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La seguente tesina di maturità ha quale obiettivo quello di descrivere i limiti dell'essere umano e la figura del superuomo. Da sempre il "limite" di noi stessi ha dato ispirazione per la fantasia. Attraverso i personaggi delle grandi saghe epiche e attraverso le figure dei grandi supereroi, ci si rende contro del fatto che essi siano il frutto delle nostre paure. la paura sta nell’eterna consapevolezza del ‘limite’ tutto il mistero della vita dell’uomo. È costruito su questa parola che sembra contenere in sé tutto l’enigma del nostro esistere. La stessa etimologia di tale termine racconta tutta la ‘sacralità’ che questo concetto reca in sé. I romani indicavano con il vocabolo ‘limiti’ quelle pietre che segnavano i confini, le quali erano sacre e non potevano rimuoversi senza delitto, essendo sotto la speciale protezione di una divinità detta ‘Limite’ o ‘Termine’. Quest’ultimo quindi, è qualcosa di intoccabile, talmente connaturato alla nostra natura umana da non poter essere rimosso senza danno alla natura umana stessa. Non ha una sua piena realizzazione concreta. Nella sua astrattezza indica il fattore di cui possiamo cogliere solo le conseguenze, mai l’origine o qualsiasi forma, sia pur lontana, di ‘incarnazione’ e quindi di materializzazione dello stesso. Il ‘limite’ è un concetto archetipico, frutto della stessa finitudine dell’uomo. A lui preesiste, in quanto ne determina l’orizzonte di vita e la sua pedagogia ci riporta alla concezione della nostra essenza di uomini. Disponiamo nello spazio della vita di un tempo e un limite. Nella stessa misura, però, abbiamo infinite possibilità di giocarci il nostro tempo e il nostro limite. Nello stesso momento, però, la nostra mente ha come limite alla sua capacità di immaginare quella della nostra percezione. La nostra capacità di immaginazione in sostanza trova un limite nel fatto che siamo capaci di ‘fantasticare’ solo nel limite degli oggetti a disposizione dei nostri sensi. Quando ‘immaginiamo’ qualcosa non facciamo altro che ‘ricombinare’ elementi del nostro percepito quotidiano. Come paradosso se riuscissimo a concepire qualcosa di infinitamente diverso da ciò che possiamo vivere quotidianamente dovremmo arrenderci, comunque, di fronte al limite intrinseco della sua incomunicabilità.
Semanticamente non sapremmo come esprimere ciò che abbiamo immaginato e, anche qualora riuscissimo a farlo, mancherebbe una semantica condivisa con i nostri interlocutori tale da rendere intellegibile il nostro ‘immaginato’. Si gioca tra questi paletti la nostra avventura umana: il limite, la nostra percezione di finitudine temporale e la limitata capacità di percezione di tutto ciò che tra questi due ‘limiti supremi’ continuamente scorre. Anche l’arte soggiace alle perentorie esigenze di questo pilastro della finitudine umana. Non se ne salvano nemmeno gli artisti. L’unica capacità in più che ha un’artista non è quella di sfuggire a tutto questo, ma semmai quella di saper fermare l’occhio su alcuni particolari e, a volte, cogliere degli ‘spiragli’, degli spazi, delle fenditure attraverso cui arriva al suo ‘occhio’ qualcosa di nuovo, di diverso che misteriosamente sa sfuggire alle leggi del limite. Questo qualcosa di nuovo diventa una nuova dimensione temporale che l’arte consente di dispiegare infinitamente oltre l’inconoscibile. È però nuovamente in questo infinito contrasto che ogni giorno ci accorgiamo di avere veramente un limite. E chi è riuscito a varcare le colonne d’Ercole attingendo all’ignoto, all’oltre, ecco che diventa superuomo. Il prezzo altissimo da pagare per aver osato tanto è la vita, ma, forse, ne è valsa la pena. In sintesi la tesina descrive il superuomo e i limiti della natura umana attraverso vari collegamenti interdisciplinari.
