Premessa pag 3
Introduzione pag 4
Filosofia
Sigmund Freud pag 5-8
Italiano
Luigi Pirandello pag 9
o Il treno ha fischiato pag 9-17
Storia
Iosif Stalin pag 18-21
Adolf Hitler pag 21-25
Storia dell’arte
Vincent van Gogh pag 26-27
o I mangiatori di patate pag 27
o Campo di grano con volo di corvi pag 28
o Notte stellata pag 29
Inglese
Robert Louis Stevenson
o The strange case of dr Jekyll and Mr Hyde pag 30-31
Bibliografia e sitografia pag 32
PREMESSA
Questo lavoro ha lo scopo di analizzare il tema della follia attraverso le varie discipline scegliendo, per ciascuna materia, uno o più argomenti direttamente connessi al tema scelto proponendoli con un taglio ben definito e mirato ad analizzare il tema attraverso l’opera o l’artista scelto. La scelta del tema “la follia “ è nata per caso….un giorno mi sono infatti trovata a pensare e a chiedermi il perché , di come ci si possa trovare in una situazione tale di disagio da portare a comportamenti anormali e “folli” e da qui il desiderio di approfondire e di cercare ragioni storiche, filosofiche ed esempi “eccellenti” di questo fenomeno tra i personaggi di maggior spicco anche in campo artistico, letterario .
INTRODUZIONE
F
ollia : dire che cosa sia realmente la follia è un'impresa ardua, in tanti hanno provato a dare una valida definizione di questo termine. L’etimologia della parola “folle” deriva dal latino “follis” che significa soffietto, otre, recipiente vuoto e rimanda all’idea di una testa piena d’aria, leggera, persa in pensieri futili. Il termine follia indica uno stato generico di alienazione mentale: in ambito scientifico si fa ricorso a nozioni più specifiche, più rigorose e anche meglio verificabili per definire disturbi mentali ma, diversa connotazione assume invece il termine nella sua accezione socioculturale: la coscienza contemporanea coglie nel concetto di follia non soltanto il particolare stato psicofisico di determinati individui, ma più in generale l'espressione di una condizione di “diversità”, rispetto a modelli di “normalità” socialmente stabiliti, che è imputabile non tanto a un disturbo interno di un soggetto sofferente, quanto ad un'interazione squilibrata tra il soggetto stesso e il suo ambiente. Nel passato come nel presente, la follia si è manifestata sotto molteplici aspetti: attraverso il genio degli scienziati, i versi dei poeti, le melodie dei musicisti, i colori vivaci sulle tele degli artisti, le gesta inconsulte dei potenti. E oggi il termine "follia" ha un significato più comune per indicare semplicemente chi si ribella all'ordine della vita sociale per dar sfogo alle passioni, ai sentimenti, all'istinto, alla pura irrazionalità. Questo termine è entrato dunque a far parte dei linguaggio corrente e non può più essere tenuto al di fuori dei mondo reale come manifestazione della diversità, come un nemico che minaccia l'identità di ognuno. Prendendo spunto dalla realtà dei giorni nostri si può dire come l'uomo sia nato dall'incontro tra la realtà e la follia e di come il mondo corra instancabilmente verso qualcosa che non c'è, mosso dallo sfrenato desiderio di potere .
La follia non allontana l'individuo da se stesso ma lo fa vivere in una realtà parallela che sta al di fuori delle regole e dei canoni dei vivere civile, dove prevalgono irrazionalità e prevaricazione. La difficoltà di dare una definizione univoca alla follia è forse dovuta al fatto di non essere stati in grado di stabilire se la follia sia uno stato esclusivamente corporeo, o uno stato di altro genere, mentale, spirituale, comportamentale, sociale; inoltre per gran parte del pensiero antico, e in buona parte anche di quello moderno e contemporaneo, non si è mai stabilito se la follia sia una condizione umana negativa o positiva, patologica o fisiologica, inferiore o superiore alla “normalità.”
FILOSOFIA
Moltissimi studiosi greci e latini hanno raccolto dati e osservazioni, ipotesi e di congetture sulla natura della follia. La follia si riferisce al corpo o all'anima? Nasce da cause endogene o esogene? È curabile o non curabile? Per rispondere a queste domande bisognava indagare a fondo sulla natura stessa dell'uomo ed è chiaro che le risposte ai quesiti sopra indicati richiedevano il possesso di una conoscenza preliminare relativa all'organizzazione generale dell'essere umano che, per la sua vastità, era percepita come filosofica.
Per questo motivo i maggiori studiosi di questa materia erano dotati di una doppia preparazione medica- filosofica. Il momento più significativo si colloca nel 18° secolo. In questo periodo, e non senza la significativa riscoperta del più grande medico-filosofo dell'antichità, Ippocrate, una figura intellettuale che acquista un particolare prestigio è quella del cosiddetto médecin-philosophe. È a questa figura che la cultura dei Lumi chiede di chiarire non solamente la struttura psicofisica dell'uomo, ma anche la causa dei disturbi connessi alla follia, ovvero all'alienazione delle sue facoltà intellettuali e morali. È proprio nell'età illuministica che molti studiosi collocano la genesi di una moderna scienza della follia . È soltanto molto più tardi, negli anni a cavallo tra Otto e Novecento e poi nel corso del Novecento, che il pensiero medico e psicoantropologico ha riaffrontato con adeguata radicalità alcune questioni concernenti il tema della Follia. La medicina “ufficiale” ottocentesca si muoveva in un orizzonte teorico di tipo positivistico - materialistico. Essa infatti tendeva a interpretare tutti i disturbi della personalità in chiave somatica e quindi non prendere “sul serio” quegli stati psiconevrotici (come le isterie) ai quali non corrispondesse alcuna lesione organica. I primi che incominciarono a dubitare delle teorie ufficiali furono Breuer e Charcot, i quali erano stati attratti dal fenomeno dell’isteria. Il primo era giunto ad usare l’ipnosi come metodo terapeutico, ottenendo un certo successo grazie al controllo dei sintomi isterici mediante la suggestione. Breuer aveva utilizzato l’ipnosi come mezzo per richiamare alla memoria avvenimenti penosi dimenticati. Rilevante è il caso di Anna O, un isterica gravemente malata, curata da Breuer, la quale tra gli altri sintomi (paralisi motorie, turbe della vista e dell’udito, tosse nervosa, anoressia, afacia ecc.) manifestava anche un acuta idrofobia. Mediante l’ipnosi Breuer scoprì che la paziente, avendo scorto da bambina il cane della governante (verso la quale nutriva sentimenti di ostilità) bere in un bicchiere, aveva provato un forte senso di repulsione. Pur avendo rimosso quell’episodio, la paziente presentava ora anche sintomi idrofobici, che scomparvero quando Breuer, mediante l’ipnosi, portò nuovamente alla coscienza della donna l’episodio dell’infanzia. In questo campo ben presto divenne rilevante la figura di Sigmund Freud.
Sigmund Freud nacque in Moravia nel 1856, da genitori ebrei che si trasferirono a Vienna nel 1860. Laureatosi in medicina, intraprese studi di anatomia e del sistema nervoso, lavorando nel laboratorio di Brϋke Nel 1882, per ragioni economiche si vide costretto ad abbandonare la ricerca scientifica e a intraprendere la professione medica, dedicandosi alla psichiatria. Nel 1885, grazie a una borsa di studio, si reca a Parigi dove Charcot sta studiando i fenomeni isterici. Tornato a Vienna perviene, grazie a una serie di ricerche sull’isteria, condotte in collaborazione con Josef Breuer, alla scoperta dell’inconscio e quindi alla formulazione della teoria psicanalitica.
“Se è un merito aver dato vita alla psicoanalisi, il merito non è mio. Non ho
preso parte al suo primo avvio. Ero studente, impegnato nel dare gli ultimi
esami, quando un altro medico viennese, il dottor Josef Breuer, applicò
per le prime volte questo procedimento per curare una ragazza malata
d'isteria”.
Freud – Conferenza sulla Psicoanalisi negli Usa, 1909
Breuer e Freud avevano studiato insieme il caso di Anna O.; proprio dopo averlo attentamente analizzato misero a punto il “metodo catartico”, consistente appunto nel provocare una “scarica emotiva” (ab-reazione) capace di liberare il malato dai suoi disturbi. Muovendosi autonomamente da Breuer, Freud, pensando alle cause dell’isteria, arrivò a scoprire che la causa della psiconevrosi era da ricondurre ad un conflitto tra forze psichiche inconsce. I sintomi delle patologie in questione erano quindi “psicogeni” cioè non derivavano da disturbi organici, ma dalle traversie della stessa psiche. La scoperta dell’inconscio portò alla scoperta della psicoanalisi. Più avanti Freud si distaccò dal metodo ipnotico e anziché “forzare” il malato egli vuole cercare di rilassarlo, in modo da porlo in una condizione in cui il paziente possa abbandonarsi ai propri pensieri, facendo si che tra le varie parole da lui pronunciate si instaurino delle catene associative collegate con il materiale rimosso che si vuole portare alla luce attraverso il metodo delle”associazioni libere”. Questo metodo, pur avendo capacità di “aggirare” più facilmente censure e rimozioni, presenta tuttavia notevoli difficoltà concrete, che soltanto con lo sforzo solidale del paziente e dello psicoterapeuta è in grado di superare.
La psiche è un’ unità complessa costituita da due topiche:
la prima si distingue in tre sistemi: inconscio, preconscio, inconscio.
la seconda si distingue in tre istanze;
ES: <<polo pulsionale della personalità, ovvero la forza impersonale e caotica, Freud lo definisce come un <<calderone di eccitamenti ribollenti>>. Obbedisce unicamente all’<<inesorabile principio del piacere>>
SUPER-IO: “coscienza morale”, ovvero l’insieme delle proibizioni che sono instillate nell’individuo nei primi anni di vita.
