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Sintesi
Storia
L’età dell’acciaio: il primato di Germania e Stati Uniti
I progressi della chimica: nuovi materiali e conservazione dei cibi
Meccanizzazione del lavoro e produzione in serie
Grandi magazzini e pubblicità
Le esposizioni universali
Le tecniche finanziarie
L’industria elettrica
Letteratura
Il Realismo (seconda metà dell’Ottocento)
La tecnica narrativa del Realismo
Si narrano le condizioni di vita, la miseria, le lotte
Il Realismo in letteratura: Naturalismo e Verismo
Il Verismo italiano Giovanni Verga
Una lingua vicino al parlato
La Roba
Analisi del testo
Ed. artistica
Il macchiaioli
Analisi quadro Giovanni Fattori
Tecnologia
I fenomeni energetici
Lo sforzo e il movimento
Le forme di energia
L’energia termica
La trasmissione del calore
L’energia luminosa
L’energia chimica
L’energia meccanica
Dalla natura
Scienze
Agenti endogeni
La formazione delle montagne
I vulcani
Struttura di un vulcano
Le fasi di un’eruzione vulcani
I materiali emessi dal vulcano
Magma e forma del vulcano
Attivi, spenti e quiescenti
Fenomeni correlati ai vulcani
Geografia
L’America settentrionale
Una società multinazionale
Un’economia avanzata
Canada
Gli antichi insediamenti e la colonizzazione
Il Canada oggi
Un immenso paese ricco di acque
Coste, isole e clima
Distribuzione, flussi migratori, etnie
Lingue, religioni, città
Uno sviluppo razionale
Secondari e terziario
Musica
La storia del Jazz
Il blues
Bebop
Cool Jazz
Free Jazz
Inglese
Queen Victoria
The Victorian age and British Empire
A New Monarchy
Winston Chuchill
Churchill support his people
The alliance
After the War
Francese
L’archittecture passive
L’énergie hydraulique
L’énergie éolienne
La géothermie
Les panneaux solare et photovoltaΪques
La maison bioclimatique
Le puits canadien
Les energie les plus utilisées
Qu’est-ce que je peux faire pour ne pas polluer?
Scienze motorie
L’alcolismo è sempre più diffuso tra i giovani
Un bicchiere di troppo alla guida e la corsa finisce tragicamente
Cosa dice la legge
Gli effetti dell’alcol sulla salute
Estratto del documento

Il Realismo in letteratura: Naturalismo e Verismo

Il Naturalismo francese e il Verismo italiano(che ebbero i loro maggiori

Émile

rappresentanti rispettivamente in Zola e Giovanni Verga) si fondarono sulla

volontà di rappresentare il vero e di far parlare i <<fatti>>, anche quelli più in

significativi o crudi. Comparvero nei romanzi, come protagonisti, contadini,

pescatori, minatori, tutti ugualmente dominati dal bisogno e dall’ignoranza. Per

rappresentare la realtà in modo oggettivo, lo scrittore doveva <<tirarsi indietro>>,

eliminare ogni giudizio personale, al punto che <<l’opera sembri essersi fatta da

sé>>, come diceva Verga. Questa presunta impersonalità dello scrittore era però

soltanto un fatto tecnico-stilistico e non significava affatto la rinuncia a comunicare

le proprie idee, che trasparivano comunque dai fatti narrati.

Il Verismo italiano Giovanni Verga

Si sviluppa a Milano, la città dalla vita

culturale più feconda, in cui si raccolgono

intellettuali di regioni diverse; le opere

veriste però rappresentano soprattutto le

realtà sociali dell'Italia centrale, meridionale

e insulare. Così la Sicilia è descritta nelle

opere di Giovanni Verga, di Luigi Capuana e

di Federico de Roberto. Il primo autore

italiano a teorizzare il verismo fu Luigi

Capuana, il quale teorizzò la "poesia del

vero"; cosi Verga, che dapprima era

collocabile nella corrente letteraria

tardoromantica (era stato soprannominato il

poeta delle duchesse e aveva un successo

notevole) intraprese la strada del verismo con la raccolta di novelle Vita dei campi e

Novelle rusticane e infine col primo romanzo del Ciclo dei Vinti, I Malavoglia, nel

