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Sintesi

Tesina - Premio maturità  2009

Titolo: tra Levi e Dante: l'inferno a confronto

Autore: Salvalai Maria elisa

Descrizione: mi sono posta una domanda: perchè primo levi cita dante in "se questo è un uomo"? ho fatto un breve exursus del libro per mettere in parallelo le due opere

Materie trattate: Letteratura, Storia

Area: umanistica

Sommario: letteratura,Primo Levi "se questo è un uomo",Dante "inferno" commedia

Estratto del documento

desiderosi d’ascoltar, seguìti

dietro il mio legno che cantando varca,

tornate a riveder li vostri liti:

non vi mettete in pelago, ché, forse,

smarriti” (Par., ii, 1-6).

perdendo me, rimarreste

L’apostrofe marca un confine tra sé e chi leggi: Levi ha vissuto sulla sua pelle lo sradicamento della

parola; la sua esperienza può essere letta, ascoltata, ma mai nessuno che non sia stato in quei luoghi

potrà capire in fondo:

Noi diciamo “fame”, diciamo “stanchezza”, “paura” e “dolore”, diciamo “inverno”, e sono

altre cose. Sono parole libere create ed usate da uomini liberi (SQU 119).

Già nella prima parte, quindi, notiamo una conoscenza e una ripresa degli stili danteschi, ma

procedendo nella lettura della poesia si notano altre analogie, per esempio ritmiche rimandanti

all’inferno:

“Per me si va ne la città dolente,

per me si va ne l'etterno dolore,

si va tra la perduta gente.”

per me (inf,III; 1-3)

“Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per mezzo pane

muore per un sì o per un no.”

Che

È ripresa l’anafora che dà una cadenza ritmica che scandisce la poesia come scandisse il tempo.

L’iter concentrazionario è un discendere verso il fondo e Levi ordina il racconto secondo questa

rappresentano l’entrata negli inferi. E non a caso compare

successione. Il viaggio e Sul fondo

Caronte sotto le spoglie del soldato tedesco, che non urla ma chiede con cortesia. Alle terzine

l’Inferno (il famoso «Per me si va») fa da rimando

dantesche che accolgono i dannati e definiscono

la definizione del nuovo inferno, diverso nella forma, ma medesimo nella sostanza: «Questo è

l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi

di stare in piedi» (SQU 16).

Levi segna un’impossibilità dell’uomo, compie un’ indagine sociologica mostrando l’inferno e la

disumanità dell’uomo. “accende una pila tascabile, e invece di gridare-guai a voi anime prave- ci

domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo danaro od orologi

da cedergli:tanto dopo non ci servono più. Non è un comando, non è regolamento questo: si vede

Caronte” (SQU cap. 1).

bene che è una piccola iniziativa privata del nostro

Levi durante la narrazione parla da dannato e lo fa paragonandosi a Ciacco. Proprio la figura di

questo dannato buttato nel fango, sozzo di melma, spinge Levi ad una immedesimazione più

dove l’autore

profonda, come si può notare nelle pagine conclusive del capitolo Sul Fondo, si

autorappresenta così: «Spingo i vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia» (SQU 31). Il

fiaccarsi alla pioggia è un’eco precisa, un gioco di specchi:

“Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:

per la dannosa colpa de la gola, (Inf.,

come tu vedi, a la pioggia mi fiacco” VI, 52-54).

A queste citazioni si aggiungano le urla, il vento gelido e la pioggia che contraddistinguono queste

pagine. Ma a dominare tragicamente la scena, specialmente nel capitolo Sul fondo, è il tema della

nudità. “Ecco i corpi nudi dei vecchi e dei giovani, tutti accomunati in una baracca: entra un vento

gelido e noi siamo nudi e ci copriamo il ventre con le braccia” (SQU 17).

Un gesto naturale, quello di coprirsi il ventre con le mani, ma che ricorda quello di Adamo nel

momento in cui riconosce di aver peccato e prova vergogna; la nudità coatta e lo stupore delle

proprie membra al gelo freddo fanno parte di un’iconografia dantesca:

“Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude

cangiar colore e dibattero i denti” (Inf., III, 100-101).