Divina Commedia: I “voli” di Dante e Ulisse
Italiano: Montale, Meriggiare pallido e assorto; D’annunzio e il superuomo.
Latino: Seneca, I limiti della conoscenza, De brevitate vitae; Lucrezio e L’elogio di Epicuro.
Filosofia: La morte dell’oltremondo e la nascita del superuomo; L’esistenzialismo .
Storia: La Seconda guerra mondiale.
Greco: Il limite quale elemento fecondo di origine della tragedia; Medea.
Geografia astronomica: Le teorie sulla nascita e sul futuro dell’universo.
Fisica: I limiti della macchina termica; i superconduttori.
Matematica: I limiti di una funzione.
Anno scolastico 2012-2013
Indice
-Mappa concettuale: pag. 3
- Premessa: pag. 4
- Divina Commedia: I “voli” di Dante e Ulisse pag. 6
- Italiano: Montale –Meriggiare pallido e assorto- D’annunzio e il
superuomo pag. 9
- Latino: Seneca –I limiti della conoscenza- De brevitate vitae; Lucrezio e
L’elogio di Epicuro pag. 15
- Filosofia: La morte dell’oltremondo e la nascita del superuomo;
L’esistenzialismo pag. 20
- Storia: La seconda guerra mondiale pag. 27
- Greco: Il limite quale elemento fecondo di origine della tragedia; Medea
pag. 30
- Geografia astronomica: Teorie sulla nascita e sul futuro dell’universo
pag. 32
- Fisica: I limiti della macchina termica; i superconduttori pag. 35
- Matematica: I limiti di una funzione pag. 43
- Conclusioni: pag. 47 1
L’immensa finitudine dell’uomo. In bilico tra limite e
superuomo…
Da sempre il ‘limite’ di noi stessi ha ispirato la nostra fantasia. I
personaggi delle grandi saghe epiche o i supereroi moderni non sono altro
che un modo per esorcizzare la paura di doversi fermare prima o poi da
qualche parte. Un limite che il nostro intelletto fatica ad accettare,
fermarsi in quanto incapaci di procedere oltre un ostacolo più grande di
noi. Sta nell’eterna consapevolezza del ‘limite’ tutto il mistero della vita
dell’uomo. È costruito su questa parola che sembra contenere in sé tutto
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l’enigma del nostro esistere. La stessa etimologia di tale termine racconta
tutta la ‘sacralità’ che questo concetto reca in sé. I romani indicavano con
il vocabolo ‘limiti’ quelle pietre che segnavano i confini, le quali erano
sacre e non potevano rimuoversi senza delitto, essendo sotto la speciale
protezione di una divinità detta ‘Limite’ o ‘Termine’. Quest’ultimo quindi, è
qualcosa di intoccabile, talmente connaturato alla nostra natura umana da
non poter essere rimosso senza danno alla natura umana stessa. Non ha
una sua piena realizzazione concreta. Nella sua astrattezza indica il fattore
di cui possiamo cogliere solo le conseguenze, mai l’origine o qualsiasi
forma, sia pur lontana, di ‘incarnazione’ e quindi di materializzazione dello
stesso. Il ‘limite’ è un concetto archetipico, frutto della stessa finitudine
dell’uomo. A lui preesiste, in quanto ne determina l’orizzonte di vita e la
sua pedagogia ci riporta alla concezione della nostra essenza di uomini.
