Sintesi
L’UOMO E LA RICERCA DEL FINE ULTIMO






Ginevra Chialli, V° BC
Liceo Classico “Plinio il Giovane”
a.s. 2014/2015

PREFAZIONE
Più volte, nel corso della composizione di questa tesina mi è stato chiesto cosa fosse il “fine ultimo”: non sono mai riuscita a definirlo con una frase o un termine, a spiegare cosa intendessi con quell’espressione. E’ un concetto all’apparenza filosofico ma che io ho sviluppato anche sotto un aspetto scientifico (la ricerca di una TOE o di un probabile destino dell’universo, “probabile”, perché niente nella scienza è definitivamente certo!): si può dire che il fine ultimo è il significato che gli uomini cercano di dare alla vita, un punto d’approdo, un vago senso d’immortalità in un’esistenza che è di per sé limitata. Credo appunto che sia qualcosa di personale, soggettivo, che ognuno declina secondo le proprie aspirazione o passioni: Dante, ad esempio, riteneva come suo fine, sua aspirazione massima, la vista di Dio; al contrario i fisici nei vari secoli hanno abbandonato qualsiasi inclinazione spirituale per concentrarsi sull’Universo, sulla Fisica, sulla Natura. Ma c’è anche chi, vivendo in un periodo di crisi (la cosiddetta Bella Epoque, ricca e sfarzosa sì, ma piena di contraddizioni) , di incertezze che preludevano alla Grandi guerre, ha negato l’esistenza di qualunque fine, di qualunque senso: Nietzsche e il suo nichilismo, che, come più avanti spiegherò, non è nemmeno l’assoluta negazione di ogni “fine”, o di ogni valore, ma è un punto di partenza per un superamento continuo, un miglioramento incessante.
Infine, questa ricerca a volte approda al suo termine, rimanendo appagata (torno all’esempio di Dante e della sua visione che tanto lo colma, lo riempie di gioia), ma ci sono anche ricerche che sembrano interminabili, in costante divenire e perfezionamento, ma che non per questo perdono bellezza.
Il fine ultimo è il racconto dell’uomo: dei suoi ideali, dei suoi sentimenti più profondi, così come delle sue paure, ad esempio di fronte ad un’ipotetica (ma anche estremamente lontana negli anni!) fine dell’Universo, oppure di fronte ad un Giudizio Universale.
















