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Flusso di capitale per debiti di guerra 1919-1929 (in milioni di dollari)
La soluzione non era però semplice: una prima contraddizione era costituita dalla
fragilità economica tedesca che era uscita dalla guerra stremata. I paesi vincitori
e in particolare gli Stati Uniti si erano resi conto allora della necessità di
sostenere l’economia tedesca con massicce esportazioni di capitali. Tali
finanziamenti avevano portato alla formazione di un triangolo finanziario, nel
quale gli Stati Uniti sostenevano con i loro capitali l’economia tedesca; la
Germania dedicava gran parte delle proprie risorse a pagare le riparazioni a
Francia e Gran Bretagna, e queste a loro volta utilizzavano tali capitali per pagare
i propri debiti di guerra. Questo triangolo poteva sussistere solo fin quando gli
Stati Uniti fossero stati disponibili a esportare i propri capitali in Germania, ma si
rivelò un pericoloso meccanismo di diffusione della crisi, quando la mancanza di
risorse finanziarie americane interruppe l’intero circuito internazionale. La
seconda contraddizione insita nella scelta di penalizzare lo Stato tedesco era data
dal fatto che le pressioni di Francia e Gran Bretagna costringevano la Germania a
una aggressiva politica di esportazioni per potersi procurare la valuta necessaria
ai pagamenti. Ciò da un lato aveva finito con il creare un pericoloso concorrente
per le potenze vincitrici e dall’altro aveva provocato una riduzione, anziché, un
ampliamento dei loro mercati. Il secondo elemento di fragilità del sistema
economico internazionale consisteva nell’assenza di una credibile autorità
finanziaria internazionale e di un efficace sistema di norme, garantito da un
paese-guida capace di assumersi responsabilità generali e pronto a operare in
caso di emergenza. La nazione che aveva rivestito per lungo tempo questo ruolo
era stata la Gran Bretagna, che però era uscita irrimediabilmente indebolita dalla
guerra. Il primato avrebbe dovuto passare in quegli anni agli Stati Uniti, che dal
punto di vista produttivo, nell’economia internazionale occupavano una posizione
di assoluto predominio già a partire dall’inizio del secolo. Ma a questa posizione di
primato economico non corrispondevano sul piano dell’ordinamento monetario e
finanziario internazionale, responsabilità proporzionate. Nel sistema economico
internazionale gli Stati Uniti occupavano una posizione secondaria rispetto alla
Gran Bretagna. Ciò era dovuto a motivi sia politici sia tecnici: sul piano politico,
gli anni immediatamente successivi alla fine della guerra avevano visto negli Stati
Uniti il prevalere delle forze “isolazioniste”, contrarie a un coinvolgimento nella
politica europea. Gli Stati Uniti avevano perciò mantenuto una posizione
marginale nelle varie conferenze internazionali destinate a definire l’assetto
monetario e finanziario post-bellico. Sul piano tecnico-bancario poi mancava negli
Stati Uniti un organismo centrale capace di regolamentare l’insieme dell’economia
in accordo con il governo. L’assenza di una guida economico-finanziaria si
rifletteva in maniera drammatica sul sistema monetario internazionale, reso
quanto mai rigido e vulnerabile dalla scelta di non abbandonare del tutto il
sistema aureo, ma di correggerlo semplicemente. Nella conferenza di Genova del
1922, fu definito un sistema misto, rimasto noto come gold exchange standard:
fermo restando l’impegno delle varie banche centrali a dare oro in cambio della
propria valuta ai paesi che ne avessero fatto richiesta, ci si accordava di
immagazzinare nelle riserve delle stesse banche centrali, non solamente oro ma
anche un’altra valuta: la sterlina. Questo atto affidava alla finanza britannica un
ruolo di regolatore dell’economia internazionale che essa non era più in grado di
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rivestire e contribuì a far ruotare l’intero sistema monetario internazionale
intorno alla moneta di una paese relativamente debole, incapace di assumere su
di sé quelle responsabilità generali, che un’economia complessa come quella della
prima guerra mondiale veniva imponendo. Ma gli Stati Uniti, il cui intervento
nella guerra era stato determinante, uscirono dal conflitto più forti che mai.