IO: parte organizzata della personalità, che deve equilibrare attraverso compromessi le pressioni disperate e per lo più in contrasto.
INDIVIDUO NORMALE: L’io riesce a padroneggiare la situazione, fornisce parziali soddisfazioni all’Es, senza violare gli imperativi e le proibizioni del Super-io.
INDIVIDUO NEVROTICO:L’io non riesce a padroneggiare:
Super- io troppo deboleES ha il sopravvento, quindi l’individuo è portato a comportamenti asociali o proibitiil soggetto diventa un delinquente.
Super-io troppo rigidoprovoca la rimozione, o altri sistemi di difesa; le istanze dell’Es divenute inconsce si manifestano allora con sintomi nevrotici.
L’opera fondamentale di Freud è “L’interpretazione di sogni” : - i sogni- dice Freud, sono "la via regale verso l'inconscio". Il sogno rappresenta l'appagamento allucinatorio di un desiderio. Fonti del desiderio:
Stimoli endogeni (fame,sete);
Episodi del giorno precedente in cui il desiderio sia stato represso;
Strati di materiale inconscio;
Situazioni della prima infanzia
Durante il sonno è sospeso il controllo vigile dell'Io e ciò consente l'emergere di strati inconsci che sono rappresentati nel sogno, tuttavia, il sogno è anche il "custode del sonno", per questo motivo attraverso la censura onirica desideri proibiti e penosi sono espressi in maniera deformata e camuffata. Per questa ragione, Freud distingue un contenuto manifesto, cioè lo svolgersi degli avvenimenti onirici, e un contenuto latente, ossia i veri pensieri onirici e il motivo del desiderio. Lapsus, dimenticanze, motti di spirito, sogni e nevrosi portano Freud dentro l’inconscio. E qui egli trova, appunto, la spiegazione causale dei lapsus, dei sogni, ecc. in pulsioni respinte e in desideri rimossi nell’inconscio, ma non cancellati; pulsioni e desideri strappati alla ""coscienza"' e trascinati nell’inconscio perché cose "vergognose" e "indicibili" che una continua censura cerca di non far riaffiorare alla vita cosciente. E rimozione e censura entrano in azione perché queste cose "vergognose"' sono desideri e ricordi di natura principalmente sessuale e quindi da "cancellare". Freud giunge così al concetto di libido ("la forza con la quale si manifesta la vita sessuale"); si rende conto che, "regolarmente, i sistemi morbosi sono legati alla vita amorosa dei malato e che i disturbi della vita sessuale sono una delle cause più importanti della malattia"; scandaglia così la sessualità infantile; per la prima volta veniva attribuita al bambino una propria sessualità, quasi impensabile per quell’epoca. Freud distingue quattro fasi nella sessualità infantile:
1. fase orale, in cui il bambino è attratto dall’atto di "ciucciare" dal seno della madre,
2. fase anale, dove il bambino è stimolato dall’atto di defecare
3. fase fallica dove il bambino passa alla conoscenza del sesso opposto, e infine una
4. fase genitale, che si presenta dopo la pubertà, in cui il ragazzo, non più bambino è attratto dal sesso opposto.
E’ nel periodo che va tra la fase fallica e quella genitale viene a formarsi la struttura nella psiche umana del super-io. Se nel soggetto queste quattro fasi non raggiungono il pieno sviluppo, per cause più o meno violente, si assisterà a fenomeni di perversione sessuale, nei quali l’adulto regredisce allo stadio mancato nella propria infanzia, però con la carica pulsionale e aggressiva dell’età adulta.
Dopo aver definito le fasi della sessualità infantile Freud passa alla definizione del concetto di complesso di Edipo, elemento determinante che è spesso possibile individuare nella personalità disturbata di folli personaggi della storia, vedi Hitler e Stalin. Il complesso di Edipo è il cruciale momento evolutivo, organizzatore della vita psichica dell’individuo, in cui si sancisce la differenza tra i sessi e tra le generazioni. Tra i tre e i cinque anni di età, il complesso di Edipo positivo si manifesta con un desiderio amoroso del bambino verso il genitore di sesso opposto, mentre il genitore dello stesso sesso, vissuto come un rivale, è oggetto di sentimenti ostili. Nella maggior parte dei casi il complesso si presenta in forma complessa e articolata: entrambi i genitori sono oggetto d’amore e di ostilità, sia pure in diversa e variabile misura a seconda dei singoli casi. Il complesso di Edipo costituisce un passaggio fondamentale della crescita perché l’onnipotenza, caratteristica delle fantasie consce e inconsce dell’infanzia, incontra il limite del divieto che costringe a rinviare il soddisfacimento delle pulsioni e a sviluppare desideri che, più tardi, devono essere rivolti all’esterno della famiglia. Pertanto, sia nella normalità che nella patologia, il complesso di Edipo rimane l’elemento strutturante come premessa della possibilità di distinguere il ‘buono’ dal ‘cattivo’ e rappresenta un momento cruciale in cui si sanciscono le differenze tra sessi e generazioni e si influenza la natura delle relazioni e dell’identità sessuale, la formazione di fantasie e attività sessuali.
ITALIANO
Il tema della follia percorre la vita e la storia di molti artisti e letterati, segnati nella vita personale da episodi traumatici. Anche la vita personale e artistica di Luigi Pirandello porta i segni lasciati dalla “follia”, seppur non vissuta direttamente dalla sua persona, lo scrittore vive il disagio della malattia mentale della moglie Antonietta Portulano. Luigi e Antonietta, nonostante avessero dovuto sottostare ad un matrimonio di convenienza concordato dai loro genitori , vissero una storia di vero amore che però fu scossa pesantemente quando, nel 1903 un allagamento e una frana nella miniera di zolfo di Aragona di proprietà del padre, nella quale era stata investita parte della dote di Antonietta, e da cui anche Pirandello e la sua famiglia traevano un notevole sostentamento, li ridusse sul lastrico. Questo avvenimento accrebbe il disagio mentale, già manifestatosi in Antonietta. Solo diversi anni dopo, nel 1919, Luigi , ormai disperato, acconsentì che Antonietta fosse ricoverata in un ospedale psichiatrico . Alla base della visione pirandelliana vi è una concezione vitalistica, in cui tutta la realtà è un flusso continuo e tutto ciò che si distacca per Pirandello è destinato a morire. In realtà noi esseri umani non siamo altro che parte dell’universale fluire eterno della vita e tendiamo a cristallizzarci in forme individuali, ma in realtà questa personalità non è altro che un’illusione che scaturisce solo dal sentimento soggettivo che noi abbiamo del mondo. In questa visione non poco influisce la follia della moglie. L’evasione dalla realtà diviene un tema che si sostituisce a quello di una realtà immaginata dall’individuo per poi condurla al dato reale. La disgrazia economica ed il tragico epilogo del vivere familiare esprimono il disagio e la sofferenza che Pirandello vede come compagne scomode ma inevitabili del suo esistere. La malattia della moglie portò lo scrittore ad approfondire, portandolo ad avvicinarsi alle nuove teorie sulla psicoanalisi di Sigmund Freud, lo studio dei meccanismi della mente e ad analizzare il comportamento sociale nei confronti della malattia mentale. Da qui partirà l’analisi psicologica e profondamente introspettiva dei suoi personaggi, ponendoli in una posizione di privilegio rispetto alle maschere formali che le occultano, ma che la sua poetica pone in evidenza. Pirandello constaterà non solo ciò che noi stessi fissiamo come “forma” ma anche quelle forme che gli altri ci danno. La follia è forse l’elemento essenziale della poetica pirandelliana, una sorte di trade union per ogni suo modello espressivo, il frutto di un vissuto tanto penato quanto ricco di ispirazioni e riflessioni. Le riflessioni sulla follia conducono ad un paradosso inesplicabile, ma che si giustifica esso stesso come elemento giustificante della razionalità: ciò che riteniamo sano e coerente non sia altro che la follia comune, che si giustifica in un delirio pubblico e di complicità di ogni folle col folle.
IL TRENO HA FISCHIATO - Novelle per un anno- Luigi Pirandello
pubblicato sul corriere della sera il 22/02/1914
Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d'ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall'ospizio, ov'erano stati a visitarlo.
Pareva provassero un gusto particolare a darne l'annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via:
- Frenesia, frenesia.
- Encefalite.
- Infiammazione della membrana.
- Febbre cerebrale.
E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo cosí contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.
- Morrà? Impazzirà?
- Mah!
- Morire, pare di no...
- Ma che dice? che dice?
- Sempre la stessa cosa. Farnetica...
- Povero Belluca!
E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell'infelice viveva da tant'anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione piú semplice di quel suo naturalissimo caso.
Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s'era fieramente ribellato al suo capo-ufficio, e che poi, all'aspra riprensione di questo, per poco non gli s'era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d'una vera e propria alienazione mentale.
Perché uomo piú mansueto e sottomesso, piú metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare.
Circoscritto... sí, chi l'aveva definito cosí? Uno dei suoi compagni d'ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz'altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, librimastri, partitari, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi.
Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, cosí per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po', a fargli almeno almeno drizzare un po' le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S'era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse piú, avvezzo com'era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte.
Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d'una improvvisa alienazione mentale.
Tanto piú che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo-ufficio. Già s'era presentato, la mattina, con un'aria insolita, nuova; e - cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d'una montagna - era venuto con piú di mezz'ora di ritardo.