GRECO


Nell’Apocalisse Giovanni (unanimemente considerato l’autore) dice di aver ricevuto una rivelazione di Gesù Cristo, affidatagli da Dio, “affinché mostrasse ai suoi servi le cose che debbono accadere fra breve”. La sua rivelazione non consiste però nella sola descrizione degli eventi futuri, del giudizio finale e dell’avvento del regno di Dio (spesso infatti viene erroneamente interpretato il termine “Apocalisse” come “catastrofe finale”) ma tratta anche delle “cose presenti”, in particolare nelle lettere alle sette chiese d’Asia; in queste rimprovera ciascuna comunità per degli errori commessi, che siano l’idolatria, il lassismo, il seguire falsi profeti e le esorta a redimersi perché “il tempo è vicino” e al “vittorioso” saranno concesse delle ricompense, dei premi per la sua fedeltà. L’autore entra poi nel vivo della sua esperienza mistica ed ha una serie di visioni riguardanti le punizioni inflitte da Dio a coloro che non hanno seguito il suo messaggio, contenute nel libro chiuso da sette sigilli che solo Gesù può aprire. Questo libro contiene non solo i decreti divini nei confronti dei peccatori, ma tutta la rivelazione del futuro. I primi quattro sigilli vedono l’intervento dei quattro esseri viventi, i quali, capi vigili delle nazioni, danno via libera contro di esse a quattro cavalieri, personificazioni allegoriche di quattro flagelli: la guerra di frontiera, la guerra civile, la carestia e la pestilenza. Dopo che, all’apertura del quinto sigillo, i martiri chiedono giustizia, Giovanni ha la visione della fine del mondo nel sesto sigillo ( c’è un gran terremoto, il sole si annerisce, le stelle precipitano dal cielo e i monti e le isole scompaiono dal loro posto abituale), mentre nel settimo c’è un assoluto silenzio per circa mezz’ora dopodiché gli angeli si dispongono a suonare le sette trombe, per completare l’opera di giustizia divina. Ma non è ancora arrivato il momento definitivo del Regno di Dio, sebbene allo squillo della settima tromba viene proclamata la regalità di Dio e di Cristo sul mondo e, a simbolo di ciò, fa la comparsa l’Arca dell’alleanza. Seguono infatti delle guerre (in cielo e in terra, dove era stato respinto) contro Satana e contro i suoi emissari: le due bestie. Una bestia sale dal mare (Leviatan) e simboleggia il dominatore politico, e quindi l’Impero Romano, l’altra sale dalla terra (Behemot) e rappresenta il falso profeta, cioè le autorità religiose pagane. Queste marchiano i loro seguaci col numero 666, il “numero d’uomo”, imperfetto. Dopo una serie di eventi intermedi (annuncio universale degli angeli, mietitura e vendemmia, il canto della vittoria), sette angeli riversano nella terra sette coppe finché Giovanni assiste alla prima tappa della vittoria finale: la sconfitta della “grande Babilonia, la madre delle meretrici e delle abominazioni della terra”. Si scatena poi il combattimento finale in cui il Verbo di Dio (esercito vincitore) sconfigge le due bestie che avevano regnato per 42 mesi ma che ora vengono gettati nello stagno di fuoco che rappresenta il luogo della pena eterna. L’ultima tappa prima del giudizio finale è il regno millenario, in cui il dragone (cioè Satana) viene incatenato, per mille anni appunto, nell’Abisso. Durante questo periodo avviene tra l’altro la prima resurrezione: quella dei martiri, di coloro che sono stati decapitati a causa della testimonianza di Gesù e della parola di Dio; “su di loro la seconda morte non ha potere”; “saranno sacerdoti di Dio e del Cristo e regneranno con lui per i mille anni”. Dopo questo lasso di tempo avviene l’ estremo combattimento. Satana è di nuovo libero e convoca il suo ultimo esercito col quale muove attacco al contingente divino: ma Dio invia dal cielo un fuoco che li divora e li scaraventa nello stagno di fuoco e di zolfo, dove “saranno tormentati giorno e notte, nei secoli dei secoli”.
Sconfitti definitivamente Satana e i suoi emissari, può finalmente avvenire il giudizio finale, tanto atteso e agognato dalle anime dei martiri che aspettavano la giusta ricompensa per la loro eroica morte. Vengono dunque aperti dei libri, nei quali, secondo la tradizione giudaica, venivano registrate le azioni buone e malvagie degli uomini in vista della remunerazione finale ed il libro più importante, quello della vita: quanti non vi sono menzionati vengono gettati nello stagno di fuoco, nel quale trovano la seconda e definitiva morte. Il fine ultimo si è in parte compiuto: è stata fatta giustizia,i colpevoli hanno ricevuto la loro degna punizione mentre i restanti, resuscitati, possono assistere al compimento finale: la nuova creazione. Vengono creati un “cielo nuovo e una terra nuova”, nella quale Dio stesso dimora in mezzo agli uomini. Giovanni tenta poi di descrivere la sposa dell’Agnello, la Gerusalemme celeste, la città santa, ma poiché la parola umana non è in grado di farlo come si conviene, egli lo fa attraverso figure e pietre preziose (diaspro, oro finissimo, vetro limpido, zaffiro, smeraldo, ametista, perle etc). Non vi è nemmeno la necessità di alcun tempio perché Dio e l’Agnello ne sono il tempio; e non vi è bisogno della luce del sole o della luna in quanto la gloria di Dio la illumina e l’Agnello ne è la lampada.

“E cammineranno le genti alla sua luce
e i re della terra a lei porteranno
la loro gloria.
Le sue porte non si chiuderanno di giorno
poiché non vi sarà più notte,
e porteranno a lei la gloria
e il fasto delle genti.
Ma nulla d’impuro in essa entrerà;
né chiunque commette
empietà e menzogna.
Entrerà soltanto chi sta scritto
nel libro della vita dell’Agnello.”