La prima condizione dei dannati è quella di essere nudi. La spogliazione di sé è il primo passo verso

la metamorfosi, il progressivo disfacimento, la perdita di ogni barlume di vita, rappresentato dai

“mussulmani”. Anche per i dannati danteschi, la prima, la più essenziale delle condizioni, giunti

all’Inferno, è l’essere nudi e spaventati. “come pensare? Non si può pensare, è come essere già

morti. Qualcuno si siede per terra. Il tempo passa goccia a goccia”

Nel capitolo il viaggio il convoglio arriva in lager, gli Untermenschen, i sottouomini, o gli Häftling,

vengono selezionati da parte di quelli che sembrano “semplici agenti d’ordine”che fanno la parte

del Minosse dell’inferno dantesco: “..in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato

se potesse o no lavorare utilmente per il Reich”

giudicato

“Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:

ne l’intrata;

essamina le colpe

giudica e manda secondo ch’avvinghia” (inf V 3;6)

All’arrivo dei convogli gli ufficiali delle SS hanno un ruolo simile a quello di Minosse, ma due

sono le differenze iniziali che rendono i due inferni differenti: “orribilmente”; “ringhia” e “colpe”.

Innanzitutto gli ufficiali tedeschi non sono orribili tanto che Levi dice: “ci saremmo attesi

qualcosa di più apocalittico…”. Questo è un elemento essenziale: l’inferno di Levi è alla vista

apparentemente meno d’impatto dell’inferno di Dante, perché il campo è una percezione oltre che

esteriore profondamente interiore. In secondo luogo la colpa è un elemento che distingue i due

li mette fin dall’inizio con due chiavi differenti: le colpe, gli uomini che entrano in lager,

luoghi e

non le hanno a differenza dei dannati il cui girone era deciso in base al peccato commesso.

Questo dimostra da un lato la crudeltà tedesca nel mandare alla “dannazione” gente innocente, ma

da un altro lato può essere letta come colpa anticipata: una volta assodato il fatto della disumanità

tedesca, è la malvagità dell’uomo contro il suo stesso simile che si trova nelle sue stessa

situazione, ma anziché di collaborare cerca di prevaricare.

Questa visione è uno dei temi centrali che porta Levi a dare il titolo di se questo è un uomo,

“homo homini lupus”.

rimando alla visione della società primitiva di Hobbes: Con il canto di

Ulisse, che fa da rivelazione, Levi intuisce qualcosa di simile.

Il viaggio di Levi è segnato dalla solitudine, è senza guida.

“Questo è l’inferno […]; è come essere già morti” si dice all’inizio del capitolo II; “infernale” è la

musica sconciamente allegra che accoglie i nuovi arrivati (p.44). Levi pensa immediatamente

all’inferno dantesco: “i barbarici latrati dei tedeschi quando comandano”sono probabilmente quelli

di Cerbero,se, subito dopo, il soldato che deruba i prescelti conducendoli in autocarro al campo è il

“nostro Caronte”.

Come l’inferno dantesco il lager è pervaso da chiasso, rumore che rende il tutto ancora più infernale

e caotico “andiamo in su e in giù senza costrutto, e parliamo, ciascuno parla con tutti gli altri,

questo fa molto chiasso” (SQU pag.21). il rumore domina tutto il testo, i momenti di silenzio sono

veramente pochi in lager; anche la notte non c’è silenzio perché si sente il rumore delle mascelle

che battono le une sulle altre mentre i “dannati” si sognano di mangiare.

“Quivi le strida, il compianto, il lamento;

quivi la virtù divina.” (inf V; 35-36)

bestemmian

Dell’inferno dantesco Levi riprende anche il carattere grottesco e sarcastico, come Levi definisce il

processo di inserimento nell’ordine del campo in sul fondo; ripresa dei toni con cui i dannati e i

luoghi sono descritti nella discesa infernale.

“Qui non ha luogo il Santo Volto, /qui si nuota altrimenti che nel Serchio”

Sono le parole che i demoni rivolgono ai dannati nel cerchio infernale di Malebolge, prima di

colpirli e ricacciarli sul fondo di un pozzo (If XXI). Ma questi versi sono anche le parole di

chiarimento definitivo che Primo Levi, mentre volge al termine la prima giornata di antinferno ad

Auschwitz (così la descrisse), offre ai suoi lettori per indicare la natura del luogo ove è giunto; un

in cui ciò che fa l’umano, ciò che è l’umano, scompare definitivamente per lasciare spazio al

luogo “spinto dalla sete, ho adocchiato, fuori di una finestra un bel ghiacciolo a portata di mano. Ho

nulla:

aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si è fatto avanti uno grande e grosso che si

– –

aggirava là fuori, e me lo ha strappato brutalmente. WARUM? (gli ho chiesto nel mio povero

– HIER IST KEIN WARUM (qui non c’è perché)”. Qui, infatti, come dice il titolo del

tedesco.

terzo capitolo dell’opera Se questo è un uomo, siamo ormai sommersi “sul fondo”.