Mentre le nazioni europee erano impegnate a combattere, gli USA, infatti, avevano
esportato i loro prodotti agricoli e industriali in tutta l’Europa. Nel dopoguerra
s’impegnarono poi, come detto, a sostenere ingenti finanziamenti per risollevare le
industrie delle nazioni impegnate nella guerra.
Per l’America gli anni venti furono un’epoca di incredibile espansione economica.
La densità della popolazione nelle grandi città aumentò sia a causa dell’ondata
migratoria proveniente dall’Europa sia per la crescita industriale che spinse molti
contadini ad abbandonare la campagna. Il Governo, favorendo il Business,
diventò lo strumento di industriali e banchieri che lo sfruttarono per accrescere i
propri guadagni. Questo stato di cose aveva provocato una difforme distribuzione
della ricchezza.
Tra il 1923 e il 1929, infatti, gli Stati Uniti avevano conosciuto uno sviluppo
economico di dimensioni
straordinarie, caratterizzato da un
elevato tasso di incremento del reddito
nazionale e da un aumento continuo
della produttività per operaio. Fattore
trainante era stata la diffusione su
larga scala di nuovi prodotti di
“consumo durevole” (automobili,
elettrodomestici, radio..), favorito da
una politica a bassi tassi di interesse
che aveva permesso a un gran
numero di persone di acquistare
questi beni con pagamenti rateali,
mutui e altre facilitazioni. Un
incremento della produzione si ebbe Una delle prime Ford T 1
anche nel settore agricolo in cui, grazie
alla disponibilità delle banche, i
contadini poterono ingrandire i loro poderi e acquistare macchinari per
aumentare la produttività della terra.
Durante questo periodo conosciuto come “The Roaring Twenties”, ovvero “Gli Anni
Ruggenti”, in America regnava una grande fiducia e tutto lasciava presagire che la
macchina produttiva non si sarebbe arrestata. Questo ottimismo si manifestò
soprattutto in borsa, che era diventata la sede di movimenti speculativi di
gigantesche dimensioni. La spirale speculativa non era sottoposta a freni né a
controlli. Ogni giorno veniva scambiati quattro, cinque milioni di titoli da più di
un milione di giocatori fra piccoli risparmiatori e speculatori di professione, che
passavano da un titolo all’altro rincorrendo nuovi previsti rialzi. I risparmiatori e
gli imprenditori, infatti, confidavano sul fatto che le azioni, acquistate a un certo
valore, potessero fruttare ingenti guadagni se rivendute a distanza di tempo per
un valore superiore a quello di acquisto. Sembrava essersi innescato un circolo
virtuoso: l’alta produttività permetteva di risparmiare forza lavoro e quindi
mantenere stabili i salari; la stabilità di questi favoriva la stabilità dei prezzi e dei
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prodotti, e quindi la propensione agli investimenti che, a loro volta, permettevano
di elevare ulteriormente la produttività. Ma tra la tendenza all’espansione della
produzione e la stabilità dei salari vi era una contraddizione insanabile. Gli
investimenti e l’aumento della produttività portavano infatti a un continuo
incremento della produzione cui non corrispondeva una proporzionata crescita
del potere d’acquisto dei lavoratori e alla lunga il limitato potere d’acquisto delle
masse fin’ per costituire un freno all’espansione.
Intanto le economie europee davano segnali di ripresa, riportando gli scambi al
periodo dell’anteguerra. Di conseguenza la produzione americana risultò ben
presto sproporzionata non solo alla richiesta dell’Europa ma anche della stessa
America. Molti prodotti restarono invenduti nei magazzini, moltissime industrie
fallirono poiché i proprietari non erano più in grado di sanare i debiti che avevano
contratto con le banche pochi anni prima. Per lo stesso motivo anche gli
agricoltori furono costretti a lasciare le proprie terre; fallirono infine numerose
banche e i piccoli risparmiatori per paura di perdere i propri guadagni affidati alle
banche, si affrettarono a prelevarli, provocando una crisi di liquidità. Il ritiro del
denaro dal mercato provocò il fallimento di molte banche che trascinarono nella
crisi le industrie nelle quali avevano investito.