La visione si conclude con l’autotestimonianza di Giovanni che garantisce di aver visto e udito quanto ha scritto e di essere stato incaricato di divulgarlo. Due in particolare sono i concetti che si ripetono in questa conclusione: l’identificazione della rivelazione con una profezia e l’imminenza dell’avvento degli avvenimenti annunciati.
































ITALIANO

Ma Giovanni (ammesso e concesso che sia lui l’autore dell’Apocalisse) non è l’unico ad aver avuto delle visioni dovute all’intervento divino e riguardanti il loro precipuo “fine ultimo”. Anche Dante infatti, arrivato al termine del suo faticoso e tormentato viaggio, grazie all’intervento di San Bernardo prima e l’intercessione di Maria poi, può finalmente accedere alla visione di Dio: compimento finale del suo lungo cammino attraverso i regni oltremondani, momento di purificazione propria e di redenzione dell’umanità intera. La sua visione è un’esperienza al di là delle capacità umane e per questo difficile da ricordare e da esprimere a parole, come Dante più volte nel corso del XXXIII canto si preoccupa di precisare. Dopo aver fissato intensamente il “vivo raggio” e aver congiunto il suo sguardo col “valore infinito”, grazie alle facoltà visive potenziate compie il primo drammatico sforzo per rappresentare l’essenza divina (di nuovo ripete che ciò che egli vede è solo un semplice lume), insistendo sul verbo vedere, a dimostrazione che la sua esperienza non è mistica ma razionale e intellettiva.

“ Nel suo profondo vidi che s'interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l'universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch'i' dico è un semplice lume.” (vv.85-90, canto XXXIII)

In questi versi Dante tenta di esprimere il concetto metafisico-teologico tomista dell'unità, in Dio, delle infinite forme dell'Universo,il primo “mistero” di Dio. Per tradurre in figurazione questo concetto, che travalica le capacità intellettuali dell’uomo, Dante ricorre ad una metafora: quella del libro (il “volume”) rilegato dall’amore di Dio, contrapposta a quella dei fogli squadernati,slegati e frammentari.
Nell'essenza divina, quanto esiste in natura e quanto può esistere, le sostanze (cioè ciò che sussiste di per sé, secondo Tommaso), gli accidenti (cioè i fattori secondari, ciò che è inerente alla sostanza), le loro proprietà e i loro rapporti sono in Dio accolti in una “forma universale”, senza che sia possibile distinguerli, sembrano infatti “quasi conflati insieme” (dove il latinismo serve a sottolineare la difficoltà del concetto che non può essere espresso con parole umane).
Dante crede di aver visto questa “forma universale”, sebbene il momento in cui egli ha contemplato l’essenza divina è per lui causa di un grande oblio: la visione di Dio ebbe la durata di un attimo, ma la mente del Poeta si sprofondò in essa tanto da non ricordare più nulla, come se si fosse immersa negli abissi del tempo. L'impresa di Argo, agli albori dell'umanità, giunge ancora a noi, dopo venticinque secoli mentre della sua visione egli non ricorda se non la dolcezza dell'emozione, la gioia che tuttora prova mentre la ripercorre.
Dopo quattro terzine (vv 97-108) nelle quali il Poeta sembra cercare e non trovare le parole adatte ad esprimere la sovrumana tensione delle sue attività spirituali (infatti ogni passo avanti verso la visione ultima Dante riafferma la sua crescente inadeguatezza del linguaggio) e nelle quali afferma che tutto in Dio è perfezione, è Bene, mentre quanto è fuori di lui è difettivo, inizia, con i versi 109-111, la rappresentazione del secondo episodio, “mistero” divino: l’unità e la trinità. Ma prima di rappresentare figurativamente il mistero della Trinità, il poeta vuole prevenire un’obiezione che potrebbe essergli rivolta per il fatto che egli, in modo non proprio rigoroso da un punto di vista teologico, raffigura la divinità con una progressione di immagini, di figure diverse e staccate: infatti Dio che prima gli era apparso come un punto splendente, un’unità, ora si trasforma in trino; in realtà non è Dio che si manifesta attraverso tale varietà di aspetto, né tantomeno è lui a mutare, quanto le capacità visive di Dante, che man mano che si acuiscono, fortificate dalla luce divina, colgono i vari aspetti mutevoli e distinti della divinità, compresenti invece nell’assoluta unità e semplicità di Dio.
In poche parole, il limite espressivo risiede nella capacità dell’uomo, non nell’oggetto della visione; tra l’altro Dante utilizza un verbo molto significativo, “si travagliava”, ad indicare l’immenso sforzo compiuto dalla sua mente per adattarsi alla formidabile visione. Dopo aver chiarito un aspetto che poteva risultare dubbio, Dante procede alla rappresentazione visiva:

“Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ‘l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.” (vv. 115-120, canto XXXIII)

Dante dunque vede tre cerchi concentrici di diversi colori e di uguale ampiezza; i tre colori indicano i tre distinti attributi mentre l’una contenenza ne dice la perfetta uguaglianza. Il primo cerchio riflettente rappresenta il Padre, a cui nella dottrina cristiana si attribuisce la Potenza, il secondo è il Figlio, idea della mente del Padre, nel quale infatti sembra riflesso, a cui si attribuisce la Sapienza o Parola (Verbo) e il terzo è lo Spirito Santo, a cui è attribuito invece l’amore, che procede ugualmente, come un fuoco, dall’uno e dall’altro, cioè dal Padre e dal Figlio. Dopo aver tentato di rappresentare il mistero dell’unità e della trinità divina, Dante fa un’esclamazione sull’insufficienza del proprio dire che è “corto” e “fioco” rispetto al “concetto” da esprimere e una sorta di “elogio” dell’unità e della trinità divina, che è in un certo senso “autosufficiente” (vv. 124-126).
Si apre a questo punto a Dante il terzo “mistero”: quello dell’incarnazione, cioè il coesistere in Cristo della natura umana e di quella divina.
“Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.” (vv. 127-132, canto XXXIII)

La seconda circonferenza appare a Dante dipinta dentro di sé, col suo stesso colore, dell’immagine umana: il divin Verbo divenne cioè vero Uomo, pur rimanendo al tempo stesso vero Dio. Dante s’ “affisa” tutto in lui: vuol vedere come Dio si faccia uomo. E’ questo, forse, il momento più solenne, il culmine dell’ascesa del pellegrino al Sommo Bene: l’aspetto antropomorfico della divinità, se esprime il più indecifrabile dei misteri, sancisce anche la profonda somiglianza,la continuità della natura umana nella natura divina.
Egli si sforza di vedere come l’immagine si adatti e si unisca al cerchio e per descrivere questo travaglio vano di penetrare il mistero che ha davanti agli occhi ricorre ad una similitudine:
“Qual è ‘l geometra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,

tal era io a quella vista nova:
veder volea come si convenne
l’imago al cerchio e come vi si indova; […]” (vv.133-138, canto XXXIII)

Egli è quindi come un geometra che, con tutte le forze del suo ingegno, si concentra per risolvere il problema della quadratura del cerchio, cioè il problema dell’esatto rapporto fra la misura del diametro e quella della circonferenza, e non riesce a trovare il principio di cui ha bisogno. Tutto concentrato nella visione Dante vorrebbe comprendere il mistero della coesistenza in Cristo della natura divina e di quella umana, ma non gli è possibile (“ma non eran da ciò le proprie penne”): l’immagine è quella del volo, ben diversa però da dall’espressione “folle volo” utilizzata per Ulisse in Inferno, XXVI.
Negli ultimi sei versi è racchiuso il senso dell’intero poema: Dante afferma che la sua mente viene quindi
illuminata direttamente da Dio, attraverso un “fulgore”, e che lui comprende istantaneamente ciò che desiderava sapere. E’ questo l’unico momento in cui la visione cessa di essere razionale e diventa un’esperienza mistica.

“A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e le altre stelle.” (vv.142-145, canto XXXIII)

L’estasi cristiana non è pura passività; il finale della commedia verte sull’effetto della visione mistica, che rappresenta il traguardo ultimo del viaggio.

