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LA DIVINA COMMEDIA

18

Trattando di limiti merita attenzione il tema dell’ineffabilità dantesca, ovvero

l’impossibilità per Dante di raccontare quello che vede e che prova nel Paradiso per

l’insufficienza del mezzo della poesia nell’affrontare un tema così elevato. Questo è

chiaramente descritto dal poeta all’inizio dell’ultima cantica:

Nel ciel che più de la sua luce prende

Fu’io, e vidi cose che ridire

né sa né può chi di là sù discende;

perché appressando sé al suo disire

nostro intelletto si profonda tanto,

che dietro la memoria non può ire.

(Pd I, 4-9)

L’elevatezza degli argomenti non rende possibile comunicare la materia trattata e

questo è un vero e proprio limite umano, di cui Dante è pienamente consapevole.

Eppure Dante prova ugualmente, rimanendo fedele fino all’ultimo al compito

assegnatogli dalla divina provvidenza, a testimoniare ai lettori quello che ha visto,

raggiungendo picchi poetici insuperati.

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio

che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede,

e cede la memoria a tanto oltraggio.

Qual è colui che sognando vede,

che dopo ‘l sogno la passione impressa

rimane, e l’altro a la mente non riede,

cotal son io, ché quasi tutta cessa

19

mia visione, e ancor mi distilla

nel core il dolce che nacque da essa.

(Pd XXXIII, 55-66)

Con queste tre similitudini Dante cerca di descriverci la situazione in cui si trova: non

può raccontarci quello che ha visto ma solamente la sensazione di dolcezza che

ancora gli rimane in cuore. Per esprimere questo egli evoca l’immagine di chi

svegliatosi ha perso il ricordo di quanto ha sognato ma reca ancora nel cuore

l’emozione. Omai sarà più corta mia favella,

pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante

che bagni ancor la lingua a la mammella.

(Pd XXXIII, 106-108)

D’ora in avanti il suo parlare sarà talmente inadeguato rispetto a quanto ha visto, da

essere superato dal balbettio di un infante che bagni ancora la lingua al seno della

madre. Oh quanto è corto il dire e come fioco

al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,

è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.

(Pd XXXIII, 121-123)

20

LATINO

SENECA

21

“La maggior parte degli uomini si lamenta delle malvagità della natura, perché siamo

generati per vivere una breve esistenza, perché questo spazio del tempo a noi

concesso corre così rapidamente, tanto velocemente, tanto che la vita, eccetto

pochissimi, abbandona gli altri proprio sulla soglia della vita. Perché ci lamentiamo

della natura? Essa si è comportata con generosità: la vita, se sappiamo usarla è

lunga.”così diceva Seneca in una delle sue più importanti opere, il De Brevitate

Vitae.

È stolto confidare sempre nel futuro: così facendo l'uomo spreca il presente, l'unico

tempo che egli possa controllare davvero, e si affida al futuro rendendo la sorte

padrona delle sue vicende. Bisogna lottare contro la fuga del tempo. L’uomo

affaccendato invece guarda sempre al domani, perde i suoi giorni migliori e si ritrova

di colpo vecchio. La vita degli affaccendati è brevissima: essi infatti non sono capaci

di guardare al passato per coglierne insegnamenti e, quando lo fanno, non possono

che pentirsi di avere sprecato il tempo. La soluzione all'angoscia esistenziale

dell'uomo, che vede la vita fuggire tra le sue mani, è proposta da Seneca

all'attenzione del lettore subito. Egli propone una prospettiva diversa del problema:

non ci si deve preoccupare della quantità della vita, bensì della sua qualità. La

questione si chiarisce attraverso la serie di quadri che contrappongono la massa

degli uomini occupati, che sprecano il loro tempo non inseguendo l'unica meta da

ambire, la sapienza, al saggio, l’unico ad avere un corretto rapporto con il tempo,

questo sa che non deve proiettarsi continuamente nel futuro, inseguendo speranze

vane e consumandosi in una continua attesa, e neppure rifugiarsi nel passato. Al

contrario è consapevole che il presente è il vero tempo che viviamo e questo deve

essere valorizzato e non sprecato. 22

FILOSOFIA

KIERKEGAARD

23

Soren Kierkegaard, l’unico grande filosofo danese di tutta la storia del pensiero,

visse durante il periodo dominante della filosofia idealistica di Hegel. Egli vi si

oppose fermamente rifiutandone le conclusioni ottimistiche e battendosi per una

nuova filosofia basata sull’uomo singolo e sulla sua drammatica situazione nel

mondo.

