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Italiano - Mastro Don Gesualdo di Verga
Italiano - Il piacere di D’Annunzio
Latino - La Cena Trimalchionis di Petronio
Greco - Lo scudo di Menandro
Filosofia - Schopenhauer
Storia - Il regime nazista
Inglese - The picture of Dorian Gray di Oscar Wilde
Astronomia - I terremoti
PRESENTAZIONE
I 7 vizi capitali rappresentano i punti deboli dell’essere umano. Essi costituiscono delle
malattie dello spirito legate ad una certa inclinazione dell’atteggiamento umano che ripete
costantemente le medesime azioni. Lo stesso Aristotele li definisce “gli abiti del male”
poiché diventano per l’uomo una sorta di “abito” che lo contraddistingue. La chiesa
occidentale inoltre chiarifica il termine “vizio” come atto contrario alla legge divina e
mortificazione della natura umana. Lo studio di diversi autori e personaggi ha permesso di
analizzare svariati personaggi mettendo a fuoco le loro debolezze e la semplicità con la
quale essi stessi si lasciano irretire dai vizi. Mi è sembrato dunque interessante mettere
sotto i riflettori personalità tipiche appartenenti ad ogni singolo male. Le figure di Mastro-
Don Gesualdo e di Mazzarò difatti esemplificano senza dubbio l’avarizia, l’irrefrenabile
desiderio di beni temporali, il quale fa sì che le ricchezze vengano a far parte dell’indole
umana stessa. Lo stesso autore greco Menandro nella sua commedia intitolata “Lo scudo”
pone in primo piano Smicrine, il quale per mezzo di continui stratagemmi tenta invano di
impadronirsi dell’eredità di Cherostrato creduto morto. Il vizio capitale della gola trova
spazio nella “Cena Trimalchionis” di Petronio, dove il cibo diventa il fulcro di una sfrenata
esibizione; mentre il protagonista del libro “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde traccia
i lineamenti di un uomo invidioso del suo stesso ritratto e dunque divorato da un’invidia
che lo porterà al suicidio. La figura hitleriana, rappresentazione di uno spadroneggiamento
incontrollato, diventa invece il simbolo di una superbia inconcepibile e mai vista. Nel
campo dei lussuriosi è possibile collocare un autore come D’Annunzio, cardine
dell’estetismo e del piacere sessuale, frequentatore dei salotti mondani e padrone di una
vita che rispecchia a tutti gli effetti una opera d’arte. Il mondo come volontà ed il concetto
di noia espressi da Schopenauer analizzano l’inerzia di vivere, la malinconia, l’accidia che
pervade l’uomo. Non da meno è la figura dell’inetto presentata dal romanzo “Una vita” di
Svevo, dove l’autore mette in luce la psicologia pessimistica del protagonista. Per ultimo, il
vizio dell’ira può essere analizzato in senso traslato e quindi inteso come “ira della natura”,
che attraverso fenomeni quali i terremoti si scatena causando gravi distruzioni e alte
perdite di vite umane. Accidia
Svevo – Una vita
Un secondo esempio di questo vizio è rappresentato dal romanzo “Una vita” di Svevo. Esso è un
romanzo tardo-naturalistico; difatti, la narrazione è in terza persona ed è presenta una descrizione
del personaggio e della situazione molto accurata. Tuttavia questo romanzo si allontana dai
modelli tradizionali rappresentando personaggi mediocri come l’impiegato, il provinciale oppure
situazioni modeste. L’autore si presenta quindi come un anti-D’Annunzio, lontano dalle situazioni
e dai personaggi di tutt’altro stampo del “Piacere”. Il protagonista, Alfonso Nitti, si rispecchia nella
figura dell’inetto. Egli è un modesto impiegato di una banca a Trieste. Entrato nel salotto culturale
di Annetta, figlia del proprietario della banca, ha l’occasione di sposarla ma si ritira con una scusa.
Successivamente, anche la situazione lavorativa non è da meno poiché è costretto ad accettare
una posizione di minore responsabilità. Sfidato a duello dal fratello di Annetta, si uccide. Alfonso
Nitti rappresenta dunque un personaggio mediocre, uno sconfitto, un predestinato alla sconfitta.
Anche l’Andrea Sperelli dannunziano lo era stato, ma se quello aveva vissuto una vita in balia
dell’estetismo questo non è altro che un poveruomo come altri. Il motivo dell’inettitudine diventa
centrale nel romanzo moderno: si passa da un romanzo verista, intento a osservare la realtà, ad
un romanzo che esplora lo scarto tra coscienza e realtà esterna, il quale necessita di un nuovo
personaggio, l’inetto.