Insieme con la fantasia, che non può seguire l'intelletto nella sua intuizione del trascendente, viene meno anche ogni possibilità di rappresentazione poetica nel momento in cui Dante raggiunge il fine ultimo del suo viaggio, quel fine per il quale l'uomo è stato creato: la beatitudine eterna. Ma dopo il lampo della grazia illuminante, Dio agisce direttamente su Dante- personaggio, lo impronta di sé, gli mostra la meta del viaggio iniziato nella selva oscura e guida l'intelligenza ( disio: ansia del conoscere ) e l'amore della sua creatura imprimendovi il moto uniforme di una ruota che gira intorno al suo perno: "l'intelletto creato e il libero volere, che è fulcro della personalità, non sono annientati, sono anzi sublimati in un immutabile atto... di visione e d'amore" (Nardi), con un "moto circolare ed uniforme che esprime la perfetta concordia del volere umano col volere divino". Il trasumanar con cui Dante inizia il viaggio nel Paradiso giunge qui al proprio approdo: la coincidenza dell’intelletto desiderante e della volontà umana con la volontà divina. Nella visione finale di Dio, il poeta non ha solo cercato di tradurre in poesia i concetti più alti della teologia cristiana, ma ha affermato che la sua volontà è diretta da Dio: la sua missione è quindi qualcosa di attivo, che coincide con lo “scrivere il poema sacro/ al quale ha posto mano e cielo e terra” (Paradiso, XXV, vv 1-2). Riceve qui, in un certo senso, la giustificazione finale del suo viaggio, il chiarimento ai suoi timori espressi in Inferno, II, versi 31-33 “Ma io perché venirvi? o chi ‘l concede?/ Io non Enea, io non Paulo sono;/ me degno a ciò né io né altri ‘l crede.” : quanto lui ha fatto e visto nel suo percorso è stato voluto da Dio, così come il bisogno di riportare tutto ciò in un poema è necessario perché sarà un salutare insegnamento per gli uomini.
La cantica si chiude infine con la solenne perifrasi di Dio, come con analoga perifrasi si era aperta al primo verso, dove qui le stelle rappresentano il porto della pace cui il poeta è approdato e non più simbolo di speranza e oggetto di struggente desiderio come alla conclusione dell’Inferno e del Purgatorio.


















