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LA DIVINA COMMEDIA
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Trattando di limiti merita attenzione il tema dell’ineffabilità dantesca, ovvero
l’impossibilità per Dante di raccontare quello che vede e che prova nel Paradiso per
l’insufficienza del mezzo della poesia nell’affrontare un tema così elevato. Questo è
chiaramente descritto dal poeta all’inizio dell’ultima cantica:
Nel ciel che più de la sua luce prende
Fu’io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
(Pd I, 4-9)
L’elevatezza degli argomenti non rende possibile comunicare la materia trattata e
questo è un vero e proprio limite umano, di cui Dante è pienamente consapevole.
Eppure Dante prova ugualmente, rimanendo fedele fino all’ultimo al compito
assegnatogli dalla divina provvidenza, a testimoniare ai lettori quello che ha visto,
raggiungendo picchi poetici insuperati.
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.
Qual è colui che sognando vede,
che dopo ‘l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
19
mia visione, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
(Pd XXXIII, 55-66)
Con queste tre similitudini Dante cerca di descriverci la situazione in cui si trova: non
può raccontarci quello che ha visto ma solamente la sensazione di dolcezza che
ancora gli rimane in cuore. Per esprimere questo egli evoca l’immagine di chi
svegliatosi ha perso il ricordo di quanto ha sognato ma reca ancora nel cuore
l’emozione. Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.
(Pd XXXIII, 106-108)
D’ora in avanti il suo parlare sarà talmente inadeguato rispetto a quanto ha visto, da
essere superato dal balbettio di un infante che bagni ancora la lingua al seno della
madre. Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.
(Pd XXXIII, 121-123)
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LATINO
SENECA
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“La maggior parte degli uomini si lamenta delle malvagità della natura, perché siamo
generati per vivere una breve esistenza, perché questo spazio del tempo a noi
concesso corre così rapidamente, tanto velocemente, tanto che la vita, eccetto
pochissimi, abbandona gli altri proprio sulla soglia della vita. Perché ci lamentiamo
della natura? Essa si è comportata con generosità: la vita, se sappiamo usarla è
lunga.”così diceva Seneca in una delle sue più importanti opere, il De Brevitate
Vitae.
È stolto confidare sempre nel futuro: così facendo l'uomo spreca il presente, l'unico
tempo che egli possa controllare davvero, e si affida al futuro rendendo la sorte
padrona delle sue vicende. Bisogna lottare contro la fuga del tempo. L’uomo
affaccendato invece guarda sempre al domani, perde i suoi giorni migliori e si ritrova
di colpo vecchio. La vita degli affaccendati è brevissima: essi infatti non sono capaci
di guardare al passato per coglierne insegnamenti e, quando lo fanno, non possono
che pentirsi di avere sprecato il tempo. La soluzione all'angoscia esistenziale
dell'uomo, che vede la vita fuggire tra le sue mani, è proposta da Seneca
all'attenzione del lettore subito. Egli propone una prospettiva diversa del problema:
non ci si deve preoccupare della quantità della vita, bensì della sua qualità. La
questione si chiarisce attraverso la serie di quadri che contrappongono la massa
degli uomini occupati, che sprecano il loro tempo non inseguendo l'unica meta da
ambire, la sapienza, al saggio, l’unico ad avere un corretto rapporto con il tempo,
questo sa che non deve proiettarsi continuamente nel futuro, inseguendo speranze
vane e consumandosi in una continua attesa, e neppure rifugiarsi nel passato. Al
contrario è consapevole che il presente è il vero tempo che viviamo e questo deve
essere valorizzato e non sprecato. 22
FILOSOFIA
KIERKEGAARD
23
Soren Kierkegaard, l’unico grande filosofo danese di tutta la storia del pensiero,
visse durante il periodo dominante della filosofia idealistica di Hegel. Egli vi si
oppose fermamente rifiutandone le conclusioni ottimistiche e battendosi per una
nuova filosofia basata sull’uomo singolo e sulla sua drammatica situazione nel
mondo.
Kierkegaard morì assai giovane, a soli 42 anni, ed ebbe un’esistenza travagliata.