Disponiamo nello spazio della vita di un tempo e un limite. Nella stessa
misura, però, abbiamo infinite possibilità di giocarci il nostro tempo e il
nostro limite. Nello stesso momento, però, la nostra mente ha come limite
alla sua capacità di immaginare quella della nostra percezione. La nostra
capacità di immaginazione in sostanza trova un limite nel fatto che siamo
capaci di ‘fantasticare’ solo nel limite degli oggetti a disposizione dei
nostri sensi. Quando ‘immaginiamo’ qualcosa non facciamo altro che
‘ricombinare’ elementi del nostro percepito quotidiano. Per paradosso se
riuscissimo a concepire qualcosa di infinitamente diverso da ciò che
possiamo vivere quotidianamente dovremmo arrenderci, comunque, di
fronte al limite intrinseco della sua incomunicabilità. Semanticamente non
sapremmo come esprimere ciò che abbiamo immaginato e, anche qualora
riuscissimo a farlo, mancherebbe una semantica condivisa con i nostri
interlocutori tale da rendere intellegibile il nostro ‘immaginato’. Si gioca
tra questi paletti la nostra avventura umana: il limite, la nostra percezione
di finitudine temporale e la limitata capacità di percezione di tutto ciò che
tra questi due ‘limiti supremi’ continuamente scorre. Anche l’arte soggiace
alle perentorie esigenze di questo pilastro della finitudine umana. Non se
ne salvano nemmeno gli artisti. L’unica capacità in più che ha un’artista
non è quella di sfuggire a tutto questo, ma semmai quella di saper
fermare l’occhio su alcuni particolari e, a volte, cogliere degli ‘spiragli’,
degli spazi, delle fenditure attraverso cui arriva al suo ‘occhio’ qualcosa di
nuovo, di diverso che misteriosamente sa sfuggire alle leggi del limite.
Questo qualcosa di nuovo diventa una nuova dimensione temporale che
l’arte consente di dispiegare infinitamente oltre l’inconoscibile. È però
nuovamente in questo infinito contrasto che ogni giorno ci accorgiamo di
avere veramente un limite. E chi è riuscito a varcare le colonne d’Ercole
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attingendo all’ignoto, all’oltre, ecco che diventa superuomo. Il prezzo
altissimo da pagare per aver osato tanto è la vita, ma, forse, ne è valsa la
pena. Un folle volo…
Il suo è un folle volo, sospinto ed alimentato dall’ardore di conoscenza.
Meta: l’inconoscibile. 4
Ulisse, come Dante, è un eroe “del viaggio”, ha sete di confini, dell’”oltre”,
di spazi proibiti. Giunto al limite estremo , fissato dall’esistenza e
dall’umana saggezza alla capacità di penetrazione dell’uomo non rinnega
la sua sete, non piega il desiderio di conoscere che intrama il fondo del
suo essere, resta fedele all’ansia che ha mosso l’intera sua ricerca,
decidendo così di non fermarsi davanti «a quella foce stretta / dov’Ercule
segnò li suoi riguardi / acciò che l’uom più oltre non si metta».
"O frati", dissi "che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".
“Questo canto è sulla composizione del sangue umano”, che contiene in
sé il sale dell’oceano: la brama d’infinito, di inconoscibile è un impulso
intrinseco nella natura umana. Attraverso il “suo” Ulisse, Dante
compirebbe dunque una schietta esaltazione del desiderio, una
valorizzazione incondizionata dell’aspirazione della ragione, della volontà
di conoscere, e stabilirebbe nella fedeltà a questa istanza lo spartiacque
tra l’umano e il disumano. Ma il suo “volo” è folle, destinato a fallire, 5
perché «desiò del mondo veder troppo» e per questo suo voler “trapassò
il segno”. Un vortice inghiotte il suo eccesso di magnanimità, la sua
superbia che lo ha condotto a sfidare Dio. I limiti si ristabiliscono dopo
essere stati violati “infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”.
L’alto volo di Dante oltre i limiti umani
Un volo alto, voluto da Dio. Un percorso ascensionale che lo conduce al
cielo, illuminato dalla “gloria di Colui che tutto move”. Non ne ha la
percezione fisica, per cui non è possibile indicare con precisione il
momento di distacco dalla Terra, ma ha invece –guardando lo splendore
degli occhi di Beatrice- la straordinaria percezione interiore, non
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manifestabile verbalmente, di aver mutato condizione, oltrepassando lo
stato umano: di essere “trasumanato”.
per verba
Trasumanar significar
non si poria; però l'essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba.
S'i' era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che 'l ciel governi,
tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti.