1881. In Verga e nei veristi, a differenza del naturalismo, convive comunque il

desiderio di far conoscere al lettore il proprio punto di vista sulla vicenda, pur non

svelando opinioni personali nella scrittura. Giovanni Carmelo Verga nacque a

Catania il 2 settembre 1840 e morì a Catania il 27 gennaio 1922 ed è stato uno

scrittore e drammaturgo italiano, considerato il maggior esponente della corrente

La data di nascita di Giovanni Verga non è specificata ma si

letteraria del verismo. 11

Michele Tenace

pensa che sia nato o il 31 agosto 1840 o il 2 settembre 1840 da una famiglia di

piccoli proprietari terrieri: fu registrato all'anagrafe di Catania. Il padre, Giovanni

Battista Catalano, era di Vizzini, dove la famiglia Verga aveva delle proprietà, e

discendeva dal ramo cadetto di una famiglia alla quale appartenevano i baroni di

Fontanabianca; la madre si chiamava Caterina Di Mauro e apparteneva ad una

famiglia borghese di Catania.

Una lingua vicino al parlato

Per dar voce a questo mondo di personaggi umili e spesso primitivi, in grado di

parlare solo il dialetto, Verga si servì di una lingua ancor più libera e vicina al parlato

di quella di Manzoni, ricchissima di espressioni e costruzioni che ricalcavano l’uso

siciliano. Per questo motivo la prosa di Verga sembra aderire perfettamente alla

realtà che rappresenta. La roba

di Giovanni Verga

Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare

morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di

Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di

Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto

il cielo fosco dal caldo, nell'ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente

nell'immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere

canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: -

Qui di chi è? - sentiva rispondersi: - Di Mazzarò -. E passando vicino a una fattoria

grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi

accoccolate all'ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per

vedere chi passava: - E qui? - Di Mazzarò -. E cammina e cammina, mentre la malaria

vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all'improvviso l'abbaiare di un cane, passando per

una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli

pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al

12

Michele Tenace

vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: - Di

Mazzarò -. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l'erba non spuntava mai,

e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il

sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si

incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal

maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell'acqua scura; e si

vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie

biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle

gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella

valle. - Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che

tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col

volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell'assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse

disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla

pancia. - Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato

un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come

facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch'era ricco

come un maiale; ma aveva la testa ch'era un brillante, quell'uomo.

Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima

veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll'acqua, col

vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si

rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano

dell'eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato

in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che

eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il

berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era

anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di

seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga -

dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più

di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che

mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di

tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta

e in furia, all'impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in

mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i

sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al

tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della

mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne

producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di

quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne.

Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata

anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto.

13

Michele Tenace

Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando

andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel

che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena

curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi

un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non

fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le

lunghe file dei corvi che arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano

più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a

marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono

contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei

villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la

vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito

di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e

l'arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei

denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò

adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano,

non ne perdeva d'occhio uno solo, e badava a ripetere: - Curviamoci, ragazzi! - Egli

era tutto l'anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il re si pigliava

tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta.

Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che

bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò

vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì

d'argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare

la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli

armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva

mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar

strada, e cedere il passo.

Tutta quella roba se l'era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la

notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll'affaticarsi dall'alba a

sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue

mule - egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch'era tutto quello ch'ei

avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che

la sua roba. Quando uno é fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.

Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba

vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il

padrone di Mazzarò, e l'aveva raccolto per carità nudo e crudo ne' suoi campi, ed era

stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti

quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro,

pareva il re, e gli preparavano anche l'alloggio e il pranzo, al minchione, sicché

ognuno sapeva l'ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere

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Michele Tenace

colle mani nel sacco. - Costui vuol essere rubato per forza! - diceva Mazzarò, e

schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la

schiena colle mani, borbottando: - Chi è minchione se ne stia a casa, - la roba non è di

chi l'ha, ma di chi la sa fare -. Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non

mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e

come; ma capitava all'improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con

un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo

schioppo fra le gambe.

In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e

costui uscì prima dall'uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e

infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte

bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era rimasto

altro che lo scudo di pietra ch'era prima sul portone, ed era la sola cosa che non

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