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Storia dell'arte: Vincent Van Gogh (Campo di grano con volo di corvi)
Inglese: Jude the obscure; Thomas Hardy
IL SUICIDIO IN ITALIA DALL'OTTOCENTO A OGGI
In Italia, la raccolta sistematica dei dati riguardanti il suicidio a livello nazionale, che oggi ci
perviene da fonti come l'Istat, l'Oms o fonti sanitarie e giudiziarie, risale al 1864 mentre
quella sui tentati suicidi è invece divenuta obbligatoria solo dal 1955.
Il periodo storico dev'essere necessariamente diviso in due parti (dall'Unità d'Italia alla
seconda guerra mondiale e dall'ultimo conflitto ai giorni nostri) in quanto tra questi due
periodi c'è stata una netta diminuzione dei casi di suicidio.
DALL'UNITA' D'ITALIA ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE
L'andamento dei tassi di suicidio, nel periodo di tempo compreso tra l'Unità d'Italia e la
seconda guerra mondiale, è in crescita costante. Infatti i valori bassi -intorno a 4 per
100.000 abitanti- degli anni intorno all'Unità aumentano progressivamente fino a
raggiungere, all'inizio del primo conflitto mondiale, un tasso più che doppio rispetto a
quello iniziale. Si può però notare che con l'inizio della guerra, questa tendenza si inverte.
Il fenomeno è riscontrabile in generale nel contesto internazionale: le statistiche di molti
altri paesi dimostrano infatti che una guerra si accompagna a un calo assai evidente dei
suicidi. Ciò è riscontrabile nella prima guerra mondiale, ma anche in occasione degli altri
conflitti di questo secolo.
Le ipotesi interpretative di questo fenomeno sono molteplici. Anzitutto occorre riproporre la
questione dell'affidabilità delle fonti: se infatti i valori sono sottostimati in tempo di pace, è
ovvio ritenere che si possano registrare ulteriori difficoltà ed errori in tempi in cui
l'accuratezza delle statistiche non è certo la preoccupazione principale del governo di un
paese belligerante. Anche la componente psicologica può avere un'attinenza diretta con
questo fenomeno: non si tratta tanto di un “effetto distrazione” che un evento catastrofico
può indurre nelle dinamiche personali, quanto invece del fatto che questo, investendo
l'intera comunità, tende a sottrarre la persona dalla percezione della calamità come sorte
individuale. Tutto ciò, paradossalmente, può quindi contribuire a stabilire nuovi legami
sociali e far scattare meccanismi di solidarietà; di aiuto e di sostegno reciproco: proprio nel
momento in cui il rapporto fra gli uomini sembra essere negato dall'odio ci si può sentire
meno soli.
Del resto è noto che le vicende che hanno comportato carichi psicologici estremi non
inducono necessariamente un calo delle resistenze individuali, ma, al contrario, le
possono stimolare, almeno in un primo periodo. Le vicende dei deportati nei campi di
concentramento nazisti confermano che l'esposizione diretta e prolungata all'esperienza
traumatica non determina necessariamente il desiderio di sopprimersi. Dal trauma iniziale
l'internato può passare da una fase di “adattamento” e, solo successivamente, a una
“regressiva”.
Un'altra ipotesi interpretativa riguarda lo studio del comportamento dell'uomo in una
situazione in cui viene evocata e stimolata la etero-aggressività. Un evento che provoca
un'esasperata conflittualità (come appunto una guerra) può favorire, in un individuo con
sviluppate valenze auto-aggressive, una riconversione del meccanismo psicologico di
autoaccusa e di colpevolizzazione verso l'esterno, da sé verso l'altro: le spinte aggressive
da auto-dirette diventano eterodirette. In questo modo potrebbero essere spiegati molti atti
eroici individuali compiuti in tempo di guerra. Le complesse dinamiche psicologiche che
possono portare al suicidio subirebbero quindi profonde trasformazioni proprio durante
quei periodi nei quali l'individuo si trova esposto a condizioni limite come quelle ora
descritte.
