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LA VITA, UNO STRUMENTO NELLE MANI
DELL’UOMO?
Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria
persona. Questo diritto, proclamato nella Dichiarazione Universale dei Diritti
Umani e garantito da numerose convenzioni internazionali, protegge l’accesso
all’esistenza e vieta che chiunque ne sia privato arbitrariamente. La vita non
deve essere intesa solo come una dimensione biologica, ma essa va difesa dalla
nascita, durante tutta la sua durata fino al suo termine, e la stessa ha una
dimensione culturale , sociale ed etica, che si fondono in un contenuto unico,
proprio di ciascun individuo, il quale ha il diritto di andare oltre la semplice
sopravvivenza. L’obiettivo deve essere quello di permettere che la vita sia vissuta
nella dignità e nella pienezza di tutti i diritti umani.
FILOSOFIA
Il concetto di dignità umana è stato ribadito più volte dal filosofo tedesco
Immanuel Kant, il quale rappresenta un pensatore emblematico della
riflessione sul posto dell’uomo nel mondo, e un punto di svolta nella
considerazione dell’essere umano nella sua piena realizzazione. La riflessione
kantiana è mossa dall’indagine critica circa i limiti e le possibilità della ragione.
Come e cosa può conoscere l’uomo? Come può e deve agire l’uomo? Come e
perché prova un sentimento estetico? Con Kant viene alla luce in modo nuovo
la centralità dell’uomo nei confronti della natura: l’uomo non solo è attivo come
homo faber trasformando il mondo secondo i suoi voleri, ma questo si presenta
all’uomo come risultato del suo modo di conoscere. Nel processo conoscitivo al
centro sta il soggetto e non l’oggetto, spostamento che ha assunto
l’espressione di rivoluzione copernicana che riguarda il campo teoretico, il
campo etico o pratico e il campo estetico. Entrando nell’ambito della ragion
pratica, cioè nell’ambito etico, il filosofo distingue fra una ragione pura pratica,
che obbedisce ad una legge universale, ed una ragione pratica empirica che
opera in base all’esperienza e alla sensibilità. Mentre il limite della ragione
teoretica sta nell’oltrepassare l’esperienza, il limite della ragione pratica sta nel
restare legata ad essa. E poiché l’uomo è un essere pensante finito e quindi
condizionato dalla sua natura sensibile, la legge morale assume la forma del
“dovere”. Anche nella critica della ragion pratica Kant è convinto
dell’esistenza di un a priori, universale e necessario, cioè di una legge morale
valida per tutti e per sempre, che può e deve condurre la condotta umana in
maniera stabile. Se la morale è incondizionata ciò vuol dire che l’uomo è libero
di autodeterminarsi. La libertà è il postulato della vita etica caratterizzata da
categoricità, formalità, disinteresse e autonomia. La morale è ab-soluta perché
sciolta dai condizionamenti istintuali con cui l’uomo ha a che fare. Il fanatismo
morale è la presunzione di possedere la perfezione etica. La purezza morale è
garantita dall’ imperativo categorico che, in quanto prescrive il “dovere per
il dovere”, si differenzia dall’ imperativo ipotetico, che esprime un comando
in vista di uno scopo, e dalle massime che valgono per il soggetto e per una
particolare situazione. L’imperativo categorico prescrive di agire secondo una
massima che può valere per tutti (1^ formulazione), e di trattare se stessi e gli
altri sempre come fini e mai come mezzi (2^ formulazione) per salvaguardarne
la dignità. Questo comando non è esterno all’uomo, ma frutto spontaneo della
volontà razionale che è autolegislatrice. La legge morale kantiana è formale:
non ci dice cosa dobbiamo fare, ma come dobbiamo agire. Le norme etiche
concrete in cui essa si incarna sono fondate da essa che, immune da ogni
cambiamento, sostanzia i costumi morali che sono storici. Il rigorismo di
questa etica risiede nel fatto che l’agire dell’uomo deve impegnarsi nello sforzo
di sganciarsi da inclinazioni e da finalità per elevarsi nell’universale dovere per