Pareva che il viso, tutt'a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt'a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d'improvviso all'intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt'a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai.
Cosí ilare, d'una ilarità vaga e piena di stordimento, s'era presentato all'ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.
La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte:
- E come mai? Che hai combinato tutt'oggi?
Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un'aria d'impudenza, aprendo le mani.
- Che significa? - aveva allora esclamato il capo-ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. - Ohé, Belluca!
- Niente, - aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d'impudenza e d'imbecillità su le labbra. - Il treno, signor Cavaliere.
- Il treno? Che treno?
- Ha fischiato.
- Ma che diavolo dici?
- Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L'ho sentito fischiare...
- Il treno?
- Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere!
Gli altri impiegati, alle grida del capo-ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare cosí Belluca, giú risate da pazzi.
Allora il capo-ufficio - che quella sera doveva essere di malumore - urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli.
Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s'era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non piú, ora ch'egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva piú, non voleva piú esser trattato a quel modo.
Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all'ospizio dei matti.
Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva:
- Si parte, si parte... Signori, per dove? per dove?
E guardava tutti con occhi che non erano piú i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d'un bambino o d'un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite, espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto piú stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s'era mai occupato d'altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite.
Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell'improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa.
Difatti io accolsi in silenzio la notizia.
E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giú, amaramente, e dissi:
- Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev'essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest'uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l'avrò veduto e avrò parlato con lui.
Cammin facendo verso l'ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio:
«A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita "impossibile", la cosa piú ovvia, l'incidente piú comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell'uomo è "impossibile". Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà piú tale; ma quale dev'essere, appartenendo a quel mostro.
«Una coda naturalissima.»
Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca.
Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell'uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita.
Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; l'altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate.
Tutt'e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l'una con quattro, l'altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto.
Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt'e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa.
Letti ampii, matrimoniali; ma tre.
Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch'esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta.
Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé.
Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, piú intontito che mai.
Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo.
Quando andai a trovarlo all'ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sí, ancora esaltato un po', manaturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito.
- Magari! - diceva. - Magari!
Signori, Belluca, s'era dimenticato da tanti e tanti anni - ma proprio dimenticato - che il mondo esisteva.
Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d'una nòria o d'un molino, sissignori, s'era dimenticato da anni e anni - ma proprio dimenticato - che il mondo esisteva.
Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l'eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d'addormentarsi subito. E, d'improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.
Gli era parso che gli orecchi, dopo tant'anni, chi sa come, d'improvviso gli si fossero sturati.
Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d'un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s'era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt'intorno.
S'era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s'allontanava nella notte.
C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sí, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato piú! Il mondo s'era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell'arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L'attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l'immaginazione d'improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C'erano, mentr'egli qua viveva questa vita «impossibile», tanti e tanti milioni d'uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti... Sí, sí, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosí... c'erano gli oceani... le foreste...
E, dunque, lui - ora che il mondo gli era rientrato nello spirito - poteva in qualche modo consolarsi! Sí, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l'immaginazione una boccata d'aria nel mondo.
Gli bastava!
Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S'era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d'un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva.
Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo-ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo-ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l'altra da registrare, egli facesse una capatina, sí, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo:
- Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato...
Collocazione
La novella Il treno ha fischiato si colloca in Novelle per un anno. La raccolta è stata composta tra il 1894 e il 1937 soprattutto per il Corriere della Sera, inizialmente l’idea era quella di organizzare le novelle in 24 volumi, ma in realtà ne uscirono solo 15, per un totale di 225 racconti. A differenza delle altre raccolte classiche, nella raccolta pirandelliana non si riesce a individuare un ordine determinato, infatti è lo stesso titolo che, come suggerisce Luperini, ”sembra alludere allo sperpero casuale dei giorni e delle vicende”.
Nella raccolta vi è un’assenza di cornice e di un principio costruttivo unitario: rappresentazione della mobile caoticità della “commedia umana”, nelle singole novelle emerge il principio di casualità e moltiplicazione dei punti di vista.
I temi sono fondamentalmente tre:
• il vedersi vivere, cioè i personaggi hanno una rivelazione di verità che li porta a vedersi “dal di fuori”, a riconoscere il contrasto vita-forme ;
• trappole e ganci che impigliano l’esistenza di certe forme;
• tensione verso un “altrove” che porta Pirandello a trame sempre più sperimentali, in cui si affermano l’assurdo e il silenzio.
Analisi
In questa novella si può ben notare il tipico ambiente del piccolo borghese, angustiato da insopportabili miserie, frustrazioni, sofferenze; la condizione sociali del piccolo borghese diventa emblema di una condizione metafisica dell’uomo: Belluca rappresenta l’uomo imprigionato nella trappola della forma , la quale assume le vesti contingenti della squallida condizione impiegatizia. La spontaneità della vita è in lui mortificata perché è prigioniero di un meccanismo ripetitivo, monotono, alienante che presenta due facce: il suo lavoro da computista, che non gli concede mai un attimo di respiro e lo segrega totalmente dalla vita, e la sua famiglia opprimente, soffocante. Pirandello usa la strategia della riduzione all’assurdo per dare una connotazione ancora più comica alla novella, attraverso un processo di esagerazione iperbolica: una moglie cieca susciterebbe commozione, ma tre cieche, più due figlie vedove con complessivi sette figli, non possono che suscitare il riso. Il motivo edificante e strappalacrime del pover’uomo che si sacrifica per dare da mangiare alla famiglia , viene portato all’esagerazione e diviene ridicolo. Scatta il sentimento del contrario, la scomposizione umoristica della realtà.
Questa vita stressante è la causa della follia di Belluca, che ha determinato la rottura con il meccanismo alienante della forma sociale. Nella sua vita dura e monotona, un fatto fuori dalla routine , lo ha condotto alla pazzia: il fischio di un treno nel silenzio della notte. Bastò questo episodio per far assumere all’eroe coscienza della vita che scorre fuori dalla trappola. Se la trappola è emblema del ristretto, la vita si presenta come amplissima prospettiva spaziale: Firenze, Bologna, Torino, Venezia, e poi la Siberia, il Congo.
La follia di Belluca è basata su una serie di cause concatenate, il fenomeno appare non più straordinario ma “naturalissimo”. La rottura del meccanismo genera comportamenti folli, perché l’irrompere di eventi insoliti non consente di sopportare il grigiore e l’angustia della forma quotidiana. Il fischio del treno diventa uno spiraglio dal qual intravedere il caos della vita-flusso. Nella follia c’è una logica, contrapposta all’apparente razionalità del meccanismo dell’esistenza comune: una logica che smonta quel meccanismo, ne fa apparire l’assurdo, l’inconsistenza, anche la fragilità, perché basta un fatto banale, per incepparlo. La razionalità del meccanismo è solo apparente, l’irrazionalità del caso può in ogni istante farlo esplodere, determinando il crollo di ogni costruzione fittizia.
Belluca dopo l’eclatante gesto di rivolta verso il capufficio, ritornerà entro i limiti del meccanismo, riprenderà, la sua computisteria, la sua parte di padre di famiglia, docile e mansueto come sempre, ricomincerà a vivere tra obblighi e costrizioni, ma senza più sentirne il peso, nella consapevolezza del vuoto che è nascosto al loro interno; Belluca “ha capito il giuoco” e ha preso coscienza della vera natura della realtà. Il protagonista ora potrà ben sopportare la meccanicità della “forma” perché avrà una valvola di sfogo: la fantasia. Un attimo di evasione gli consentirà di sostenere il peso delle forme sociali che lo imprigionano, poi potrà ritornare tranquillamente all’ordine. L’immaginazione è la fuga momentanea, un’evasione che ha solo una funzione consolatoria.
Nella narrazione sono presenti tre momenti:
• Esordio: avvio in medias res; il lettore direttamente nell’azione senza spiegare nulla. L’avvio della novella è ancora più sorprendente se si considera il significato del verbo “farneticare”, che getta sulla vicenda, prima ancora che essa venga raccontata, la luce sinistra della follia.
• Punto culminante della tensione narrativa: l'accrescersi della tensione narrativa non è dovuta all'aggravarsi della situazione (fin dalle prime righe sappiamo della pazzia e del ricovero di Belluca), ma dall'atteggiamento di conoscenti e colleghi che, di fronte alla rivelazione di Belluca ("il treno...ha fischiato") manifestano incredulità, stupore e ilarità.
• Scioglimento: la spiegazione della presunta pazzia di Belluca (l'io narrante, al contrario di tutti gli altri personaggi, non si sorprende, anzi ritiene che tutto l'accaduto sia "naturalissimo") allenta la tensione e avvia l'epilogo, in cui ogni cosa si ricompone in un rinnovato equilibrio: il fischio del treno rappresenta dunque il varco improvviso, lo squarcio mentale in seguito al quale Belluca ha assunto piena dignità di individuo consapevole ponendosi in un rapporto nuovo con gli individui e col mondo.