Cresciuto a Copenhagen sotto l’oppressione della rigida religiosità del padre, egli
cominciò fin dagli anni della prima giovinezza a conoscere uno stato di tensione e di
irrequietudine interna. Poi, come ricorda egli stesso nel Diario, avvenne nella sua
vita un fatto sconvolgente, un “grande terremoto”, da cui non riuscirà più a liberarsi.
Quale sia questo fatto non ci è dato sapere. Da questi pochi cenni si può cominciare
a capire lo stato di insoddisfazione e di tormentosa ricerca che caratterizzò gli studi
di Kierkegaard, svolti dapprima alla facoltà di teologia della sua città e poi a Berlino,
e che caratterizzò poi tutto il suo pensiero. Dopo l’esperienza berlinese, nel cuore
del mondo hegeliano, Kierkegaard si risolse a vivere in solitudine nella sua
Copenhagen con la modesta rendita che il padre gli aveva lasciato.
L’OPPOSIZIONE A HEGEL
La cultura danese era sempre stata legata più o meno strettamente a quella tedesca.
In particolare nella prima metà dell’Ottocento tra le classi colte di Copenhagen
aveva avuto successo e si era diffuso l’idealismo di Hegel.
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Kierkegaard è molto lontano dal razionalismo che domina il suo tempo: ai suoi occhi
la filosofia di Hegel compie una grande mistificazione. Nella sua visione complessiva
Hegel elimina proprio l’uomo, il singolo individuo, il suo dramma particolare,
esistenziale. Il razionalismo, secondo Kierkegaard, è un inganno perché costruisce
meravigliosi castelli, mentre in realtà l’uomo vive in una misera caverna: ancora è un
inganno perché pretende di vedere risolti tutti i conflitti, mentre il conflitto, e
l’angoscia che ne nasce, appartengono all’essenza stessa dell’individuo.
L’ANGOSCIA DELL’ESISTENZA
Superato quello che per Kierkegaard è l’inganno della filosofia, ci si trova di fronte
all’individuo quale protagonista unico e tema di ogni riflessione. Ma se guardiamo
all’esistenza ci accorgiamo che in essa non vi è nulla di necessario, nulla che per
l’uomo si deve realizzare. Per l’uomo vi è semmai la possibilità di scegliere, ma
nessuna delle scelte ha un valore assoluto. È proprio di fronte al suo sentirsi libero di
scegliere che l’uomo conosce l’angoscia. Non si tratta di una paura determinata, ma
di un’indefinita inquietudine la quale caratterizza l’uomo davanti al mondo e davanti
al mistero della realtà. L’uomo può accettare se stesso per quello che è, e allora non
può sottrarsi alla propria inquietudine; oppure cercare di cambiarsi, ma non vi riesce
perché non può sfuggire alla propria essenza. In ogni caso l’uomo è dunque
condannato alla disperazione, in quanto assoluta necessità e impossibilità della
scelta. 25
VITA ESTETICA E VITA ETICA
Tuttavia l’uomo non può esimersi dallo scegliere, anzi in ogni momento della propria
esistenza compie una scelta definita. La scelta è necessaria, ma ripropone ogni volta
il problema di fondo e rinnova l’angoscia. L’uomo può tentare di vivere
esteticamente la propria vita, cioè cercare di cogliere nella propria esperienza i
momenti estetici, irripetibili, del tutto eccezionali; non mescolarsi con le cose, ma
soltanto avere con esse un rapporto contemplativo. È questo l’ideale che
Kierkegaard vede incarnato nella figura del seduttore, Don Giovanni, il quale ha
molte donne, ma non riesce mai a conoscerne veramente una. Il seduttore, infatti,
sta ai margini della realtà e il suo ideale estetico si trasforma in noia, e infine ancora
in insoddisfazione e in disperazione. Tra il primo stadio della vita estetica ed il
secondo stadio della vita etica non vi è alcun legame. È la disperazione a spingere
l’uomo a compiere il salto che lo può portare a vivere una vita etica. Tale scelta
porta l’uomo a non cercare di staccarsi dal mondo, bensì ad accettarlo: ad accettare
la società, le sue convenzioni, ad accettare di essere marito e padre, ad accettare un
lavoro. È l’esatta antitesi del seduttore: l’uomo borghese lavora per i suoi figli e per
il futuro, si inserisce nel corso della storia insieme agli altri. Anche la scelta etica è
però destinata a fallire, poiché il comportamento di chi la attua diviene ben presto
convenzionalità e abitudine priva di partecipazione: l’angoscia e la disperazione
sono riemerse.
