “mannaggia”.

Benedetta, dal canto suo, confessa lo scetticismo iniziale: i professori lo minacciavano “già dall’anno precedente” e lei pensava fosse “per farci paura”, finché “è arrivato veramente”.

E questo è il punto di partenza di tutto: la scuola prova a tagliare netto, ma la realtà dei corridoi è fatta di regole, spazi grigi e una generazione che è cresciuta imparando a muoversi tra i due.

“Sono dipendente”: la sincerità che sposta il discorso dal moralismo ai fatti

La parte più interessante arriva quando Benedetta non si difende, ma ammette: “Non lo nego. Io lo ammetto, io sono consapevole… ma purtroppo è così. Cioè, non riesco proprio a staccarmi”.

È una confessione che fa saltare il cliché del “ragazzo che non capisce” e mette sul tavolo il tema vero: l’uso consapevole non nasce tanto dalla predica quanto dalla capacità di riconoscere gli effetti di un comportamento.

Quando le chiedono quali siano, Benedetta non parla di apocalissi digitali: parla di tempo. “Perdo un sacco di tempo, mi perdo su TikTok o su Instagram. Mi metto un attimo sul letto e poi è passata un’ora e mezza e io non ho fatto niente”. Insomma, un impatto che si misura con una sottrazione continua di attenzione, minuti, energia.

Isabella, dall’altra parte, ammette che “anche l’adulto ha difficoltà a staccarsi dal cellulare”. E infatti, nella sua lettura, la disconnessione “è utile per tutti”. E quando parla di scuola la sintetizza così: “Quelle ore in cui effettivamente si disconnettono, secondo me, sono qualcosa di sano”.

Perché, dice, serve a “creare un altro tipo di relazione, fuori dagli schermi, quella reale e non virtuale”. Il suo “pallino” è la distrazione nel rapporto relazionale: amicizia, conversazione, sguardi che si incontrano.

“Sto parlando a mia figlia e a otto amiche”: relazioni, chiamate e lo studio che non si fa più da soli

Il tema relazione esplode quando Isabella racconta la scena serale: entra in camera per dire una cosa e si accorge che la sta dicendo “a mia figlia e a circa otto amiche che sono collegate con lei al telefono”. Facile intuire il fastidio: da un lato l’irritazione per l’invasione continua; dall’altro la scoperta che il telefono è anche presenza sociale.

Benedetta, qui, non smentisce, bensì rilancia. Dice che ormai non riesce più a studiare da sola: “Devo avere qualcuno in chiamata”. Organizzano interrogazioni e studio “tutti gli stessi giorni, le stesse ore, le stesse cose”, perché “ormai non sappiamo più come fare da sole”.

Passaggio interessante, questo, perché mostra una dipendenza che va al di là dell’intrattenimento: è regolazione emotiva, bisogno di compagnia, difficoltà a sostenere la concentrazione senza l’altro.

Isabella lo vede come un problema? Non esplicitamente. Ma il suo bersaglio resta l’interferenza della tecnologia nella relazione “reale”. È un punto in cui le due prospettive non si conciliano: Benedetta descrive il digitale come una forma di relazione, Isabella insiste sulla necessità di un rapporto “fuori dagli schermi”.

Un mese senza smartphone: meno distrazioni, batteria piena e… noia

E cosa è cambiato con il divieto? “Assolutamente molte meno distrazioni in classe”, spiega Benedetta. E aggiunge un dettaglio pragmatico, quasi comico: è “soddisfacente” perché una volta uscita da scuola “accendi il telefono ed è carichissimo”.

Qualche effetto anche sul piano didattico: “Forse più produttivi durante le lezioni”, anche se subito frena sull’idea che senza telefono si segua davvero (“parola grossa”). Poi arriva la verità più scolastica del mondo: la noia. Le chiedono se si annoia di più senza telefono e lei risponde: “Non so se è per il telefono, ma sì, mi annoio… tantissimo”.

Isabella, invece, racconta il cambiamento con parole da madre che vede micro-segnali: quando si disconnettono “sorridono, ti guardano negli occhi mentre parli”, sembrano più “sereni”. Inutile dire che Benedetta non si riconosce: “È come facevo prima”.

La creatività come effetto collaterale

La parte più divertente – e più rivelatrice – è la risposta creativa al divieto. Si parla di ragazzi che rispolverano vecchi device e di strategie da “furbizia scolastica”, che vede consegnare solo la cover o un telefono vecchio. E naturalmente, conferma Benedetta, succede soprattutto durante i compiti in classe.

Isabella legge l’ironia come segnale positivo: “Se ci hanno giocato su e ci hanno fatto ironia vuol dire che l’hanno presa bene”.

Social, profili privati e corpi sotto pressione

Lo smartphone, oltre al tempo perso, è però anche identità. Benedetta racconta l’ecosistema dei profili: Instagram dove pubblica “foto belle”. E poi il profilo privato, quello cioè degli amici. E no, i genitori non sono amici.

Poi arriva il tema più delicato: la percezione del corpo. Che i social inevitabilmente condizionano, come spiega Benedetta: “Con questa cosa degli influencer, questo canone perfetto: tutto rifatto…”.

E porta un esempio domestico, potente proprio perché ridicolo: la sorella di 13 anni che dorme con il naso “incerottato” per farlo all’insù, perché “l’ha visto su TikTok”.

Benedetta dice di sentirsi meno condizionata ultimamente, avendo acquisito “più sicurezza”, ma ammette i momenti in cui vorrebbe vedersi “più come quello che si vede”.

Limiti d’età sui social: “soggettivo” contro “fondamentale”

Il match finale è sul limite anagrafico e sulla verifica dell’età. Benedetta, che a 15 anni sarebbe fuori dal blocco, lo vede come un tema “molto soggettivo”: guardando la sorella forse si direbbe d’accordo perché “ne fa un po’ un abuso”, ma aggiunge che “dipende da persona a persona”.

E, soprattutto, avverte del rischio psicologico: “Un limite così stretto può generare la reazione opposta”, spingendo ancora di più verso la dipendenza. La sua soluzione è la responsabilità familiare: “Dovrebbero essere i genitori stessi a sapere come gestire la situazione”.

Lo sguardo di Isabella è diametralmente opposto: per lei una regola sull’età è “fondamentale”, anche perché “indietro non si torna su tecnologia, social e persino ChatGPT per fare i compiti”. Ma proprio perché non si torna indietro, sostiene, bisogna tutelare i più piccoli.

A cura della Redazione di Skuola.net Questo articolo è frutto del lavoro condiviso della redazione di Skuola.net (direttore Daniele Grassucci): un team di giornalisti, data analyst ed esperti del settore education che ogni giorno produce contenuti e approfondimenti originali, seleziona e verifica le notizie più rilevanti per studenti e famiglie, garantendo un'informazione gratuita, accurata e trasparente.
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