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sua indubbia valenza morale, poiché essa esige un comportamento coraggioso e

coerente tale per cui non risulterà che 'sono io a fuggire la morte', ma nemmeno che

'sarà la vita a sfuggirmi'.

Con il suo stile stringato e sentenzioso Seneca farà inoltre presente all'amico Lucilio

che proprio il modo in cui moriamo rispecchia chi davvero siamo (“mors de te

pronuntiatura est”; Lett., 26.6); suggerirà quindi che il miglior rimedio per vincere la

morte è semplicemente quello di disprezzarla (“totius vitae remedium est: contemne

mortem”; Lett., 78.5).

Occorrerà considerare la morte per quello in cui consiste: la morte è non essere (“mors

est non esse “; Lett., 54.4), è la pura e semplice condizione in cui vi è l'assenza della

percezione della vita, l'occasione in cui il venir meno del corpo si accompagna al venir

meno della percezione e quindi della coscienza.

Essa finisce per essere (e qui la posizione di Seneca si avvicina a quella dell'altra

dottrina materialistica, quella epicurea) un punto d'arrivo ineffabile: inoltre, non solo

dopo la morte non c'è nulla (perché non c'è alcuna possibilità di percezione), ma il

morire medesimo è qualcosa di sfuggente, è il limite estremo di un rapidissimo spazio

di tempo (“post mortem nihil est ipsaque mors nihil, velocis spatii meta novissima”).

--Anche l’Epicureismo, corrente di pensiero diffusasi a Roma fra il II e il I secolo a.C.

grazie al poeta Lucrezio, propugnava, similmente allo stoicismo, il raggiungimento

della felicità.

La felicità, secondo i dettami del filosofo Epicuro, può essere raggiunta allontanando il

dolore (“aponia”), quindi soddisfacendo i bisogni naturali, e liberandosi di ogni forma

di turbamento (“atarassia”), quali l’ambizione alla gloria, al potere, all’impegno

(“negotium”) civile e politico.

Alla base di tutto ciò vi è la coscienza che si può dare una spiegazione razionale di

tutti i fenomeni che avvengono sulla Terra, liberando l’uomo dalla paura proveniente

dalla convinzione che il mondo sia regolato e governato da entità metafisiche. Lucrezio

espose i principi della dottrina epicurea nel “De rerum natura”, un poema didascalico

composto di sei libri e scritto in esametri. Tra i molteplici argomenti trattati dal filosofo

latino, è particolarmente interessante quello della morte, di cui Lucrezio cerca di dare

una spiegazione “scientifica”; inoltre intento del filosofo è eliminare in modo

particolare la paura della morte, ossia quell’insieme di sensazioni e timori precedenti o

antecedenti il decesso di una determinata forma di vita.

La paura della morte spinge l’umanità a un’irrefrenabile “frenesia di vita”: alcuni

uomini inseguono gloria e fama, altri si legano fortemente ai beni materiali. Tali

piaceri, tuttavia, una volta soddisfatti, lasciano il vuoto e con esso la paura del nulla, la

quale può essere eliminata esclusivamente attraverso la conoscenza dei meccanismi

che regolano la natura, riuscendo a comprendere che la morte non è altro che una

tappa dell’esistenza di ognuno di noi.

L’universo è, infatti, dominato da leggi meccaniche, pertanto anche i fenomeni

naturali hanno una spiegazione razionale e scientifica dovuta semplicemente al

disgregarsi e al ricomporsi degli atomi, particelle di piccolissime dimensioni. Noi

chiamiamo nascita la formazione di un nuovo aggregato corporeo, mentre la

frantumazione di tale aggregato è ciò che definiamo morte. Il filosofo, quindi, invita, i

suoi lettori (rappresentati dalla figura di Memmio) ad accettare la morte come

qualcosa di ineluttabile e comunque esterna all'uomo: “quando noi siamo non c'è

morte, quando c'è la morte noi non siamo”; invece di preoccuparsi della propria fine

l'uomo dovrebbe occuparsi della vita e non sprecarla poltrendo od inseguendo stupide

ambizioni (“E tu esiterai, e per di più t'indignerai di dover morire? Tu cui è morta la vita

mentre ancora sei vivo”; De Rerum Natura, III, vv. 1045-1052).