Nell'arco della narrazione la focalizzazione non è costante: infatti, i punti di vista vi si alternano continuamente. La novella inizia annunciandoci che il protagonista, ancora non identificato, ha dato segni evidenti di squilibrio o quantomeno d’alterazione del comportamento. In questa fase del racconto, la prospettiva, espressa prevalentemente attraverso il dialogo, è quella dei personaggi secondari: i medici, che parlano di febbre cerebrale, e i compagni di ufficio che avanzano svariate ipotesi: pazzia, encefalite, meningite. Già nella seconda sequenza però, emerge la voce del narratore (un personaggio ancora senza identità) il quale ipotizza che, "date le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tanti anni" il caso del Belluca "poteva anche essere naturalissimo" e il suo farneticare, che a tutti pareva delirio, poteva essere la "spiegazione più semplice di quel naturalissimo caso". Nella quarta sequenza ancora un mutamento della prospettiva: il narratore si fa portavoce delle valutazioni dei colleghi sulla fisionomia umana e gli antefatti della vita di Belluca ("Circoscritto… chi l'aveva descritto così? Uno dei suoi compagni d'ufficio.") e il suo giudizio si confonde con il loro. Nella settima sequenza ("Chi venne.") ritorna il punto di vista del narratore (il personaggio-testimone che già aveva orientato il lettore attraverso i fatti): a lui Pirandello affida ora il compito di rivelare, e in modi diffusi ed espliciti, la verità, spiegando il "caso" capitato a Belluca. Nella nona sequenza il narratore, rivelatosi solo ora un vicino di casa di Belluca, riferisce quanto lo stesso Belluca gli ha detto durante l'incontro all'ospizio: in questa sequenza narrativa, il narratore riporta il punto di vista, coincidente col proprio, del protagonista; alla decima e ultima sequenza, i propositi di Belluca per il futuro. In questa continua variazione dei punti di vista, si ha tuttavia la sensazione che prevalente è quello del personaggio-testimone, l'io narrante e se il punto di vista varia all'interno del racconto, unitario appare il giudizio che percorre il testo in più passaggi (nella seconda, settime e nona sequenze) e di cui è segno indicatore il superlativo "naturalissimo”. Tale giudizio, riferito alla voce narrante, rappresenta l’ io giudizio dello stesso di Pirandello.
Alcuni passi
-Circoscritto … si,chi l’aveva definito così? Uno dei suoi compagni d’ufficio. Circoscritto povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista-(rr. 29-31)
L’immagine grigia e avvilita dell’impiegato diventa metafora dell’alienazione moderna che cancella le individualità e i desideri
-Già s’era presentato, la mattina,con un ‘aria insolita, nuova- (rr.47-48)
La catastrofe risale prima dell’improvvisa sfuriata di Belluca: qualcosa era già crollato in precedenza. L’apocalisse giunge silenziosa.
-Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un aria d’impudenza-(rr. 61-62)
Il sorriso del personaggio è il segno esteriore di una rivelazione: irritante per chi ha sempre visto in Belluca solo un sottoposto, sorge il crollo di tutte le convenzioni consuete.
-Chi veda soltanto una coda facendo astrazione del mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per sé stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più quel tale; ma quale dev’essere, appartenendo a quel mostro- (rr. 114-118)
Gli eventi straordinari si rivelano naturalissima se ricondotti alla loro origine. Più si allarga l’analisi alle molteplici cause che stanno dietro un fatto, più si comprende che l’assurdità della vita funziona come un contesto in cui tutto diventa normale.
- Aveva con sé tre cieche- (rr. 125)
L’epifania che improvvisamente illuminerà la vita tetra del protagonista sembra quasi compensare la cecità opprimente che, dentro le sue mura domestiche, lo circonda.
-C’era, ah! C’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti c’era il mondo- (rr. 167-168)
Si noti il passaggio al discorso indiretto libero a una scrittura sintatticamente sciolta dai consueti legami, che registra il flusso di una coscienza finalmente liberata.
STORIA
“La tirannide ha rappresentato sempre il simbolo dell'arbitrio e dell'assenza delle leggi. Ma vi è nell'arbitrio del tiranno una negazione non solo del concetto di legge, ma anche di quello dell'equilibrio dell'anima”. Già Platone ne "La Repubblica" identificava nell'animo del tiranno il governo degli appetiti più ferini e selvaggi, rivolti agli istinti erotici, all'ebbrezza e alla sfrenatezza. L'animo tirannico è folle, secondo Platone, poiché è dominato da passioni eccessive, che lo spingono a macchiarsi di qualsiasi delitto contro ogni pudore e ogni prudenza, passioni che una volta condivisa in un gran numero di persone generano il regime tirannico, in cui a governare è l'emulazione e la coltivazione dei sentimenti più bassi. Nell'analisi di Platone vi è una connessione tra la follia individuale e la sua capacità di trasferirsi all'intero corpo sociale. Ma è questo elemento che ritroviamo nelle più recenti manifestazioni della follia tirannica. In questo secolo si è preferito parlare di totalitarismo, ma il meccanismo appare simile. Così Freud poteva osservare che la massa può venire eccitata solo da stimoli eccessivi. Chi vuole agire su di essa non ha bisogno della coerenza logica, ma deve dipingere nei colori più violenti, esagerare e ripetere sempre la stessa cosa. È questo furore che si trasmette nel regime tirannico, in cui le possibilità di ragionamento o di ironia sono cancellate e gli animi sono dominati dalla follia-( Luciano Canfora 1999- la follia del tiranno)
La storia presenta numerosissime figure di personaggi folli. Basta pensare ai totalitarismi del ‘900 che hanno toccato tanto da vicino la nostra storia e che hanno lasciato un segno indelebile : lo stalinismo e il nazismo dove Stalin e Hitler sono state le figure dominanti di tiranni folli . Anche se i due regimi avevano ideologie diverse, il primo si manteneva su posizioni di sinistra estrema, mentre il secondo di destra estrema, il livello di distruzione fu alla stesso modo devastante. Non tratterò il Fascismo di Mussolini in quanto si manifestò come una dittatura “imperfetta” poiché in Italia, oltre al regime, era presente la monarchia e la chiesa che resero meno “assoluta” la dittatura del Duce, anche se con gravissime implicazioni. Concentrerò lo studio nelle figure di Stalin e Hitler in quanto rappresentano, a mio avviso, l’esempio del massimo accentramento di potere nelle mani del singolo e della possibilità di disporre incondizionatamente e follemente di qualsiasi tipo di autorità.
IOSIF STALIN
Una famiglia di analfabeti, un padre alcolizzato che picchiava la madre. Quando Iosif ha quattro anni, la madre decide di separarsi dal marito nel tentativo di difendere la propria incolumita' e quella del figlio. Una separazione difficile da far accettare ad un uomo violento e dedito all'alcol, il quale, di tanto in tanto, riappare in famiglia con violenza,incutendo terrore, tanto che all'età di dieci anni Iosif, ritenendo di dover difendere la madre, impugna un coltello e affronta quell'insopportabile padre. A dieci anni incorre in un incidente: un carretto lo colpisce al braccio sinistro bloccandogli, almeno parzialmente, l'articolazione del gomito. Si tratta di lesioni che, nel loro insieme, non riguardano solo il corpo, ma divengono anche lesioni psichiche. L' adolescenza in seminario poi la lotta clandestina, . Ama l'opposizione e quella atmosfera di clandestinita' che la caratterizza, in uno straordinario momento della storia russa in cui si organizza il partito social - democratico che, piu' tardi, si chiamera' bolscevico. Sicuramente non giustifica le purghe e i gulag, ma la vicenda personale del tiranno delinea un caso psichiatrico da manuale che alla fine esplode in un violento delirio di persecuzione. Se si considera la sfiducia e persino la paura nei riguardi del padre, la clandestinita', dapprima come studente, rispetto al regime gesuitico del collegio, in seguito come socialista, col sospetto di essere sempre scoperto e denunciato, si puo' capire gran parte del comportamento che Stalin assunse in tutta la sua vita anche quando, alla morte di Lenin, diventera' il padrone assoluto di tutte le Russie. Non si possono giustificare e assolvere ne' le purghe staliniste ne' i gulag, ma certamente e' possibile rintracciare un filo conduttore comportamentale. Gli ultimi anni, tra il '50 e il '53 parlano poi di patologia: il sospetto diventa certezza e la paura del complotto diventa delirio: fa uccidere il proprio medico privato, il dottor Vinogradov, che lo aveva seguito per tutta la vita, le due guardie del corpo che gli hanno dedicato l'esistenza, le due zie materne delle figlia Svetlana perche' chiacchieravano troppo. Ormai era in preda ad un vero delirio persecutorio e quindi attorno aveva solo persone che, entro breve tempo, avrebbe eliminato. La follia di Stalin è documentata dai medici che lo ebbero in cura dei quali è stata resa nota la diagnosi. Secondo alcuni diari segreti, appena resi pubblici, e stilati da Alexander Myasnikov, uno dei medici personali del dittatore sovietico, una malattia al cervello, una grave aterosclerosi, avrebbe potuto contribuire alla paranoia e alla spietatezza dell’azione di Stalin ai tempi in cui era alla guida dell’Unione Sovietica. Myasnikov era uno dei medici chiamati sul letto di morte del dittatore, quando questi si ammalò nel 1953. Nei suoi diari, che sono stati tenuti segreti per lungo tempo, il medico sostiene che Stalin soffrisse di una malattia che avrebbe potuto intaccare i suoi processi decisionali. "L’aterosclerosi importante nel cervello scoperta durante l’autopsia dovrebbe sollevare la questione di quanto questa malattia -
che era chiaramente in via di sviluppo da un certo numero di anni - abbia compromesso la salute di Stalin, il suo carattere e le sue azioni", scrive Myasnikov nei suoi diari, i cui stralci sono stati pubblicatI recentemente dalla stampa russa e britannica.. "Stalin può aver perso il suo senso del bene e del male, di ciò che è salutare e pericoloso, ammissibile e inammissibile, amico e nemico. Tratti caratteriali possono essere stati enormemente accentuati, in modo che una persona sospettosa diventa paranoica",
scrive ancora il medico. Descrivendo poi i giorni vicini alla morte del leader, Myasnikov nota che: "Il decesso era atteso in qualsiasi momento - come si legge negli stralci riportati sul quotidiano
britannico The Independent - Alla fine quel momento arrivò alle21.50 del 5 marzo... I leader del partito entrarono silenziosamente, in fila, nella stanza, come pure la figlia Svetlana e il figlio Vasily... Tutti restarono immobili in un silenzio cerimoniale per molto tempo". E ancora: "Vorrei suggerire che la crudeltà e i sospetti di Stalin, la sua paura dei nemici, sono stati creati da una vasta, estesa aterosclerosi delle arterie cerebrali". Insomma, "il Paese era guidato, in effetti, da un uomo malato".