Il poeta non può alludere a questa nuova condizione “per verba”, solo
attraverso miti, similitudini, metafore, può cercare di tratteggiare a
contorni sfumati l’immagine dell’eterno, della perfezione, dell’infinito
nell’immaginario umano. La mente attraverso la conoscenza del divino
esce da se stessa (excessus mentis) perdendosi nella profondità abissale
di Dio: è l’estasi che annebbia la mente ed è razionalmente inesprimibile
“appressando sé al suo disire/ nostro intelletto si profonda tanto / che
dietro la memoria non può ire”. Dante “trascende i corpi levi” violando le
leggi della fisica, e questo suo “alto volo” reso possibile da “colei che ti
vestì le piume”, è voluto da Dio. L’immagine dell’eterno si disvela a Dante,
i suoi occhi fissano il sole più di quanto sia possibile ad un essere umano,
riesce così a “toccar lo fondo” nella rarefatta atmosfera paradisiaca, dove
non c’è spazio per i limiti.
Il varco: una maglia rotta nella rete
“Il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità”,
quello spiraglio d’infinito per non soffocare dietro l’erto muro della
prigionia esistenziale, quel «filo» d'Arianna che conduca fuori dal labirinto,
che permetta di dipanare il gomitolo inestricabile di una vita in cui
«s'affolla / il tedio»… ecco, questo cerca il poeta, un varco. Ma questo non
gli si apre: al massimo egli può nutrire “l’avara speranza” che altri riesca
dove lui incontra lo scacco “ma taluno sovverta ogni disegno/ passi il
varco, qual volle si ritrovi”. E forse un mattino, andando in un’aria di
vetro, si compirà il miracolo: un’epifania negativa, il nulla, il vuoto, che si
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cela dietro la fenomenologia delle apparenze. La prigionia nei limiti
dell’esistenza si manifesta soprattutto nell’eterno ritornare del tempo su
stesso, nella riproposizione di “giostre d’oro troppo uguali”, dei minuti
“eguali e fissi come i giri di ruota della pompa”. L’uomo che “volteggia su
una reliquia di vita” , è imprigionato in una condizione esistenziale
inaridita e impoverita, senza possibilità di scampo: e così nel suo immoto
andare, nel suo dimenarsi in una realtà inautentica, l’anima si frantuma, e
diventa “informe”. Quel che resta è un’inquietudine senza nome. Un uomo
in limine.
In limine
Godi se il vento ch' entra nel pomario
vi rimena l' ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquario.
Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell' eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.
Un rovello è di qua dall' erto muro.
Se procedi t' imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.
Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l' ho pregato, - ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine...
Meriggiare pallido e assorto
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare 8
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Tra le mura invalicabili della natura, e le strette trame dell’esistenza, un
viluppo di memorie giace ingrigito, passato, invecchiato, spento,
segnando il continuo dissolversi della vita e il perdurare solo di angosce
perduto.
come il tempo Forse è ancora possibile incontrare un evento
insperato, inatteso che porti la salvezza; ma questo potrà essere soltanto
il ritrovamento d’una maglia rotta che consente di fuggire da una vita in
autentica, ferma come un destino. Il poeta parla a un’immagine di donna
viva nella sua coscienza; per lei invoca la salvezza, di cui dispera per sé.
Fuor di metafora: soltanto l’amore può rompere la catena di atti e gesti
vani e in autentici che chiamiamo vita; ma esso è ancora una possibilità
per la donna, non per il poeta, che non sa o non può trovare la forza per
un riscatto.
Nel meriggiare pallido e assorto, un momento di sospensione quasi
assoluta, in cui la vita sembra essersi cristallizzata nelle proprie forme e
parvenze, in un colloquio muto fra l’uomo e le cose. Quel pullulare di
forme e figure spalmate sul mondo non s’aprono all’uomo, la natura vive
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in se stessa, chiusa nella propria realtà incomunicabile. Essa è un tramite,
verso l’altro, verso un qualcosa che resta, alla fine, misterioso e
inconoscibile, crudele nel suo rifiuto di dare risposte. Il “sole che abbaglia”
è luce che non disvela ma stordisce, annebbia i sensi con la sua intensità.