Tuttavia, eventi stressanti che coinvolgono intere popolazioni non esauriscono i loro effetti
inibendo le dinamiche auto-aggressive ed esasperando quelle etero-aggressive. Studi
recenti, effettuati sulle popolazioni reduci da esperienze traumatiche come la guerra fra
Israele ed Egitto, hanno dimostrato che conflitti emozionali intensi, terminata l'esperienza
limite, vengono ben presto riconvertiti su obiettivi “interni”, suscitando sensi di angoscia,
vuoto interiore, perdita d'identità: tutto ciò può comportare un aumento dell'intenzionalità
suicida.
Negli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale, il numero dei suicidi è
aumentato fino a raggiungere un nuovo apice verso la fine degli anni venti. Anche in
questo caso le ipotesi esplicative sono diverse: si è spesso pensato a un possibile
rapporto fra l'aumento del numero di suicidi e l'avvento al potere politico di forme di
totalitarismo, quali appunto il fascismo nel nostro paese: in questo senso, quindi, il suicidio
diverrebbe un disperato tentativo di opporsi alla restrizione della libertà, all'offesa e alla
negazione dei diritti individuali. Una parziale conferma di questa ipotesi è fornita
dall'analisi del fenomeno in Germania durante l'ascesa del nazismo e in Spagna dopo la
guerra civile: nel primo caso si può notare che l'aumento dei suicidi durante gli anni trenta
è stato del 20%, mentre in Spagna è addirittura quasi raddoppiato. L'ipotesi, se presa
singolarmente, sembra alquanto debole anche perché è confutabile dagli stessi dati che
descrivono il fenomeno: l'aumento dei suicidi riscontrabile in Italia negli anni venti è infatti
del tutto simile a quello di altri paesi occidentali che pure non hanno subito una dittatura.
Tale crescita, inoltre, si è ripetuta, sia in Italia sia altrove, anche dopo la caduta dei regimi
totalitari, seppure in misura meno accentuata. Occorre infine ricordare che alcuni dei paesi
dell'Europa orientale hanno denunciato dei tassi di suicidio estremamente alti anche in
periodi storici precedenti alla divisione operata dal patto di Jalta.
Il confronto dei dati italiani con quelli degli altri paesi induce, piuttosto, a formulare un'altra
ipotesi, compatibile con la precedente: il rapporto fra suicidio e crisi economica. La
relazione fra salute mentale e sviluppo economico è stato oggetto della ricerca condotta
dall'economista americano Brenner che ha dimostrato una significativa correlazione fra
crisi economica e andamento di alcuni indici riguardanti le attività dei servizi psichiatrici
(ovvero il numero e la durata dei ricoveri negli ospedali psichiatrici). Da questa indagine è
emerso che un periodo di depressione economica è correlabile a una crescita del numero
delle ospedalizzazioni psichiatriche. Ciò significa semplicemente che la popolazione tende
a rivolgersi più frequentemente alle strutture psichiatriche disponibili. Può quindi accadere
che un evento esterno possa essere vissuto come una carenza individuale che, però,
possa espandersi fino a investire ampi strati della popolazione.
Risulta quindi difficile non pensare ad una crisi economica, come quella culminata con la
bancarotta di Wall Street nel 1929. E' noto che in quegli anni gli Usa detenevano
l'egemonia economica ed erano creditori internazionali. In particolare con l'Europa si
stabilisce una Triangolazione economica che vede, nell'immediato dopoguerra, molti paesi
dipendere economicamente dall'America. Il dollaro diventa la moneta degli scambi
internazionali e la borsa di New York affianca Londra come piazza delle maggiori
transizioni finanziarie. Con il 1927, però, inizia il fenomeno delle speculazioni in Borsa.