Vladimir Bechterev, uno psichiatra, il 22 dicembre 1927 dopo aver visitato Stalin al Cremlino, accertò la grave paranoia del dittatore. Visitò Stalin, il 22 dicembre 1927, insieme con un altro specialista, che trovò il padre di tutti i popoli perfettamente sano, spiegò la sua insonnia e l' irritabilità come conseguenza del superlavoro e della tensione, e con quella diagnosi si costruì una vertiginosa carriera. La diagnosi del professor Bechterev fu invece secca e radicale: un tipico caso di paranoia acuta, rivelò infatti lo psichiatra al suo entourage uscendo dal Cremlino. La reazione della macchina del terrore staliniana fu immediata, infatti poco dopo Bechterey morì, ma ovviamente la colpa del decesso venne data un malore allo stomaco. Tutti coloro che conobbero Bechterev sono certi che è stato avvelenato, ma mancano le prove scrive la Literaturnaja Gazeta, famoso giornale letterario di san Pietroburgo, Ma intanto, resta la diagnosi della malattia di Stalin fatta da Bechterev. E il giornale sovietico ricorda, a sostegno, la mania della persecuzione del dittatore, la distruzione maniacale dei comandanti dell' Armata Rossa, la pazza idea di distruggere milioni di contadini, la mania di grandezza. La paranoia di Stalin si manifestava ad intervalli e c' è un parallelo con le ondate di repressione: i colpi più gravi per Stalin furono nel 29-30, nel 36-37 e alla vigilia della guerra. Stalin pazzo, dunque? In fondo, concludeva la Literaturnaja Gazeta, la tirannia è già in se stessa una grave malattia.
E’ ormai chiaro che le capacità direttive di Lenin, negli ultimi anni della sua vita, furono indebolite dalla malattia, e dal 1922 la situazione andò sempre più peggiorando fino alla morte avvenuta nel 1924. Nell’aprile del 1922, Stalin era stato eletto segretario del generale del Pcus (Partito Comunista dell’Unione Sovietica). Egli aveva approfittato delle continue assenze di Lenin per accentrare nelle proprie mani il controllo dell’apparato burocratico del partito, le cui dimensioni e il cui potere aumentavano continuamente. Lo stesso Lenin, prima di morire, invitò i compagni a diffidare di Stalin, del quale temeva il carattere brutale e le rigide posizioni ideologiche. Ma Stalin riuscì comunque, e abilmente, a imporsi sui suoi avversari interni (Trockij, Bucharin…). Alla fine degli anni venti, Stalin aveva eliminato tutti i vecchi leaders rivoluzionari del 1917 e deteneva il potere del partito, che controllava lo Stato. Il dissenso internamente era stato tacitato e il volere del capo diventava il volere del Paese.
Stalin sosteneva l’idea del “socialismo in un solo Paese”, l’Unione Sovietica doveva e poteva edificare il socialismo senza aspettare lo scoppio della rivoluzione nell’Occidente capitalistico, e presentarsi come nazione-guida della rivoluzione socialista nel mondo. Nacque allora il culto delle idee del capo, e l’intera impalcatura governativa rispondeva alle direttiva di Stalin, tale fatto segnava la marcata subordinazione dello Stato al partito stesso. L’ordine del Paese era garantito da un efficiente apparato poliziesco, già nel 1917 era stata creata la Čeka ( commissione straordinaria panrussa di lotta contro la controrivoluzione), ad essa si affidava il partito per eliminare i proprio avversari. A questo scopo in Unione Sovietica si diffusero i campi di lavoro. Nel 1921 la Čeka venne sostituita dal Gpu (Direzione politica dello Stato) che poteva procedere con perquisizioni ed arresti. Nel 1934 Gpu ribattezzato Nkvd (Commissario degli affari interni). Tutto questo rendeva l’Unione Sovietica uno stato di polizia. Nel 1929, Stalin rispose all’arretratezza del Paese attraverso la collettivizzazione delle campagne, questo portò la rivola in particolare dei kulaki, ma anche delle masse dei contadini. Il governo rispose con la violenza più efferata, l’esito dell’operazione fu talmente tragico che lo stesso Stalin si trovò costretto a frenarla; vi furono centinaia di migliaia di arresti e condanne e pene detentive o fucilazione, e due milioni di kulaki vennero deportate nei campi di lavoro forzato. Nella costituzione del 1936 si riconosceva il Partito comunista come organo di Stato, si compiva il cannino di subordinazione dello Stato al partito cominciato nel 1918 con lo scioglimento dell’Assemblea costituente, gli organi stati divengono semplici esecutori. I bolscevichi sancivano la formula del partito unico. Fino all’avvento di Stalin era stata mantenuta nel partito una parvenza di democrazia; Stalin inaugurò una politica assai più rigida: il dissenso non era accettato. Nel 1933 Stalin fece una prima grande purga eliminando il 30 % dei quadri dirigenti, con l’accusa di traditori del partito. Ogni livello dell’apparato statale era occupato da uomini di sua fiducia. Tutte le avversità vennero ascritte al tradimento di chi non condivideva gli obiettivi della rivoluzione comunista, mentre ogni successo, fu attribuito a Stalin, nacque così il culto della personalità del capo, che venne chiamato Piccolo Padre. Il potere Stalinista si basava sulla gestione terroristica dell’ordine interno , l’Nkvd organizzava l’immenso universo concentrazionario, che contenevano i Gulag, la maggior parte dei prigionieri erano delinquenti politici e nei Gulag la mortalità era altissima. Nel 1935 nacque il periodo delle Grandi Purghe rivolte soprattutto palla stessa classe dirigente bolscevica che aveva dato vita alla rivoluzione e creato l’Unione Sovietica; la polizia segreta poteva agire fuori da qualsiasi controllo, la repressione colpì tutti, e l’Unione Sovietica creò il vuoto attorno a se. La delazione tra i cittadini era incoraggiata, e tutti avevano il dovere morale di denunciare il nemico di classe. Le prove per l’incriminazione erano false, le condanne venivano emanate da commissioni tripartite ; la repressione aveva degli obiettivi: una delibera del gennaio 1938 firmata da Stalin assegnava a ogni territorio il numero di persone da imprigionare e fucilare. L’ondea del terrore dello Stato toccò il culmine nel biennio 1937-1938 poi si spense, Stalin capì di essere andato troppo oltre, la repressione rischiava di indebolire anziché rafforzare il potere; quando la Nkdv venne epurata le Grandi purghe trovarono finalmente il termine. La maggior parte dei processi avvenuti in questi anni si svolsero a porte aperte, questo per diffondere l’idea che i nemici di Stalin sono anche nemici del popolo e della dittatura del proletariato. Il potere di Stalin appariva come implacabile, ma giusto, diretta espressione del volere de popolo.
Possiamo notare, che la dittatura Staliniana fu caratterizzata da una estrema paura nei confronti dei nemici, e non solo . Infatti vediamo che Stalin fece uccidere non solo coloro che considerava dissidenti , ma anche gli stessi uomini che erano al vertice del partito, uomini che gli avevano mostrato fedeltà e che avevano lottato al suo fianco, per il solo timore di essere sopraffatto. L’onda di repressione generale arriva ad indebolire il Paese, proprio perché il Piccolo Padre fece eliminare tutti quegli uomini che avevano reso potente l’Unione Sovietica.
ADOL F HITLER
In I delinquenti per senso di colpa (1916) Freud afferma che i criminali compiono azioni delittuose per alleviare il loro angoscioso stato intrapsichico dovuto, in ultima analisi, a fantasie di parricidio e di accoppiamento con la madre, derivanti dalla mancata risoluzione del complesso edipico. Adolf Hitler rientra pienamente in questo tipo di dinamica descritta da Freud, anche se nel vasto panorama della letteratura psichiatrica è stato diagnosticato come “paranoico psicopatico”, “bambino sadico amorale”, “vigliacco che ipercompensava”, “nevrotico sotto coazione omicida” (E. H. Erikson, 1975).
È interessante analizzare la figura di Hitler e il suo romanzo familiare per comprendere il fenomeno del criminale. Nel tempo si sono accumulate biografie su Hitler, patobiografie che hanno studiato specificamente la sua patologia psichica, come ad esempio quelli della psicoanalista Alice Miller, di Erich Fromm, di Erikson e di Stierlin.
In questa cittadina sull’Inn, dorata dai raggi del martirio tedesco, bavarese di sangue, austriaca secondo lo Stato, sul finire degli anni ottanta del secolo scorso abitavano i miei genitori: mio padre, come impiegato statale zelante del dovere; mia madre, tutta dedita alla casa e, ancor prima, devota a noi figli con sempre uguale sollecitudine amorosa.