“… è una messinscena per farsi beffe di noi…” (SQU pag. 43)

il suo limbo: l’infermeria. Levi stesso definisce

Come ogni inferno che si rispetti, il lager possiede

il Ka-be un luogo dove le pene del lager sono attenuate. Domina queste pagine una sorta di pensosa

malinconia, dovuta al diradarsi delle torture e dai lunghi periodi di inattività, un sentimento che nel

gergo del lager è definito «il dolore della casa» (SQU 49). Un tedio, che ci ricorda da vicino la

pensosità di Virgilio e delle anime nel Limbo, sospese tra desiderio e assenza di grazia.

Anche la Città di Dite (Inf VIII, 76-78) ha il suo corrispettivo nella Buna: «Dentro il suo recinto non

cresce un filo d’erba, e la terra è impregnata dei succhi velenosi del carbone e del petrolio, e nulla è

vivo» (SQU 67). Per non parlare della Torre di Carburo, novella torre di Babele, una bestemmia in

pietra, che non è fatta di mattoni, ma delle varie lingue parlate nel campo, che si condensano il quel

gergo del lager così disarticolato e privo di ogni bellezza da risultare simile alle parole spoglie di

qualsiasi ratio pronunciate da Nembrot 2 .

Il cammino ci porta a scendere ancora e arrivare all’estremo profondo. L’Inferno dantesco, nella sua

più fonda propaggine, è freddo: dominano queste pagine il gelo, il ghiaccio del Cocito. Il fango e il

pantano sono presenti in tutto lo svolgersi della storia narrata da Levi (SQU 39, 60, 62),

raggiungono la loro massima intensità nella Storia dei dieci giorni. Levi, in questa cronaca

verminosa e pestilenziale, ci racconta gli ultimi giorni del lager e il lento disfarsi dell’universo

concentrazionario. Non c’è speranza, ma solo ghiaccio, fango, melma.

personaggio biblico che troviamo nell’inferno accusato di aver causato la confusione delle lingue; come contrappasso, Nembrot,

2 è

punito con l'impossibilità di comunicare, parlando un linguaggio comprensibile solo a lui, e non potendo comprenderne altre. Il

poeta, inoltre, fa di Nembrot un gigante. (Inf., XXXI, 67).

Un semplice prelievo di stralci da questo capitolo è chiarificatore del tono della narrazione:

“Il lager, appena morto, appariva già decomposto” (SQU 154)

“[i deportati] non più padroni dei propri visceri, avevano insozzato dovunque […]. Attorno

alle rovine fumanti delle baracche bruciate, gruppi di malati stavano applicati al suolo, per

succhiarne l’ultimo calore (SQU 155)

“sul pavimento uno strato di stracci, sterco e materiale di medicazione, un cadavere nudo e

contorto” (SQU 158)

“Il pavimento era ricoperto da uno strato di escrementi congelati.”(SQU 162).

Sappiamo che nel Cocito Dante e Virgilio più di una volta incontrano dannati conficcati nel

ghiaccio; anche Levi nella sua ricognizione del lager e dei suoi uomini, liberati ma non redenti,

incappa in qualcosa di simile:

“Un dalla morte. Giaceva irrigidito nell’atto

vecchio ungherese era stato sorpreso colà

dell’affamato: capo e spalle sotto il cumulo di terra, il ventre nella neve, tendeva le mani alle

patate” (SQU 164).

Quest’uomo, conficcato nel ghiaccio e intento a cercare di mangiare, ricorda in maniera prepotente

Dante, però, con un’intuizione narrativa

Ugolino, la cui tragedia è materia del canto XXXIII.

geniale, lo presenta già nei versi finali di quello precedente:

“Noi eravam partiti già da ello,

ch’io vidi due ghiacciati in una buca,

sì che l’un capo a l’altro era cappello;

e come ’l pan per fame si manduca

così ’l sovran li denti a l’altro pose

là ’ve ’l cervel s’aggiunge con la nuca” (Inf., XXXII, 124-129).

L’immagine plastica di quest’uomo morto congelato e quella del famigerato Conte combaciano

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