Quest'avvenimento porta alla compravendita delle azioni che culmina, dopo una
successione di “sintomi”, il 29 ottobre 1929 con il crollo del valore delle azioni. Inizia una
reazione a catena. Precipitano gli speculatori e i mediatori, falliscono tra il 1929 e il 1931
più di 5000 banche, c'è una caduta delle società con il successivo fallimento delle industrie
e la caduta verticale della produzione industriale, infine, la crisi sociale culmina con
13milioni di disoccupati nel 1932. L'analisi del numero dei suicidi negli USA conferma la
correlazione tra suicidio e economia in quanto il tasso di suicidi per 100.000 abitanti è
passato da 12 del 1925 a 17,4 nel 1932, segnando la più alta e rapida escursione di
questo fenomeno nella storia americana. La deduzione che se ne può trarre è che dunque
quell'evento sia stato vissuto, a livello individuale e collettivo, come ben più rovinoso di
una catastrofe finanziaria: una crisi del mondo occidentale, nella quale il fattore economico
precipitante si è unito al presagio di una tragedia planetaria. Tuttavia, è necessario
affermare che non è tanto l'evento in sé (sia esso economicamente positivo che
socialmente minaccioso) a determinare la crescita del fenomeno, quanto il fatto, come
afferma Durkheim in Le suicide. Etude de sociologie, che la crisi in quanto tale comporta
comunque “un grave perturbamento dell'ordine collettivo che, a sua volta, diminuisce
l'immunità dell'individuo nei confronti dell'inclinazione al suicidio”.
DAL SECONDO DOPOGUERRA AI GIORNI NOSTRI
In questi ultimi anni l'andamento del suicidio in Italia conferma la propria caratteristica di
discontinuità.
Durante la seconda guerra mondiale si registrano valori modesti: nel 1944 il tasso è di 5
suicidi per 100.000 abitanti, il valore minimo dal 1864 ad oggi. Tuttavia, negli anni
successivi i tassi riprenderanno a salire fino al 1956. Questo fenomeno si spiega tramite il
riaffioramento delle angosce e dei conflitti psicologici che con la guerra erano stati
attenuati o deviati verso fattori esterni. Dopo la metà degli anni '50 queste traumatiche
lacerazioni trovano una momentanea tregua: allontanati gli orrori della guerra anche
l'equilibrio psicologico sembra diventare meno precario. In quell'arco di tempo, infatti, il
numero dei suicidi decresce: da un tasso di 6.7 per 100.000 abitanti nel 1956 si passa al
5.1 nel 1966.
Quegli anni segnano la ripresa del processo di modernizzazione del paese: si rialzano gli
indici di occupazione, migliorano le condizioni igienico-sanitarie permettendo più
ottimistiche speranze di allungamento della vita e di abbattimento dei tassi di mortalità
infantile; si innalza la scolarità media che apre nuove opportunità di integrazione sociale
per larghe fasce di popolazione. Il boom economico però ha comportato problemi sociali
come la diffusione dell'emigrazione dal meridione verso il nord-ovest del paese e dalle
campagne verso le grandi aree urbane. Dalla metà degli anni sessanta i valori riprendono
a salire inizialmente, fino al '75-76, in modo graduale, poi con una rapida accelerazione:
se si confronta il quinquennio 1973-77 con quello 1983-87, si può notare che la crescita è
stata del 47,6%.
Dal 1987 al 2007 la situazione è stata altalenante.
Lo si può notare in questo grafico.
uomini donne
Sempre prestando attenzione a questo grafico si può constatare che l'incidenza del
suicidio in rapporto ai sessi riguarda più frequentemente i maschi che le femmine. Tuttavia
il rapporto non è costante nel tempo: mentre nel secolo scorso il rapporto si è mantenuto
intorno a 4 maschi per ogni femmina, a partire dall'inizio del Novecento questa distanza
tende a colmarsi. Già negli anni immediatamente precedenti il primo conflitto mondiale era
sceso a 3 per 1 e così rimarrà fino al termine della seconda guerra mondiale, per diminuire
ulteriormente nel periodo successivo.
Un altro aspetto interessante riguarda la distribuzione geografica del suicidio. Così come
accade per il rapporto tra i sessi, anche rispetto alla distribuzione geografica si possono
notare fenomeni contrastanti. Nel meridione d'Italia il suicidio è meno frequente che al
centro e al nord e questo divario si mantiene costante durante tutto il periodo esaminato: i
tassi del centro-nord registrano un valore doppio rispetto a quello del sud e delle isole. In
Italia la regione con il numero più basso di suicidi è la Campania con 2.6 suicidi per
100.000 abitanti, e la più alta in Fruli-Venezia Giulia con 9.8 per 100.000 abitanti, seguita
da Valle d'Aosta e Trentino-Alto Adige.
Dando uno sguardo al mondo, le percentuali maggiori di suicidi si osservano in
Danimarca, Giappone, Svezia e Austria.