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Il Verismo italiano Giovanni Verga
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Il Realismo in letteratura: Naturalismo e Verismo
Il Naturalismo francese e il Verismo italiano(che ebbero i loro maggiori
Émile
rappresentanti rispettivamente in Zola e Giovanni Verga) si fondarono sulla
volontà di rappresentare il vero e di far parlare i <<fatti>>, anche quelli più in
significativi o crudi. Comparvero nei romanzi, come protagonisti, contadini,
pescatori, minatori, tutti ugualmente dominati dal bisogno e dall’ignoranza. Per
rappresentare la realtà in modo oggettivo, lo scrittore doveva <<tirarsi indietro>>,
eliminare ogni giudizio personale, al punto che <<l’opera sembri essersi fatta da
sé>>, come diceva Verga. Questa presunta impersonalità dello scrittore era però
soltanto un fatto tecnico-stilistico e non significava affatto la rinuncia a comunicare
le proprie idee, che trasparivano comunque dai fatti narrati.
Il Verismo italiano Giovanni Verga
Si sviluppa a Milano, la città dalla vita
culturale più feconda, in cui si raccolgono
intellettuali di regioni diverse; le opere
veriste però rappresentano soprattutto le
realtà sociali dell'Italia centrale, meridionale
e insulare. Così la Sicilia è descritta nelle
opere di Giovanni Verga, di Luigi Capuana e
di Federico de Roberto. Il primo autore
italiano a teorizzare il verismo fu Luigi
Capuana, il quale teorizzò la "poesia del
vero"; cosi Verga, che dapprima era
collocabile nella corrente letteraria
tardoromantica (era stato soprannominato il
poeta delle duchesse e aveva un successo
notevole) intraprese la strada del verismo con la raccolta di novelle Vita dei campi e
Novelle rusticane e infine col primo romanzo del Ciclo dei Vinti, I Malavoglia, nel
1881. In Verga e nei veristi, a differenza del naturalismo, convive comunque il
desiderio di far conoscere al lettore il proprio punto di vista sulla vicenda, pur non
svelando opinioni personali nella scrittura. Giovanni Carmelo Verga nacque a
Catania il 2 settembre 1840 e morì a Catania il 27 gennaio 1922 ed è stato uno
scrittore e drammaturgo italiano, considerato il maggior esponente della corrente
La data di nascita di Giovanni Verga non è specificata ma si
letteraria del verismo. 11
Michele Tenace
pensa che sia nato o il 31 agosto 1840 o il 2 settembre 1840 da una famiglia di
piccoli proprietari terrieri: fu registrato all'anagrafe di Catania. Il padre, Giovanni
Battista Catalano, era di Vizzini, dove la famiglia Verga aveva delle proprietà, e
discendeva dal ramo cadetto di una famiglia alla quale appartenevano i baroni di
Fontanabianca; la madre si chiamava Caterina Di Mauro e apparteneva ad una
famiglia borghese di Catania.
Una lingua vicino al parlato
Per dar voce a questo mondo di personaggi umili e spesso primitivi, in grado di
parlare solo il dialetto, Verga si servì di una lingua ancor più libera e vicina al parlato
di quella di Manzoni, ricchissima di espressioni e costruzioni che ricalcavano l’uso
siciliano. Per questo motivo la prosa di Verga sembra aderire perfettamente alla
realtà che rappresenta. La roba
di Giovanni Verga
Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare
morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di
Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di
Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto
il cielo fosco dal caldo, nell'ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente
nell'immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere
canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: -
Qui di chi è? - sentiva rispondersi: - Di Mazzarò -. E passando vicino a una fattoria
grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi
accoccolate all'ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per
vedere chi passava: - E qui? - Di Mazzarò -. E cammina e cammina, mentre la malaria
vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all'improvviso l'abbaiare di un cane, passando per
una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli
pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al
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Michele Tenace
vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: - Di
Mazzarò -. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l'erba non spuntava mai,
e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il
sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si
incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal
maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell'acqua scura; e si
vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie
biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle
gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella
valle. - Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che
tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col
volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell'assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse
disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla
pancia. - Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato
un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come
facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch'era ricco
come un maiale; ma aveva la testa ch'era un brillante, quell'uomo.
Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima
veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll'acqua, col
vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si
rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano
dell'eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato
in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che
eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il
berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era
anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di
seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga -
dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più
di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che
mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di
tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta
e in furia, all'impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in
mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i
sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al
tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della
mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne
producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di
quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne.
Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata
anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto.
13
Michele Tenace
Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando
andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel
che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena
curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi
un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non
fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le
lunghe file dei corvi che arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano
più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a
marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono
contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei
villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la
vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito
di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e
l'arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei
denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò
adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano,
non ne perdeva d'occhio uno solo, e badava a ripetere: - Curviamoci, ragazzi! - Egli
era tutto l'anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il re si pigliava
tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta.
Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che
bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò
vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì
d'argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare
la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli
armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva
mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar
strada, e cedere il passo.
Tutta quella roba se l'era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la
notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll'affaticarsi dall'alba a
sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue
mule - egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch'era tutto quello ch'ei
avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che
la sua roba. Quando uno é fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.
Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba
vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il
padrone di Mazzarò, e l'aveva raccolto per carità nudo e crudo ne' suoi campi, ed era
stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti
quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro,
pareva il re, e gli preparavano anche l'alloggio e il pranzo, al minchione, sicché
ognuno sapeva l'ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere
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Michele Tenace
colle mani nel sacco. - Costui vuol essere rubato per forza! - diceva Mazzarò, e
schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la
schiena colle mani, borbottando: - Chi è minchione se ne stia a casa, - la roba non è di
chi l'ha, ma di chi la sa fare -. Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non
mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e
come; ma capitava all'improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con
un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo
schioppo fra le gambe.
In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e
costui uscì prima dall'uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e
infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte
bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era rimasto
altro che lo scudo di pietra ch'era prima sul portone, ed era la sola cosa che non