Con questi dolci parole Hitler parla in Mein Kampf (la mia Battaglia) della sua infanzia. Erik H. Erikson, quale vero e proprio tecnico della psiche di Hitler, ci ha tramandato nel suo scritto La leggenda dell’infanzia di Hitler , osservazioni importanti che posso aiutarci a comprendere la complessa personalità del dittatore: malgrado questo quadro sentimentale del padre, Hitler dedica parte del suo primo capitolo all’osservazione eccitata, ripetuta, che né suo padre, né altra potenza in terra, avrebbe potuto fare di lui un impiegato statale. Per Hitler il padre, che fra l’altro era un ubriacone e un aggressivo violento, un vero e proprio tiranno – immagine perfetta del padre tedesco di quell’epoca – , non ha mai rappresentato un ideale o un modello in cui identificarsi. Egli non ha mai guardato suo padre con un misto di ammirazione e di invidia, non ha mai aspirato a raggiungere le sue stesse mete. La mancanza di un modello di idealizzazione maschile – di un’immagine gigantesca alla quale inchinarsi – ha determinato l’assenza di un Ideale dell’Io (Ichideal) e quindi l’assenza totale della vergogna. Molti dei problemi relativi alla diminuzione del senso di identità in Hitler dipendono dal fatto che egli non è riuscito ad identificarsi con il genitore del proprio sesso, e ciò ha reso completamente nulla la propria consapevolezza. Il deficit identificatorio con suo padre, quale “bambino invecchiato”, impose a Hitler, quale invece “eterno giovane” che non accettò mai di diventare a sua volta padre, di essere diverso da lui fino all’estremo, spingendosi a servirsi del suo enorme potere per distruggere la vita di milioni di suoi simili pur di dichiarare al mondo di non sottostare ad alcuna regola fondamentale sovraimposta. La relazione mai risolta con il padre provocò in lui ribellione, protesta e forte distacco dalle regole fondamentali di un vivere e lasciar vivere; l’irrisolto legame affettivo ambivalente verso di lui non gli consentì alcun pensiero libero da pregiudizi, alcuna libera scelta nella rielaborazione dell’aggressività, della rabbia e della gelosia vissute nella sua infanzia. Hitler visse , sin dalla prima infanzia , un regime totalitario in famiglia, l’arbitrio del padre e il suo potere costituivano l’unica istanza giuridica per il bambino Hitler, che dimostrò poi nel Terzo Reich la misura assoluta in cui proiettò questo sistema. Durante tutta l’infanzia nel caso di Hitler, come dei suoi immediati collaboratori, mancò ogni alternativa alla durezza, alla violenza, alla freddezza e all’ottuso esercizio del potere, ogni forma di debolezza, tenerezza e vivacità era disprezzata, la violenza usata e subita era colta come perfettamente giusta. Il carattere remissivo della madre verso il padre accrebbe nel figlio una violenta scissione ed ambivalenza, e un vuoto di emozioni e sentimenti. I colori vivaci che suscitavano sentimenti ed emozioni e che erano un chiaro richiamo al corpo materno, erano da Hitler considerati pericolosi, malfamati, “quasi ebrei”. Ogni vitalità doveva venire distrutta sul nascere, radicalmente, come era accaduto a suo tempo al bambino nella casa dei genitori, in cui era prevalso un trattamento brutale, spietato e distruttivo del bambino-Hitler, destinato così a diventare il mostro-Hitler.
Hitler trascorre l’adolescenza a Vienna, dopo che aveva lasciato la famiglia e gli studi per tentare di entrare nella Scuola d' Arte. Squattrinato, senza arte né parte il giovane Hitler girovagava per Vienna cercando di sopravvivere facendo disegni e schizzi, solitario e depresso, ma anche pieno di sé. Qui si sarebbe sviluppato il suo antisemitismo e il suo odio per il marxismo, che sarebbe stato amplificato dalle vicende della Prima Guerra Mondiale dove combatté con particolare coraggio. Hitler conobbe il carcere dove scrisse "Mein Kampf" dove c’era una sorta di elenco di tutto ciò che egli avversava: il marxismo, il capitalismo, la borghesia e gli intellettuali. Contro tutti questi mali esistevano solo due soluzioni: un’unica razza pura tedesca sotto il suo comando e la conquista di uno spazio vitale, da ottenere a spese dell’Unione Sovietica. L’obiettivo di Hitler era di concentrare su di se le due massime cariche politiche della Germania, cancelliere e presidente, e successivamente diventare il Führer, unica guida di tutto il paese. L’occasione che permise al Führer di salire al potere è da ricercare negli accordi stabiliti fra gli Alleati e il ministro degli esteri tedesco Stresemann, ormai prossimo alla morte, durante la conferenza annuale della Societa delle Nazioni a Ginevra. La morte di Stresemann precedette di poche settimane il collo della Borsa di New York che provocò la sospensione dei prestiti statunitensi a sostegno della ripresa tedesca. La forte crisi risveglio lo schieramento protestatario, nazionalista e conservatore, in cui iniziava ad emergere Hitler, che rese la Nsdap il partito di riferimento del malcontento delle masse duramente colpite dalla crisi economica. Alle elezioni del 1930 il partito di Hitler divenne la seconda forza dell’assemblea dopo la Spd . La crescente instabilità spinse il presidente Hindenburg a proporre a Hitler il ruolo di vice cancelliere, egli rifiutò, chiedendo invece di assumere la guida dell’esecutivo. Alle elezioni generali (luglio 1932), la Nsdap divenne il primo partito del Reichstag e Hitler ottenne la nomina a cancelliere (30 gennaio 1933). Il 27 febbraio 1933 il Reichstag fu incendiato, l’attentato venne subito attribuito ai comunisti. Il giorno dopo, mentre in Germania si scatenava una gigantesca caccia all’uomo contro gli oppositori di sinistra, Hitler, con l’assenso si Hindenburg, decretò la sospensione dei diritti civili costituzionali e introdusse una norma che consentiva alla polizia di arrestare e detenere senza alcun limite di tempo persone ritenute nemiche dello stato. Il 14 luglio 1933 Nsdap divenne l’unico partito autorizzato in Germania, con l’elezioni del 12 novembre la Nsdap registrò il 92,1% dei consensi: Hitler poteva dare inizio alla dittatura personale, è stupefacente vedere come Hitler riuscì a salire al potere in solo 10 mesi. In brevissimo tempo la Germania uscì dalla Società delle Nazioni, lo Stato venne ristrutturato in senso centralistico, vennero incarcerati e uccisi gli oppositori politici e i collaboratori, ormai scomodi, nella notte detta “dei lunghi coltelli”, alcuni capi delle SA, ritenute troppo indipendenti, vennero imprigionati o brutalmente assassinati. La morte di Hindenburg accelerò la ricostruzione dello Stato secondo gli orientamenti del nazismo, infatti è proprio il giorno della sua morte, 2 agosto 1934, che Hitler alla sua carica di cancelliere poté aggiungere quella di Presidente della Repubblica. I diversi successi in campo economico e in politica rafforzarono il consenso attorno al regime, così Hitler iniziò la sua opera di assoggettamento della coscienza e della volontà dei tedeschi. Il primo obiettivo del nazismo era il controllo e il dominio sui tedeschi, perché lo sforzo necessario al programma di riarmo doveva essere sostenuto della pace sociale e dalle diverse classi. E’ determinante il rapporto messianico che si instaura fra il leader nazista e il popolo tedesco. Già Freud nel 1921 nel suo scritto “Psicologia delle masse e analisi dell' Io” aveva intuito che la dimensione della massa consentirebbe a ogni individuo di liberare il suo inconscio, come si può vedere nei comportamenti irrazionali delle masse, nei fenomeni di suggestione, nell' idolatria del capo. Fra il popolo tedesco ed Hitler si era creato un campo psicologico magnetico, consapevolmente utilizzato dallo stesso dittatore sempre attento alla sua immagine pubblica, ai suoi gesti, ai suoi discorsi, alla scenografia degli incontri oceanici. Tutta la follia di Hitler può essere sintetizzata nel voler dar seguito e concretizzare quanto riportato nel delirante Mein Kampf , scritto nel periodo in cui era in carcere per aver provocato agitazioni. Hitler portò avanti la sua politica totalitaria che presupponeva che l'impero Austro Ungarico non potesse avere tutta la sua potenza perché c'erano persone di etnia e lingua diversa che lo sfruttavano indebolendolo, e la democrazia era lo strumento che lui riteneva dava la possibilità a queste minoranza parassitarie di ottenere il potere e di conseguenza indebolivano ulteriormente lo stato. La politica Nazista era perciò quella di unire in un unico grande stato tutti i cittadini di lingua tedesca, e evitare il plurilinguismo e il multirazzismo all'interno dello Stato. Il principio dell'ideologia nazionalsocialista si fondava sul concetto di razza. L'utopia del concetto di razza presupponeva che la razza ariana fosse la più pura e dovesse dominare su tutte le altre ritenute inferiori, e principalmente sulla razza Ebrea. Secondo il concetto del Nazionalsocialismo la nazione è il fulcro della razza, perciò la creazione di una grande razza porta la nazione ad essere grande e potente, e per essere potente deve avere una grande potenza militare, con dei soldati perfetti fisicamente, razionali, intelligenti, aggressivi e coraggiosi, e naturalmente obbedienti senza discutere. Gli Stati che non possono difendere i propri confini sono nazioni formate da razze deboli e quindi devono essere sottomesse e rese schiave della razza dominante, e sempre secondo la logica Nazista se una nazione forte aveva bisogno di spazi e risorse di un altro Stato aveva il diritto e il dovere di prenderseli, sottomettendo le popolazioni degli stati invasi decidendo se tali popolazioni andassero schiavizzate o eliminate. In base a questi ideali le razze senza un proprio stato erano considerate parassitarie, e più le persone che le componevano erano agiate, maggiore era considerato il parassitismo, e perciò per la teoria nazista la razza pura e dominatrice doveva rinforzarsi facendo piazza pulita degli individui parassiti, è questa era la scusa adottata per eliminare fisicamente specialmente gli Ebrei e gli Slavi, che verranno poi deportati e sterminati nei ben noti campi di concentramento. Non tutti i nazisti condividevano pienamente queste utopie, ma dovevano farlo per necessità dato il clima di terrore dell' obbedire e tacere che ormai regnava sovrano nello stato Nazista. Il principio di pulizia della razza doveva essere inculcato in tutta la popolazione di lingua tedesca perciò il governo nazista iniziò a diffondere una propaganda per mostrare ai tedeschi come l’eliminazione dei soggetti “deboli” fosse indispensabile per migliorare la prosperosità della nazione. Servizi speciali di polizia vennero incaricati di informarsi su un gran numero di persone tedesche per autentificare la loro purezza come razza, e che non fossero incrociate con persone non ariane. Si arrivò a fare l'identikit del perfetto ariano, che doveva avere una specifica fisionomia sia nel colore di occhi e capelli e altre caratteristiche, e un notevole numero di donne che corrispondevano a questo identikit vennero costrette ad accoppiarsi con uomini anche essi definiti di pura razza, per avere dei futuri puri ariani. Questo era fatto in centri appositi e i bambini rimanevano senza genitori e allevati nello spirito della ideologia nazista. Per poter far crescere delle generazioni che avessero l'attitudine a servire la patria nel miglior modo possibile a discapito dell'identità dell'individuo. Sconvolgente è sapere, e rafforza ancora di più la convinzione della sua follia, come fosse perfettamente indifferente alle sofferenze delle persone oggetto delle sue persecuzioni, ma che fosse particolarmente sensibile e fiducioso sulle capacità gli animali. In seguito ai rastrellamenti degli ebrei non chiedeva dove finissero le persone , ma che fine facessero i loro animali domestici. Inoltre Hitler aveva dato ordine ufficiale alle SS di trovare i cani più intelligenti di tutta la Germania e di insegnare loro a parlare, o quanto meno a comunicare. Si dice che uno dei cani in questione, alla domanda: “Chi è Adolf Hitler” abbaiasse le parole “Mein Fuhrer”. Lo stesso Hitler, si narra che, nel momento estremo del suo suicidio, abbia sparato prima al cane per timore che venisse maltrattato dall’esercito nemico.