Sembra che per Kierkegaard non vi siano compromessi, né modi per sfuggire a
questo aut-aut: è il destino che incatena l’uomo alla propria condizione esistenziale.
Tanto la vita estetica del seduttore quanto la vita etica del borghese portano alla
stessa triste conclusione. 26
LA VITA RELIGIOSA
Vi è pero uno spiraglio di salvezza, un’ultima possibilità cui l’uomo può tentare di
aggrapparsi: la vita religiosa (descritta nell’opera Timore e tremore, la quale, fin dal
titolo, preannuncia l’atteggiamento dell’uomo nei confronti della divinità). Ma non
la teologia che Kierkegaard impara a Copenhagen, non la religione razionale di
Hegel, bensì un sentimento interno, una fede fortemente voluta: credere
nonostante tutto. Pare un paradosso, dice Kierkegaard, eppure questo rapporto con
Dio, che non si spiega e che è addirittura contraddittorio, è l’unica via. Si tratta
dell’estrema consapevolezza dell’angoscia; l’esser certi, sicuri della propria angoscia,
e appunto per questo sperare disperatamente che il male possa essere colmato. Il
“cavaliere della fede” per eccellenza è incarnato da Abramo, il padre dei credenti,
primo patriarca del popolo ebraico: egli vive fino a settanta anni nel rispetto della
legge morale. Solo allora viene premiato da Dio col miracolo di ricevere un figlio,
Isacco, da Sara, la moglie ormai anziana, e vede dunque appagato il desiderio tanto
vivamente sentito di avere una discendenza legittima. Ma Dio, per mettere alla
prova la sua fede, gli ordina di sacrificare a lui questo figlio, il suo unico figlio.
Abramo non esita a intraprendere il sacrificio e decide di fare eccezione alla legge
morale che prescrive di non uccidere. Sennonché, all’ultimo momento, interviene
l’Angelo del Signore e ferma la sua mano che sta per immolare Isacco. Abramo
quindi calpesta i valori dell'etica, comportandosi da credente e non da buon padre
perché l'unica giustificazione per il suo gesto sarebbe stata ascrivibile alla volontà
divina. Fuori dall'etica compare il "rischio" perché nessuno può esser certo di non
sbagliare. Isolato da tutto e tutti egli è un'eccezione assoluta, le regole etiche non lo
aiuteranno a capire. 27
Nel momento in cui l’uomo entra in rapporto con Dio, con il fine supremo e ultimo
della vita, tutto il resto, anche la conformità alle regole etiche, deve eclissarsi: nella
religione egli si deve abbandonare completamente a Dio ed avere fede in Lui al di
sopra di tutto, come fece Abramo, anche contro i dettami dell'etica. Non c'è dunque
continuità fra la vita etica e quella religiosa. Tra esse, anzi, c'è un abisso ancora più
profondo che tra l'estetica e l'etica. La vita religiosa è esistenza vissuta al di fuori e al
di sopra dell'etica, in conformità con la fede.
Soprattutto negli ultimi anni della sua vita, Kierkegaard sentì profondamente la
separazione tra il Cristianesimo da lui propugnato e tutte le religioni ufficiali piene di
infiltrazioni razionalistiche: attraverso le pagine del periodico Il momento, da lui
interamente scritto, condusse la sua battaglia contro le Chiese costituite. Dopo il
1848 prese anche posizione contro i movimenti rivoluzionari che scuotevano
l’Europa: la “verità” infatti, secondo Kierkegaard, non è mai nella massa, ma nelle
minoranze che, sole, hanno idee. In questa posizione politica e religiosa è visibile