Kierkegaard morì assai giovane, a soli 42 anni, ed ebbe un’esistenza travagliata.

Cresciuto a Copenhagen sotto l’oppressione della rigida religiosità del padre, egli

cominciò fin dagli anni della prima giovinezza a conoscere uno stato di tensione e di

irrequietudine interna. Poi, come ricorda egli stesso nel Diario, avvenne nella sua

vita un fatto sconvolgente, un “grande terremoto”, da cui non riuscirà più a liberarsi.

Quale sia questo fatto non ci è dato sapere. Da questi pochi cenni si può cominciare

a capire lo stato di insoddisfazione e di tormentosa ricerca che caratterizzò gli studi

di Kierkegaard, svolti dapprima alla facoltà di teologia della sua città e poi a Berlino,

e che caratterizzò poi tutto il suo pensiero. Dopo l’esperienza berlinese, nel cuore

del mondo hegeliano, Kierkegaard si risolse a vivere in solitudine nella sua

Copenhagen con la modesta rendita che il padre gli aveva lasciato.

L’OPPOSIZIONE A HEGEL

La cultura danese era sempre stata legata più o meno strettamente a quella tedesca.

In particolare nella prima metà dell’Ottocento tra le classi colte di Copenhagen

aveva avuto successo e si era diffuso l’idealismo di Hegel.

24

Kierkegaard è molto lontano dal razionalismo che domina il suo tempo: ai suoi occhi

la filosofia di Hegel compie una grande mistificazione. Nella sua visione complessiva

Hegel elimina proprio l’uomo, il singolo individuo, il suo dramma particolare,

esistenziale. Il razionalismo, secondo Kierkegaard, è un inganno perché costruisce

meravigliosi castelli, mentre in realtà l’uomo vive in una misera caverna: ancora è un

inganno perché pretende di vedere risolti tutti i conflitti, mentre il conflitto, e

l’angoscia che ne nasce, appartengono all’essenza stessa dell’individuo.

L’ANGOSCIA DELL’ESISTENZA

Superato quello che per Kierkegaard è l’inganno della filosofia, ci si trova di fronte

all’individuo quale protagonista unico e tema di ogni riflessione. Ma se guardiamo

all’esistenza ci accorgiamo che in essa non vi è nulla di necessario, nulla che per

l’uomo si deve realizzare. Per l’uomo vi è semmai la possibilità di scegliere, ma

nessuna delle scelte ha un valore assoluto. È proprio di fronte al suo sentirsi libero di

scegliere che l’uomo conosce l’angoscia. Non si tratta di una paura determinata, ma

di un’indefinita inquietudine la quale caratterizza l’uomo davanti al mondo e davanti

al mistero della realtà. L’uomo può accettare se stesso per quello che è, e allora non

può sottrarsi alla propria inquietudine; oppure cercare di cambiarsi, ma non vi riesce

perché non può sfuggire alla propria essenza. In ogni caso l’uomo è dunque

condannato alla disperazione, in quanto assoluta necessità e impossibilità della

scelta. 25

VITA ESTETICA E VITA ETICA

Tuttavia l’uomo non può esimersi dallo scegliere, anzi in ogni momento della propria

esistenza compie una scelta definita. La scelta è necessaria, ma ripropone ogni volta

il problema di fondo e rinnova l’angoscia. L’uomo può tentare di vivere

esteticamente la propria vita, cioè cercare di cogliere nella propria esperienza i

momenti estetici, irripetibili, del tutto eccezionali; non mescolarsi con le cose, ma

soltanto avere con esse un rapporto contemplativo. È questo l’ideale che

Kierkegaard vede incarnato nella figura del seduttore, Don Giovanni, il quale ha

molte donne, ma non riesce mai a conoscerne veramente una. Il seduttore, infatti,

sta ai margini della realtà e il suo ideale estetico si trasforma in noia, e infine ancora

in insoddisfazione e in disperazione. Tra il primo stadio della vita estetica ed il

secondo stadio della vita etica non vi è alcun legame. È la disperazione a spingere