In questo quadro della personalità e delle aberranti azioni di Hitler e dei nazisti a lui devoti, emerge come l’Olocausto rappresenta l’apice e la manifestazione più vergognosa della follia di un uomo che è riuscito a coinvolgere migliaia di tedeschi (e non solo tedeschi) che hanno seguito e spesso appoggiato un uomo in delirio di onnipotenza che ha provocato tanti lutti e sofferenze come forse nessun altro ha fatto nella storia dell’umanità.
STORIA DELL’ARTE
Vincent van Gogh è considerato oggi "il pittore malato" per eccellenza.
La natura della sua malattia, che si manifestò prima dei trent'anni, è stata oggetto di numerose ricostruzioni e interpretazioni diagnostiche, fondate soprattutto sulle numerose lettere che van Gogh stesso scrisse al fratello Theo. Ampia è la letteratura riguardante le cause delle sua malattia, le quali suscitano ancora oggi grande interesse. Nel momento in cui le sue crisi, caratterizzate soprattutto da allucinazioni e attacchi di tipo epilettico, si manifestavano, l'artista "cadeva" in uno stato di profonda depressione, ansietà e confusione mentale, tanto da renderlo totalmente incapace di lavorare. Dapprima si pensò che si trattasse di epilessia, ma questa ipotesi rimane solo in parte convincente in quanto non è provato che van Gogh soffrisse dei sintomi che caratterizzano il "grande male" (convulsioni di tipo motorio, tonico-cloniche), tanto meno delle manifestazioni proprie del "piccolo male". Questa prima ipotesi diagnostica, d'altro canto, fu probabilmente formulata non in base ai sintomi che distinguevano la sua malattia, ma da ciò che van Gogh disse di sé: " .sono un pazzo o un epilettico ". Sulla base, soprattutto, delle allucinazioni di cui soffriva e in seguito ad un episodio di paranoia, nel quale fu tormentato dalla convinzione che i vicini lo volessero avvelenare, Jasper ipotizzò che l'artista potesse essere schizofrenico, ma anche questa supposizione pare soddisfare solo in parte i criteri che rientrano nel quadro della schizofrenia. Un' ulteriore trattazione è quella proposta da Arnold (1992), il quale riscontra nei sintomi dichiarati dal pittore una somiglianza con quelli propri di una rara malattia eridataria: la porfiria acuta intermittente. Questa patologia si manifesta in età adulta con attacchi improvvisi, intervallati da periodi di benessere. È noto inoltre che, come numerosi artisti dell'epoca (Manet, Degas, Toulouse-Lautrec), anche van Gogh facesse uso di una bevanda alcolica decisamente tossica ma assai in voga nella Francia di quel periodo: l' assenzio . Questo liquore dal colore verde intenso, che diviene giallo se allungato con acqua, si ricava dalla pianta Artemisia absinthium e contiene, oltre all'alcol, alcuni olii essenziali molto tossici, dagli effetti dannosi sul sistema nervoso, come il tuione in grado di provocare allucinazioni visive ed attacchi epilettici. Quindi, come sostengono numerosi studiosi, l'uso di assenzio e di altre bevande alcoliche, associato ad una cattiva o scarsa nutrizione devono aver aggravato i sintomi della sua malattia.
Il pittore Paul Signac, amico di van Gogh, raccontò un episodio che sottolinea l'ultimo periodo della vita del grande pittore:" Tutto il giorno mi aveva parlato di pittura, letteratura, socialismo. A sera era un po' stanco. [.] Voleva bere d'un colpo un litro di essenza di trementina, che si trovava sul tavolo della camera ".
Un anno prima della sua morte van Gogh, dopo una violenta discussione con il pittore amico Gauguin, si recise l'orecchio sinistro per poi regalarlo ad una prostituta. Un suo autoritratto testimonia l'episodio di automutilazione che contrassegnò la sua malattia.
Alcuni studi hanno tentato di mettere in relazione la malattia di van Gogh con la sua passione per il colore giallo, che predomina nelle tele del periodo francese. Offuscando un po' la sua "reale" creatività questi autori sostengono che i colori caldi- e così "veri" - gli furono ispirati soprattutto dalle allucinazioni visive, in grado di alterare il senso cromatico e la percezione di forma e dimensione.
Molti suoi capolavori possano apparire realmente "allucinati", ma forse la creatività di van Gogh nasceva anche dalla "geniale" capacità di guardare la realtà da prospettive non ordinarie.
Vincent Van Gogh apre un capitolo nuovo dell’arte Europea negli anni della crisi dell’impressionismo. E’ un autodidatta, dipinge per necessità interiore, guarda con attenzione gli eventi artistici coevi, inventa una tecnica tutta personale, la sola adatta a dar corpo alle proprie immagini: trasfigura la realtà a favore del proprio io. Spirito inquieto, figlio di un pastore protestante e dotato di un temperamento religioso e umanitario, stenta molto a trovare la sua strada. Dapprima commerciante d’arte, diventa poi predicatore libero del Borinage, una regione belga un tempo ricca di carbone, in cui i minatori conducevano n’esistenza difficile e miserabile, lavorando duramente, senza certezze fisiche e morali e con loro Van Gogh divide pericoli e sofferenze. Spossato, accusato dalle autorità religiose di “follia mistica”, rientra in famiglia e infine aiutato dal fratello Théo decide di dedicarsi interamente alla pittura. i successivi dieci anni, prima della sua morte, saranno anni intensi di lavoro, nei quali maturerà rapidamente e preciserà sempre più la propria personalità artistica. Questa velocità forse è una delle chiavi per capire Van Gogh, non è da intendere come faciloneria ma come necessità di seguire con la mano l’urgenza interiore di esprimersi in assoluta libertà. Van Gogh, pur dovendo molto alla lezione impressionista e restando aderente al soggetti naturalistico tende a proiettare nella realtà se stesso e quindi a trasfigurarla secondo i proprio sentimenti. Pochi mesi dopo la sua morte lo scrittore avanguardista francese Octave Mirbeau, uno dei pochi che aveva capito subito il valore del pittore olandese, disse -non si era immedesimato nella natura, aveva immedesimato in se stesso la natura; l’aveva obbligata a piegarsi a modellarsi secondo le forme del proprio pensiero, a seguirlo nel sue impennate addirittura a subire le sue deformazioni- Usa la linea, non come mezzo descrittivo, ma con una funzione espressiva, e trasforma il reale per renderlo suggestivo, usa il colore in modo da suggerire l’emozione -anziché cercar di dipingere con esattezza ciò che ho sotto gli occhi, mi servo del colore nel modo più arbitrario, per esprimermi con maggior forza-.
La pittura di Van Gogh non è arte d’impressione ma d’espressione, è un’arte che non vuole esprimere la verità apparente delle cose, ma la loro sostanza più profonda. Van Gogh prendeva il vero a pretesto per parlare di sé stesso e del suo mondo interiore tormentato; il colore era il simbolo delle sue passioni, così come il tratto contorto e dinamico delle sue pennellate dense e pastose simboleggiava la sua tensione esistenziale.