FISICA

Al termine del suo cammino, dunque, Dante riesce a vedere Dio, il quale, secondo la sua rappresentazione del Paradiso, si trova nell’Empireo. Ma la sua cosmologia non è originale: egli riprende infatti la concezione allora prevalente, ossia quella del sistema aristotelico-tolemaico, che ha dominato la filosofia e la scienza per quasi duemila anni. Questa visione considera il mondo terrestre (che è al centro dell’Universo) ed il mondo celeste regolati da principi completamente distinti: nei cieli il movimento è circolare, nel mondo sublunare il movimento è rettilineo; inoltre sulla Terra i corpi sono soggetti alla corruzione ed al mutamento mentre i cieli ed i corpi celesti sono perfetti, eterni ed immutabili, costituiti addirittura da una quinta essenza di natura divina (le altre quattro essenze corrispondono alla terra, all’acqua, all’aria ed al fuoco). Ne consegue che il mondo sub-lunare e il mondo sopra- lunare sono nettamente separati in modo tale che l’Universo risulta diviso in due parti estranee l’una all’altra. Gli esseri umani sono “condannati” a vivere nella parte “volgare e corrotta” dell’Universo, costretti ad utilizzare una fisica terrestre (basata cioè sui quattro elementi) per descrivere la dinamica sub-lunare, mentre, per capire il mondo sopra-lunare si ricorre alla fisica della quintessenza divina dei corpi celesti. Non esiste dunque un unico sistema di leggi, che sia applicabile sia al mondo terrestre che al mondo celeste: la teoria dei Greci Antichi è divisa in due parti incommensurabili.
Questa cosmologia ha dominato fino al 1543, anno in cui Copernico (1473-1543), rifiutando il sistema geocentrico e geostatico con il suo trattato “De revolutionibus orbium coelestium” ha posto al centro dell’Universo il Sole, affermando che è la terra a girarle attorno. Ciò ha generato sì un clima generale di spaesamento e confusione, ma ha anche dato il via ad una serie di indagini e studi più approfonditi sull’Universo (in realtà si deve precisare che non fu lui il primo ad ipotizzare la cosiddetta “Teoria eliocentrica”, in contrapposizione alla “Teoria geocentrica” ma fu invece Aristarco di Samo nel III secolo a.C con l’opera “Sulle dimensioni e le distanze del Sole e della Luna”, ma era troppo prematuro per la sua epoca e si valse solo una condanna per empietà e corruzione). All’inizio del XVII secolo Keplero (1571- 1630) realizza un primo processo di unificazione tra corpi celesti e corpi terrestri: per lui i movimenti degli astri sono quelli di corpi fisici che, sottomessi ad un’accelerazione, descrivono ellissi, cioè dei “cerchi deformati”. Per Keplero i movimenti imperfetti dei pianeti si ricongiungono con un mondo terrestre “corrotto”. Poiché per Aristotele i corpi celesti erano costituiti da una materia inalterabile (l’etere), l’estensione del movimento celeste alla terra e della fisica terrestre al cielo suppone una materia identica, con delle medesime leggi fisiche. Infatti, se le leggi che valgono sulla terra devono valere anche per i corpi celesti, allora devono essere costituiti dagli stessi elementi. Questo significa l’abolizione di una separazione radicale fra l’etere e i quattro elementi (ossia tra mondo celeste e mondo terrestre). S’affaccia per la prima volta l’idea di una “Teoria del tutto”, ossia un unico insieme di leggi in grado di spiegare tutto l’universo osservabile, aspetto prima impensabile per il fatto che mondo celeste e mondo terrestre erano nettamente distinti, separati e regolati da leggi diverse.
Un passo decisivo in questa direzione fu svolto da Galileo Galilei (1564- 1642) con la formulazione del metodo scientifico e, in seguito, nel 1609 con la creazione del cannocchiale, dopo che gli era giunta dalle Fiandre la notizia di un nuovo strumento di osservazione che avvicinava gli oggetti più lontani. Ma la vera svolta di Galileo fu l’aver rivolto il cannocchiale verso il cielo: in pochi anni egli modifica l’aspetto della Luna, che ora appare come un corpo celeste del tutto simile alla Terra. Sulla superficie della Luna nota infatti la presenza di crateri e montagne, imperfezioni rispetto alla sfericità divina dei corpi celesti; si assiste così ad un avvicinamento tra cieli e Terra. Non solo, ma nel 1612 si aggiunge l’osservazione delle macchie solari che sono in aperto contrasto con le tesi aristoteliche sull’incorruttibilità dei cieli (non a caso Galileo in una lettera ad un amico scriverà che tali macchie rappresentano “il funerale o piuttosto l’estremo e ultimo giudizio della pseudofilosofia”); egli, in un certo senso, squalifica la dualità aristotelica a favore di un cosmo omogeneo. Inoltre, nel 1632 con la legge sulla caduta dei corpi nella quale Galilei afferma che la natura è scritta in linguaggio matematico e che questo linguaggio è sia della fisica terrestre che della dinamica celeste la geometria diventa l’inevitabile strumento di conoscenza di tutti i fenomeni: il sistema aristotelico- tolemaico inizia così a crollare; queste sono infatti tra le prime prove sperimentali a supporto di una teoria (Keplero) a discapito di un’altra (Aristotele).
Il collasso definitivo giunge però solo alla fine del ‘600 con Isaac Newton (1642-1727). Newton infatti realizza l’unificazione tra meccanica terrestre e meccanica celeste, annullando in questo modo la dualità del mondo greco antico. Egli infatti comprende che esiste un’ unica forza di gravità a lunga distanza in grado di spiegare contemporaneamente sia la caduta degli oggetti sulla Terra sia il moto della Luna attorno al nostro pianeta, oltre che il moto di tutti i corpi celesti intorno al Sole; per la prima volta s’intravede davvero un’unica “teoria scientifica del tutto”, le cui leggi sono applicabili sia alla terra che al cielo. I caratteri principali di questa teoria emergono chiaramente nei “Philosophiae Naturalis Principia Mathematica” (1687), nella quale si enunciano assiomi o postulati fondamentali, la cui verità è assunta senza dimostrazione. Newton riesce a calcolare con grande precisione i moti dei pianeti e dei satelliti grazie ai metodi analitici sviluppati dai matematici Lagrange e Laplace.
Una notazione importante è che le leggi newtoniane della fisica hanno la caratteristica di essere deterministiche: cioè, conoscendo la configurazione (ad es. posizione e velocità) di un sistema in un solo istante di tempo, si può determinare l’intero comportamento futuro e tutto il passato del sistema stesso. Tuttavia la fisica di Newton presenta dei limiti, tre in particolare:
1- Non riusciva a spiegare la natura della forza di gravità, in quanto si trattava di una forza a distanza, di cui, all’epoca, non si riusciva a spiegare il modo in cui veniva trasmesso l’effetto (in effetti si supponeva l’esistenza di un mezzo materiale, chiamato etere, capace di “portare” l’effetto gravitazionale);
2- In secondo luogo Newton non poneva limiti alle velocità dei punti materiali, così per esempio era possibile accelerare arbitrariamente un oggetto fino a fargli raggiungere la velocità desiderata. Ma anche questo fu dimostrato essere non corrispondente alla realtà: infatti molti esperimenti successivi, mostrarono come ci fosse un vero e proprio limite naturale rappresentato dalla velocità della luce;
3- Con l’avanzare della tecnologia, la possibilità di indagare il mondo microscopico, atomico e sub-atomico, mise in risalto che le leggi di Newton non erano in accordo con alcuni esperimenti.