l’uomo a compiere il salto che lo può portare a vivere una vita etica. Tale scelta

porta l’uomo a non cercare di staccarsi dal mondo, bensì ad accettarlo: ad accettare

la società, le sue convenzioni, ad accettare di essere marito e padre, ad accettare un

lavoro. È l’esatta antitesi del seduttore: l’uomo borghese lavora per i suoi figli e per

il futuro, si inserisce nel corso della storia insieme agli altri. Anche la scelta etica è

però destinata a fallire, poiché il comportamento di chi la attua diviene ben presto

convenzionalità e abitudine priva di partecipazione: l’angoscia e la disperazione

sono riemerse.

Sembra che per Kierkegaard non vi siano compromessi, né modi per sfuggire a

questo aut-aut: è il destino che incatena l’uomo alla propria condizione esistenziale.

Tanto la vita estetica del seduttore quanto la vita etica del borghese portano alla

stessa triste conclusione. 26

LA VITA RELIGIOSA

Vi è pero uno spiraglio di salvezza, un’ultima possibilità cui l’uomo può tentare di

aggrapparsi: la vita religiosa (descritta nell’opera Timore e tremore, la quale, fin dal

titolo, preannuncia l’atteggiamento dell’uomo nei confronti della divinità). Ma non

la teologia che Kierkegaard impara a Copenhagen, non la religione razionale di

Hegel, bensì un sentimento interno, una fede fortemente voluta: credere

nonostante tutto. Pare un paradosso, dice Kierkegaard, eppure questo rapporto con

Dio, che non si spiega e che è addirittura contraddittorio, è l’unica via. Si tratta

dell’estrema consapevolezza dell’angoscia; l’esser certi, sicuri della propria angoscia,

e appunto per questo sperare disperatamente che il male possa essere colmato. Il

“cavaliere della fede” per eccellenza è incarnato da Abramo, il padre dei credenti,

primo patriarca del popolo ebraico: egli vive fino a settanta anni nel rispetto della

legge morale. Solo allora viene premiato da Dio col miracolo di ricevere un figlio,

Isacco, da Sara, la moglie ormai anziana, e vede dunque appagato il desiderio tanto

vivamente sentito di avere una discendenza legittima. Ma Dio, per mettere alla

prova la sua fede, gli ordina di sacrificare a lui questo figlio, il suo unico figlio.

Abramo non esita a intraprendere il sacrificio e decide di fare eccezione alla legge

morale che prescrive di non uccidere. Sennonché, all’ultimo momento, interviene

l’Angelo del Signore e ferma la sua mano che sta per immolare Isacco. Abramo

quindi calpesta i valori dell'etica, comportandosi da credente e non da buon padre

perché l'unica giustificazione per il suo gesto sarebbe stata ascrivibile alla volontà

divina. Fuori dall'etica compare il "rischio" perché nessuno può esser certo di non

sbagliare. Isolato da tutto e tutti egli è un'eccezione assoluta, le regole etiche non lo

aiuteranno a capire. 27

Nel momento in cui l’uomo entra in rapporto con Dio, con il fine supremo e ultimo

della vita, tutto il resto, anche la conformità alle regole etiche, deve eclissarsi: nella

religione egli si deve abbandonare completamente a Dio ed avere fede in Lui al di

sopra di tutto, come fece Abramo, anche contro i dettami dell'etica. Non c'è dunque

continuità fra la vita etica e quella religiosa. Tra esse, anzi, c'è un abisso ancora più

profondo che tra l'estetica e l'etica. La vita religiosa è esistenza vissuta al di fuori e al

di sopra dell'etica, in conformità con la fede.

Soprattutto negli ultimi anni della sua vita, Kierkegaard sentì profondamente la

separazione tra il Cristianesimo da lui propugnato e tutte le religioni ufficiali piene di

infiltrazioni razionalistiche: attraverso le pagine del periodico Il momento, da lui

interamente scritto, condusse la sua battaglia contro le Chiese costituite. Dopo il

1848 prese anche posizione contro i movimenti rivoluzionari che scuotevano

l’Europa: la “verità” infatti, secondo Kierkegaard, non è mai nella massa, ma nelle

minoranze che, sole, hanno idee. In questa posizione politica e religiosa è visibile

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