L’età classica fu dunque caratterizzata dalla ricerca di soluzioni “scientifiche”

riguardanti la morte, le sue cause e conseguenze, ma soprattutto il timore ad essa

relativo; tuttavia, il tema della morte fu ripreso più volte durante la storia, seppur con

soluzioni differenti, e caratterizzò fortemente la letteratura, soprattutto nell’Ottocento,

nella figura di Giovanni Pascoli e Oscar Wilde, e nei primi anni del Novecento italiano,

rappresentati da Luigi Pirandello.

--Possiamo dire che il tema della morte è presente in tutta la produzione letteraria di

Giovanni Pascoli, il quale sembra guardare alla morte attraverso l’occhio di un

fanciullo, timoroso e attratto allo stesso tempo.

Nella struttura dei “Canti di Castelvecchio” agiscono due motivi, quello naturalistico,

modellato sul trascorrere delle stagioni e quello famigliare, centrato sulla tragedia

dell'uccisione impunita del padre. Il ritmo delle stagioni allude a un ordine naturale e

alla segreta armonia dell'alternanza di vita e morte, di fine e rinascita (e qui il poeta

riprende la concezione senechiana del ciclo vitale); l'uccisione del padre configura

invece una perdita insanabile segnata dalla cattiveria umana e dunque estranea al

ritmo naturale dell'esistenza.

La morte appare carica di minacciose verità per lo stesso soggetto. È come se i morti

mettessero di continuo in pericolo il diritto alla vita del soggetto, così che dietro le

forme della vita si nasconde sempre un mistero preoccupante e angoscioso. Il

soggetto può reagire o abbracciando il punto di vista dei morti, e abbandonandosi ai

temi vittimistici del non-vissuto, dell'esclusione e della propria morte, oppure

rivendicando a se stesso, in quanto poeta, il diritto a esprimere il turbamento del lutto

e a risarcire in questo modo la morte ingiusta, ridandole un ordine e un significato

(atteggiamento tipico del Terzo Romanticismo).

Consideriamo la lirica “Gelsomino notturno”, composta il 21 luglio 1901; notiamo

alcuni riferimenti a questo tema. Il canto è ambientato nelle ore serali e notturne, fino

all'alba. Questo momento della giornata è definito dal poeta come "l'ora che penso ai

miei cari". Infatti, il tramonto rappresenta l'ora del giorno più adatta al raccoglimento,

così il poeta si trova nello stato d'animo migliore per soffermarsi a ricordare le persone

morte a lui care. Questo stesso tema è poi ripreso nelle strofe successive, in modo

particolare dalle parole "fosse" del dodicesimo verso e "urna" del penultimo verso.

Bisogna comunque sottolineare la presenza dell'erba la quale, nascendo, diviene

testimonianza del continuare della vita, del suo trionfo sulla morte.

Anche nei poemetti, come già in “Myricae”, il fascino naturale sembra spesso alludere

a una minaccia di morte e di rovina; e forse ancora più rilevanti divengono qui il dolore

e l'inquietudine misteriosa che accompagnano la vita umana.

È questo il caso di "Digitale purpurea". Questa lirica è collegata a un ricordo di collegio

della sorella Maria, la quale aveva raccontato al poeta che un giorno la madre maestra

aveva vietato alle allieve di avvicinarsi a un fiore cresciuto nel giardino perché il suo

profumo era ritenuto velenoso. Due amiche rievocano la loro vita in collegio e quel

fiore, la digitale purpurea, assume il significato di tentazione, attrazione-timore del

proibito, colpa. La bionda Maria ha sempre evitato di avvicinarsi al fiore proibito,

mentre la bruna Rachele confida infine all'amica di averlo una volta voluto odorare.

Innanzi tutto si può notare come a pronunciare la parola "morte", nel sedicesimo

verso, sia Rachele e non Maria che stava parlando. Il tema ricompare esplicitamente

con l'esclamazione "si muore", alla fine del componimento, per bocca di Maria che

inizialmente, non comprendendo il senso del racconto, sorride all'amica, ma che alla

fine, colto il valore inquietante del segreto, prova orrore.