il dovere. Non è semplice rispetto della legalità, ma partecipazione interiore,
cioè intenzione o volontà buona. L’uomo così si innalza al di sopra del mondo
sensibile per diventare partecipe di quello intelligibile della libertà, senza però
abbandonare il primo. Anche in questo campo (come in quello teoretico) si
attua quella rivoluzione copernicana che pone l’uomo e la ragione a
fondamento della vita morale. Visione quindi in netta contrapposizione alle
morali eteronome che fanno dipendere l’agire dalle metafisiche (razionalismo)
o dal sentimento (empirismo). L’uomo è unico legislatore del suo
comportamento che non dipende dai concetti di bene e male, perché dà senso
a questi concetti. Motivo del dovere non è la felicità (che sarebbe
condizionante), ma il Sommo Bene, insieme di virtù e felicità che in questo
mondo non sono congiunte e costituiscono l’antinomia etica (argomento della
dialettica della ragion pratica). Sommo bene che è lo stesso argomento
affrontato, circa duemila anni prima, dal poeta-filosofo Seneca, il quale
affermava che la vera felicità va ricercata nella virtù e nella sapienza, e non
nelle frivolezze del mondo quotidiano, o come in seguito riprenderà Dante nel
passo XXVI dell’inferno: “Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir
virtute e canoscenza. I postulati etici, cioè condizioni della legge morale, sono:
l’immortalità dell’anima, che garantisce in un tempo infinito la santità, cioè
l’identità volontà-legge; l’esistenza di Dio, che incarna l’equazione felicità-virtù;
la libertà, che è la condizione fondamentale dell’etica. Unica certezza, in
quanto gli altri postulati sono condizioni ipotetiche, seppur razionali. La ragion
pratica ammette così ciò che la ragione teoretica aveva escluso perché privo di
certezza gnoseologica. Le condizioni di validità della morale non possono e non
devono avere certezza razionale, in quanto fondanti e non fondate. Dio e
l’immortalità dell’anima sono per Kant la “ragionevole speranza” di una fede
razionale di un uomo che comunque segue il dovere per il dovere per realizzare
pienamente la sua umanità. L’uomo kantiano vive il dualismo di una
dimensione fenomenica della scienza e delle sue inclinazioni, e di una
dimensione noumenica dell’etica e della sua libertà.
Nonostante la riflessione del filosofo tedesco nell’utilizzo dalla propria
volontà come imperativo categorico (dovere incondizionato a
prescindere da qualsiasi scopo), nel corso della storia si sono verificati
esempi di personaggi che hanno esteso la propria volontà, o meglio, la
propria “massima” soggettiva, a livello universale. Questo è il caso di
uno dei più temibili dittatori della storia contemporanea, compaesano
di Kant, Adolf Hitler. STORIA
L’ascesa di Hitler e la nascita del suo regime totalitario fu possibile a causa di
un delicato contesto storico che attanagliò tutto il territorio tedesco. Gli effetti
del crollo americano, infatti, si abbatterono nel 1930 con violenza sulla
Germania, il cui sistema economico era il più dissestato di tutti i paesi europei
(era stato da pochi anni negoziato con gli Stati Uniti un piano di aiuti) e dove le
fragili istituzioni repubblicane – minate da una guerra civile condotta dalla
destra eversiva, da un lato, e dai comunisti, dall’altro – non ressero all’impatto
di una crisi tanto devastante in termini di inflazione e disoccupazione. Le
difficoltà economiche vennero utilizzate dalla destra nazionalista, di cui il
Nsdap faceva parte, per rilanciare il proprio messaggio politico basato sulla
denuncia del trattato di Versailles. Fu in questo clima di conflitti sociali che il
Partito Nazionalsocialista, che alle lezioni del 1928 non aveva ottenuto che il 3
% dei suffragi, nel 1932 conquisto la maggioranza relativa garantendo a Hitler
la nomina a cancelliere. Poté allora dar seguito al suo progetto politico tracciato
nel Mein Kampf nei mesi di carcere che seguirono il colpo di stato cui egli