A differenza di quanto accadde nella crisi
economica di fine Ottocento, quando la
sovrapproduzione si era interamente scaricata
sui prezzi e sui profitti, ora la reazione dei
sistemi economici industrializzati all’eccesso di
capacità produttiva consistette nel contrarre la
produzione e nel sostenere i prezzi. Questa scelta
ebbe come conseguenza una caduta verticale
della produzione industriale e una crescita
abnorme della disoccupazione. Si decise dunque
di bloccare gli investimenti e di ridurre la
produzione, tagliando cioè l’offerta pur di
Wall Strett, 29 ottobre 1929 sostenere i prezzi. Queste scelte si scaricarono
prevalentemente sulla classe operaia e sui ceti meno protetti, che videro un netto
peggioramento delle loro condizioni di vita. Il blocco degli investimenti e della
produzione si tradusse in un drastico aumento della disoccupazione che impedì
agli operai occupati di difendere i propri livelli salariali. Inoltre, a fronte
dell’aumento della disoccupazione o della diminuzione dei salari, il loro potere
d’acquisto non fu neppure bilanciato dalla caduta dei prezzi. Questo processo
ridusse ulteriormente la domanda, acuendo il problema della sovrapproduzione.
Gli sforzi dei banchieri e degli agenti di cambio per contenere il crollo (in un solo
giorno furono infatti venduti 13 milioni di azioni a costo ribassato) furono vani.
Tutti coloro che avevano impegnato i loro capitali nelle operazioni in borsa
finirono sul lastrico e persero il lavoro in seguito alla chiusura di numerose
aziende. L’effetto fu drammatico: giovedì 24 ottobre 1929 si tolsero la vita ben 11
persone. 7
Le risposte di breve periodo
Per uscire dalla crisi i governi dei paesi maggiormente coinvolti
misero in atto una serie di misure per rilanciare la produzione.
Esse furono sostanzialmente improntate a elevare barriere
protezionistiche sempre più rigide, per scoraggiare la concorrenza
internazionale e garantire all’industria nazionale u mercato
interno protetto; lo stato assunse il ruolo di supremo regolatore, Il presidente Hoover
attraverso la leva della spesa pubblica. Gli Stati Uniti furono i
primi ad adottare queste misure: nel 1930, il presidente repubblicano Herbert
Hoover, profondamente legato alla dottrina del liberismo economico classico,
decise un forte rialzo delle tariffe doganali, con il risultato di paralizzare il
commercio internazionale e in particolare le esportazioni europee. A questa
decisione si adeguarono altri paesi con il risultato di acuire la segmentazione del
mercato mondiale in tanti mondi chiusi quanti erano i singoli mercati nazionali.
Sul piano dei rapporti politici internazionali, la frantumazione del mercato
mondiale ebbe conseguenze drammatiche. Per tutte le potenze il principale
rimedio all’inflazione divenne l’espansione, per la quale non vi erano che due
strade praticabili: o ritornare a una politica di aggressività imperialistica, che
consentisse ai singoli stati di allargare il proprio mercato protetto, oppure tentare
di creare le condizioni per una ripresa del commercio internazionale. La prima
strada sarebbe stata imboccata dai regimi autoritari di destra, dando il via nel
1935, a una nuova fase di espansionismo imperialista. L’altra via presupponeva o
un accordo internazionale vincolante o l’affermarsi sulla scena mondiale di una
nuova potenza-guida in grado di prendere il posto della Gran Bretagna: il che non
poteva avvenire se non attraverso uno scontro diretto tra i diversi aspiranti