Ancora più interessante è la lirica "Novembre", nella quale il paesaggio è una realtà a

doppio fondo: sotto un'apparenza di armonia e di positività si nascondono, infatti, la

presenza e la minaccia della morte. Qui una giornata mite e serena trasmette per un

attimo l'illusione di essere in primavera, ma si è in realtà in Novembre, come

suggerisce lo stesso titolo. In questo mese, infatti, cade la cosiddetta "estate di san

Martino", in cui si possono avere alcune giornate quasi estive, ma cade anche la

ricorrenza dei morti; così il poeta può fondere i due aspetti, quello dell'apparenza

estiva e quello dell'autunno reale, nella conclusione definendo il clima quale "estate

dei morti". L'idea della morte s’impone attraverso una serie di allusioni simboliche: il

terreno risuona sotto i piedi così da apparire "cavo", suggerendo dunque la sensazione

del vuoto e del mondo sotterraneo, dove riposano i defunti; il cadere delle foglie è

definito "fragile" (v.11), aggettivo che rinvia alla fragilità e alla caducità della vita

umana. In tal modo il riferimento esplicito alla morte nella conclusione del testo è una

logica conseguenza di ciò che precede.

--Luigi Pirandello, a differenza di Giovanni Pascoli, non sembra preoccuparsi

eccessivamente della morte in quanto apportatrice di dolore, in quanto entità

misteriosa, contemporaneamente attraente e pericolosa.

In Pirandello la morte, infatti, diventa uno strumento. In "Il fu Mattia Pascal", romanzo

che apparve per la prima volta a puntate sulla rivista "Nuova Antologia" nel 1904,

l'inferno della nuova vita coniugale, la difficoltà economica, le disgrazie (muoiono la

madre e le due figlie gemelle del protagonista) inducono Pascal a meditare circa il

suicidio. Tuttavia, arricchitosi improvvisamente alla roulette, egli, identificato dalla

moglie e dalla suocera nel cadavere di un altro uomo, si fa passare per morto e decide

di cambiare identità. All'interno del romanzo, quindi, la morte è riconosciuta come uno

dei mezzi atti a sfuggire dal meccanismo sociale, da quella “trappola” che tanto

caratterizza i protagonisti delle opere pirandelliane. Il tema della morte ricorre anche

alla fine del romanzo quando Pascal, tornato al suo paese, durante la notte dorme nel

letto della madre morta, quasi a ricongiungersi idealmente con lei, mentre di giorno

vive in una biblioteca abbandonata, un luogo morto anch'esso. Pascal, decidendo di

farsi credere morto, si è posto quindi fuori dalla vita, in una condizione di estraneità e

di distacco da ogni meccanismo sociale, e alla fine del romanzo non può affermare

altro se non "Io sono il fu Mattia Pascal", manifestando così la consapevolezza non

solo del suo distacco dalla vita, ma anche della trasformazione nel frattempo

avvenuta, la quale lo induce a negare qualsiasi valore all'identità sociale.

--Citando il tentativo di suicidio di Mattia Pascal, non possiamo non ricordare le parole

di uno dei più grandi filosofi prussiani dell’Ottocento, vale a dire Arthur Schopenhauer

il quale, in un suo noto aforisma afferma: «Il suicida è uno che, anziché cessar di

vivere, sopprime solo la manifestazione di questa volontà: egli non ha rinunciato alla

volontà di vita, ma solo alla vita.»

Secondo il filosofo, la Volontà è quella che Kant definiva “la cosa-in-sé”, ossia la forza

animatrice delle realtà. La realtà da noi percepita, invece, è frutto del cosiddetto “velo

di Maya”, una sorta di “velo” metafisico, fondamentale per la filosofia indiana e alla

base di quei testi sacri noti come Upanishad, il quale impedisce agli individui di

ottenere la liberazione spirituale, tenendoli così imprigionati nella Samsara, il continuo

ciclo delle morti e delle rinascite, quello che Seneca definiva “ciclo vitale”, lo stesso

che costituisce il motivo principale dei “Canti di Castelvecchio” pascoliani.

Se Pirandello aveva preferito consentire al protagonista della propria opera di sfruttare

a proprio vantaggio la morte così da combattere la società-trappola in cui vive,

Schopenhauer comprende che rapportarsi agli altri, al mondo esterno, a quella realtà

tanto stravolta dal velo di Maya non permette di negare la Volontà.

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