L’inettitudine, cioè l’essere privi di ogni capacità, svuota a tal punto l’uomo da permettergli di
accogliere ogni esperienza con indifferenza. L’inerzia, benché comporti un atteggiamento passivo
e rinunciatario, è la reale fonte delle scelte e dei desideri dell’uomo. Lo stesso Zeno Cosini,
protagonista del romanzo “La coscienza di Zeno” è un inetto, uno sconfitto ed è lui stesso ad
ammetterlo affermando “ero un uomo finito”. Ma anche l’inettitudine, prima o poi, porta da qualche
parte. Zeno, dopo essere stato rifiutato da Ada e da Alberta, sposa Augusta, alla quale non aveva
mai pensato. Per Zeno l’ironia acquista un ruolo importante poiché mitiga i dolori e le sofferenze,
governa le insufficienze e i limiti. Essa è la forma dell’ipocrisia, la quale domina i rapporti sociali e
istiga a non prendere le cose troppo seriamente. Grazie all’atteggiamento ironico Zeno affronta la
realtà. L’incapacità di attribuire un giudizio porta a contemplare le stranezze e le bizzarrie della
vita; “originalità” e “originale” sono i punti chiave del romanzo poiché mettono in luce tutte quelle
inattese ed imprevedibili sorprese che la vita ci riserva. Dopotutto, come Zeno non
prende totalmente sul serio la sua vita ma scherza sui suoi stessi limiti così Svevo fa lo stesso da
scrittore utilizzando giochi di specchi e sdoppiamenti di piani. L’esperienza dell’inettitudine
Accidia
sveviava non rimane tuttavia legata all’Italia. Pochi anni dopo, Musil pubblica “L’uomo senza
qualità” di cui ne fa protagonista Ulrich facendo così diventare l’inettitudine un tema di livello
europeo. Rispetto a questo protagonista però, Zeno appare molto più privo di vitalismo, rinuncia a
qualsiasi azione, è un inetto a tutti gli effetti.
Avarizia
Verga – Mastro Don Gesualdo
Con il termine avarizia intendiamo un morboso attaccamento ai beni temporali, un continuo e
infinito desiderio di possesso che non permette all’uomo di separarsi dai proprio averi al fine di
una conservazione di ciò che già egli possiede. Ma talvolta tale ricchezza può diventare sinonimo
di maledizione come accade al personaggio verghiano di Mastro Don Gesualdo. Il romanzo vede
come protagonista un manovale, Mastro Don Gesualdo, il quale attraverso il lavoro e la fatica
accumula ingenti ricchezze, diventa proprietario terriero e acquista il titolo nobiliare di “don”. Già il
titolo del romanzo raccoglie in sé i tratti determinanti che vanno a formare l’intera storia. Il
protagonista, all’inizio povero e senza beni, crea un’impresa edile e, una volta acquisita una
grande ricchezza, assume il titolo di “don”. E’ però impossibile cancellare il proprio passato, perciò
Gesualdo finisce per essere comunemente chiamato “mastro-don”, formula che riassume in sé sia
la sua nobiltà attuale sia la povertà vissuta in passato. La sua ascesa economica e sociale costa
una dura fatica per il protagonista la quale viene descritta nel primo capitolo del romanzo in cui
Gesualdo si reca a sorpresa in un cantiere per un controllo: è una fatica per la quale Gesualdo si
danna l’anima, egli stesso si mette all’opera per garantire un buon operato. Tuttavia tale
accanimento nei confronti della ricchezza si trasforma in un destino tragico per il protagonista. Egli
è difatti costretto a rinunciare a qualsiasi affetto. Il sentimento che il Mastro prova per la serva
Diodata è palese ed è evidenziato dal rapporto affettuoso che si instaura tra loro quando
Gesualdo giunge alla proprietà della Canziria. Tale luogo è l’unico in grado di donare un po’ di
pace e serenità al protagonista, è l’unico ambiente dove il protagonista si sente a suo agio.
Nonostante ciò, la bramosia di una continua ascesa costringe Gesualdo ad abbandonare l’idea di
un matrimonio amoroso per quella di un matrimonio di convenienza; l’unione con Bianca Trao, di
famiglia nobile, permetterà l’entrata nell’alta società. Tale destino tocca anche alla figlia Isabella,
la quale innamorata del cugino è però costretta dal padre a sposare un aristocratico palermitano.
Ma le sofferenze e i dolori si rendono evidenti nell’ultima parte del romanzo, dove il duca di Leyra
consuma l’ingente ricchezza del Mastro ormai afflitto da una malattia, il protagonista si ritrova solo
e disprezzato per le sue origini ed il rapporto con la figlia Isabella è ormai compromesso. La sua è
una morte infelice, triste, segnata dalla disperazione per il patrimonio che viene scialacquato sotto
i suoi stessi occhi e dalla tristezza della figlia. Con ella Gesualdo parlerà in fin di vita
raccomandandole il proprio patrimonio e i figli avuti da Diodata ma tra loro v’è uno scarto
Avarizia
incolmabile: lui è Motta, lei è figlia di Bianca, è una Trao, superba, diffidente. Il “Mastro Don
Gesualdo” è sottoposto ad una legge ciclica secondo la quale chi sale alla fine è destinato a
cadere e fa inoltre parte del “Ciclo dei vinti”. Verga nutre una sfiducia nel progresso e
nell’evoluzionismo e crede che gli unici personaggio di cui valga la pena narrare sono i vinti, gli
sconfitti. L’esperienza letterale di Verga è inoltre caratterizzata da un bisogno di verità alla cui
base v’è una revisione della sua visione del mondo. Egli attribuisce una maggiore importanza
all’ottica, al modo di vedere le cose. Il mondo popolare è dominato da due leggi che regolano ogni
rapporto. La prima, la necessità, è espressa dall’impossibilità di scegliere una diversa via e ciò
rappresenta una barriera tra i popolani e i borghesi; la seconda, il caso, rappresenta le
circostanze del fato che talvolta può svolgere un ruolo decisivo. Per studiare un mondo così
diverso e lontano, l’ottica verghiana si serve di due principi: il principio di lontananza, intesa sia a
livello geografico che psicologico, afferma che è necessario studiare l’oggetto con la mente,
stando lontano; mentre il principio di rimpicciolimento consiste nell’esaminare al microscopio ogni
singolo personaggio per metterlo meglio a fuoco e nel porsi alla loro stessa altezza, calandosi nel
loro mondo. Lussuria
D’Annunzio – Il piacere
Con il termine lussuria intendiamo l’abbandono al piac