partecipò a monaco nel 1924. Dal 1933 Hitler assunse i pieni poteri
esautorando il parlamento e instaurò una feroce dittatura impostata sul
nazionalismo, l’anticomunismo, l’antisemitismo, e un uso senza precedenti
della violenza a opera di squadre paramilitari, le Ss, organizzate dal partito. Il
suo messaggio ideologico di rifondazione integrale della società trovò consensi
non solo negli alti ranghi dell’esercito, nella borghesia industriale e agraria ma
anche presso il proletariato dequalificato e soprattutto gli impiegati del nuovo
ceto medio. La pianificazione nazista per il rilancio dell’economia ebbe
successo grazie ad un vasto programma di riarmo finalizzato alla politica
imperialista del regime. L’espansionismo in Europa fu , infatti, il primo obiettivo
di Hitler, intenzionato a recuperare i territori persi dopo la guerra e a creare
una “ grande Germania”. Nella politica interna, le leggi di Norimberga
definirono il volto del totalitarismo nazista, escludendo dai diritti di cittadinanza
i non-ariani e in particolare gli ebrei, considerati la minaccia più grave alla
“purezza della razza ariana. Con le leggi di Norimberga gli ebrei furono esclusi
dal diritto di voto e dagli impieghi pubblici, dall’esercizio di professioni liberali,
dal commercio, dalle banche, dall’editoria. Si proibivano, inoltre, matrimoni
“misti” (e anche rapporti sessuali) tra ebrei e tedeschi e si dichiaravano nulli
quelli già celebrati. Le leggi di Norimberga non solo definirono in senso
pesantemente negativo lo status sei ebrei, che vennero privati di ogni diritto di
cittadinanza, ma sancirono la validità giuridica dell’antisemitismo, che
diventava dunque per il cittadino tedesco un atto obbligato. Nel 1938 le
persecuzioni antiebraiche divenne ancora più brutale e sistematica. Si diffuse
la pratica dell’“arianizzazione” dei beni ebraici consistente nel sequestro dei
patrimoni appartenenti ad ebrei, a favore del partito Nazionalsocialista. Nella
notte tra il 9 e il 10 novembre 1938 (la “notte dei cristalli”) in Germania si
svolse la più dura e violenta manifestazione di antisemitismo che l’Europa
avesse visto, con eccidi e distruzioni di negozi ebraici e sinagoghe. I campi di
concentramento nacquero subito, per rinchiudervi dissidenti e minoranze: i
nemici del Reich dovevano essere ridotti in schiavitù, annientati o sottoposti ad
esperimenti scientifici. La macchina concentrazionaria dei lager, dopo il
passaggio della gestione nelle mani della “compagnia testa di morto” delle Ss,
fu organizzata in modo più sistematico e “scientifico”. Esso, infatti, non serviva
soltanto all’annientamento dell’avversario o alla sua riduzione a schiavo, ma
anche a riprodurre il terrore come strumento di potere.
Le mostruosità commesse dai nazisti durante tutto il terzo Reich fino alla
Seconda Guerra Mondiale portarono l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a
emanare, nel 1946, un Rapporto, tutt’oggi conosciuto come “Codice di
Norimberga”, il quale traccia una linea di divisione tra sperimentazione lecita e
tortura. La sperimentazione lecita avviene quando il soggetto volontariamente
dà il proprio consenso a essere sottoposto a un esperimento, purché lo
scienziato rispetti determinate condizioni:
1. “Non vi si dovranno condurre esperimenti ove vi sia già a priori ragione di
credere che possa sopravvenire la morte o un infermità invalidante”;
2. “Nel corso dell’esperimento il soggetto umano dovrà avere la libera
facoltà di porre fine ad esso se ha raggiunto uno stato fisico o mentale
per cui gli sembra impossibile continuarlo”;
3. “Durante l’esperimento lo scienziato responsabile deve essere pronto ad
interromperlo in qualsiasi momento se è indotto a credere che la
continuazione dell’esperimento comporterebbe probabilmente lesioni o
morte per il soggetto umano”.
Ho scelto di citare queste tre leggi per evidenziare quali erano i diritti
negati agli ebrei che così divenivano dei veri e propri strumenti nelle