LE OPERE
Nel primo periodo, quello Olandese il suo modo di vedere non è mai oggettivo , infatti a Van Gogh interessa il significato umano di ciò che rappresenta, così come lo sente. In questo primo momento il tema che egli preferisce è la vita dei contadini, e l’opera che meglio rappresenta la viva partecipazione del pittore a questo umile mondo è la tela:
I mangiatori di patate
-Ho voluto far comprendere che questa povera gente che mangia patate, alla luce della lampada, servendosi dal piatto con le mani, ha zappato essa stessa la terra cove quelle patate sono cresciute; il quadro perciò evoca il lavoro manuale […]. Non vorrei affatto che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole>-
Lo spunto del tema nasce probabilmente dalla tradizione fiamminga della rappresentazione di ambienti interni. Ma qui alla resa oggettiva della realtà, si sostituisce un’interpretazione di essa.
La luce viene dall’alto e perciò colpisce solo parti della scena, creando contrasti chiaroscurali e accentua la caratterizzazione dei volti, delle mani nodose, degli abiti, le cui deformazioni indicano la costante fatica fisica dei contadini. I colori, ravvivati qua e là da macchie di luce, sono bruni, le forme sono sintetizzate con pochi tratti e emanano una straordinaria forza.
Nel 1888, dopo due anni dalla permanenza di Parigi, il pittore deicide di andare ad Arles, nella Provenza ricca di colori e luminosità. In questo luogo vuole fondare un <<atelier del sud>> , ma il progetto fallisce in quanto il progetto non ottiene l’esito sperato e anzi, durante il soggiorno, si verifica un peggioramento delle sue precarie condizioni mentali che lo porta a diversi ricoveri in case di cura.
Egli lavora anche quando è ricoverato nella casa di cura di Saint-Rémy, dimostrando come la rappresentazione della natura subisca, nella sua visione, una profonda trasformazione, che riflette le sue angosce, le sue paure, le sue ansie in un turbinio di linee, di luci, di colori, come quelli del cielo delle stelle e dello specchio di luna di:
Notte stellata
Nel dipinto particolarmente innovativo sul piano espressivo, la luminosità dei corpi celesti non vince l’oscurità e la cupezza notturna del paesaggio, accentuata dalla presenza di cipressi che si ergono in primo piano.
«….è la forma che diventa incubo, il colore che diventa fiamma, lava e gemme, la luce che si fa incendio….» Albert Aurier, 1890
Una delle ultime tele:
Campo di grano con volo di corvi
Il formato inusuale adottato dall’artista (rapporto altezza-larghezza è 1:2) genera una straordinaria ampiezza visiva, accentuata dal perdersi all’orizzonte della vasta distesa di grano e della comparsa dei tre sentieri, che suscitano nell’osservatore un senso di smarrimento. La tela è composta con un autentico furore creativo, a colpi di pennello, le cui direzioni seguono i piani prospettici o si scontrano e si accavallano come ondate in tempesta. I colori sono violenti, senza mezze tinte, essenziali sono i tre primari: il blu fondo del cielo vorticoso, il giallo de grano e il rosso delle strade che si allontanano velocemente e uno secondario, il verde dell’erba che serpeggia lungo i sentieri, qual e là svolazzano i corvi minacciosi.
LETTURA DEI QUADRI
Spesso la pittura di Van Gogh è stata studiata in chiave psicanalitica, cercando di scoprire come e quanto le turbe psichiche del pittore siano rivestite nella sua produzione. Non vi è dubbio che l’opera d’arte sia espressione della globalità dell’essere dell’artista: certamente perciò i quadri di Van Gogh sono la sintesi visiva di tutto il suo complesso e agitato mondo interiore. A noi i quadri del poeta non appaiono come l’esperienza di un povero folle, quanto piuttosto come l’espressione dell’angoscia esistenziale dell’uomo moderno in un periodo storico segnato dalla crisi dei grandi valori tradizionali
INGLESE
Madness, with its comic and tragic aspects, has always attracted people’s attention and since literature appeared, authors have begun to reflect this interest in their works. This literary heritage enables us to follow the fascination with madness through history.
I want to speak about Robert Louis Stevenson and his “The strange case of dr Jekyll and Mr Hyde". Stevenson was afflicted of TB and his sleeplessness and melancholy contributed to create a dream that inspired this work. He wrote on his diary of a dream about a man who used drugs and turned into a different being. This is the gothic aspect of the story , even ithough the great Victorian novelist despised this style, between 1880 and 1890, it revived with the theme of the double in the Victorian Society , with its antithetical value and sexual repression. Since his youth Stevenson was interested in the duality of man’s nature , the good and evil sides and all his life was characterized by pessimism that moved him to rebel against religion.
"The strange case of dr Jekyll and Mr Hyde" is Stevenson's masterpiece. It was published in 1886 and had an immediate success. In this novel Stevenson presents the dramatic conflict between good and evil, two forces that may be separated by ration and left to fight one against the other, but the only possible solution is the destruction of the personality. Dr Jekyll is a scientist who has a quiet and sober life. He is obsessed with the idea that his evil tendencies can be separated from his good side. One day he discovers a drug that make this possible and gives birth to two beings: one is dr Jekyll, good and honest, and the other is a horrible creature that he calls Mr Hyde, a short, crooked and malignant man who commits all sort of crimes. Every time dr Jekyill wants to return to his usual self, all he has to do is to take the drug again. Fearing that for some reason he might remain trapped in Hyde's body, he gives instructions for his house and servants to be at Hyde's disposal, opens a bank account in Hyde's name and even makes him his sole heir in his will. Mr Utterson, dr Jekyll's friend and lawyer, is very worried about this situation and tries to discover more about Hyde and the reason why Jekyll supports him so much. One night Jekyll wakes in his bed with a strange feeling, he looks around the room, everything is in its place, but he has the sensation he is in the little room in Soho Square where he sleeps when he is Mr Hyde. Suddenly his eye falls on his own hand: it is the hand of Hyde. Quickly he goes to the mirror and finds out he has become Mr Hyde without taking any drug. Hyde's evil nature has grown, he even has become taller and stronger and has definitely taken control over his creator. Evil is triumphing over good and Jekyll is frightened by this event , so he decides to close himself in his laboratory and commits suicide leaving a long letter in which he explains his strange case. Mr Hyde is a scientific experiment that proved that human mind is populated not only with goodness and honesty, but also with evil and madness.
In Stevenson's novel science plays a dramatic role because it made it possible to create a monster that emphasizes the dark side of mankind. In this novel we see a freudian influence:
- HYDE symbolizes the ID (lthe dark and inaccesible part of the personality, devoid of ethical or moral values) that is the centre of the primitive instinctual passions, energy, love of life and vitality
- JEKYLL represents the whole man: ID, EGO, and SUPER-EGO. Ego is consciousness, the will, while the super-ego is made by the moral precepts of the mind. Together they sublimate the forces of id into civilization controlling the agents of the satisfaction of needs.
Their names are interesting names that were chosen by Stevenson for specific reason: Hide adds a mysterious quality to the owner’s name . It means that he is a character who is often hidden or kept away from society. Dr Jekyll can be interpreted as "I-Kill” infact, though Dr. Jekyll does not harm anyone throughout the story, his scientifically-altered ego, Mr. Hyde, is a clearly vicious character. These two are in perpetual struggle and one man is divided into two choices, on the one hand crime and depravity with mr Hyde, on the other hand Dr Jekyll that must stop the crimes of his double killing himself, which means suicide that is the final and only choice.
The setting of the novel could be London or Edinburgh and both capitals reflected the hypocrisy and the duality of the Victorian society with their contrast between respectability and crimes. The theme of “double “ is evident also in the house and its two facades , each one used by dr Jekyll , the “right” one, or Mr Hyde , the sinister one. The most part of scenes take place at night , there is always artificial lighting and there is no natural daylight. All crimes and important events occurred in darkness and fog: when mr Hyde trampled the child, the murder of a member of Parliament and when Dr Jekyll kill Mr Hyde with suicide.
The ties between the characters are also peculiar: there are only professional relationships and every one belongs to a respectable world and has a respectable social position. In the story there are no women and no wives. These elements reflects the male patriarchal world of Victorianism.
This novel presents the stereotypes of good and evil . Dr Jekyll is the symbol of good, lives a virtuous life , has a beautiful aspect, his face, his body, his skin are very pleasant. On the other side Mr Hyde is pure hate and evil , his aspect is unpleasant, he give an impression of deformity and The Mr Utterson reads in his trait satan’s Signature. Sometimes Mr Hyde appears dressed in dr Jekyll’s fine clothes which are too large for him and this fact points the attention to the physical differences between Dr Jekyll and Mr Hyde.
In dr Jekyll there is more good than evil but his twin Mr Hyde erodes Jekyll’s good .
The major theme of the novel is the dual nature of the human psyche. Within every person there is a good and bad side. At the end, Dr Jekyll wants to kill (suggested in his name) the part of himself that he hides (an even clearer name parallel).
The book portraits a battle between the two. It seems that evil triumphs in the end, since Mr Hyde overcomes Dr Jekyll.
Can science go too far and unleash forces that we cannot control? This fear is perhaps even more relevant now, at a time of global warming, genetic modification, cloning and nuclear weapons, than when the novel was written. Stevenson seems to tell us that evil triumphs because human beings are weakwilled.
BIBLIOGRAFIA
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Baldi, Giusso, La letteratura, volume 6, paravia.
Bologna, Rocchi, Rosa fresca aulentissima, edizione gialla, volume 5, Loescher.
Ciuffoletti, Baldocchi, Dentro la storia, volume 3A, casa editrice G. D’Anna. Spiazzi, Tavella , Only Connect ... New Directions, volume 2, Zanichelli.
SITOGRAFIA
http://ricerca.repubblica.it http://archiviostorico.corriere.it http://www.ri-vivere.it http://www.viaggio-in-germania.de http://is.muni.cz