La soluzione al secondo problema, ossia alla descrizione del mondo microscopico, corrisponde allo scopo della fisica quantistica e delle particelle, mentre la risposta ai primi due problemi sulla natura della gravità e sulla velocità massima raggiungibile viene data in parte da Albert Einstein (1879-1955) con la teoria della Relatività Generale (pubblicata nel 1916, ampliamento della teoria della Relatività Ristretta, 1905). Einstein era convinto che le leggi fisiche riflettessero il progetto divino del mondo: dovevano, perciò, essere semplici e “belle” da un punto di vista matematico. Per questo motivo, era convinto che l’universo avesse una spiegazione matematica e cercò a lungo (ben 35 anni!) una Teoria del Tutto che spiegasse tutti i fenomeni fisici allora noti: la gravità e l’elettromagnetismo. Non vi riuscì. Tuttavia, pur non riuscendo in questo scopo, egli ottenne altri risultati mirabili: mise in evidenza la relatività delle nozioni di tempo e spazio e il fatto che le trasformazioni che li legano sono le stesse che legano l’elettricità e il magnetismo. Inoltre nella Relatività Generale egli dimostra che la gravità non è una forza che agisce tra corpi, come nel caso della fisica newtoniana: la gravitazione è dovuta bensì alla curvatura dello spazio- tempo stesso. La teoria di Einstein non è pero perfetta, ma anzi presenta anch’essa dei problemi irrisolti: ad esempio, la Relatività va benissimo per descrivere il mondo delle galassie ma diventa problematica se si guarda “nell’estremamente piccolo”, in particolare se si raggiungessero le dimensioni della “lunghezza di Planck” (più piccola distanza, pari a circa 10^-33 cm).
Nonostante tutti gli aspetti lasciati in sospeso e non definiti, queste grandi teorie hanno prodotto una rivoluzione profonda nella fisica, alterandone radicalmente il panorama concettuale. Nello stesso periodo, tra l’altro, altre scoperte, riguardanti la meccanica quantistica, hanno un effetto ancora più rivoluzionario della Relatività Generale. In particolare, alla base della fisica quantistica vi sono le cosiddette “Relazioni d’incertezza” di Heisenberg (1901-1976): queste affermano, tra l’altro, che non è MAI possibile conoscere simultaneamente posizione e velocità di una particella (le particelle sono infatti soggette a fluttuazioni quantistiche, cioè a variazioni imprevedibili di posizione, velocità ed energia). Di conseguenza, il determinismo della fisica newtoniana non è più applicabile: la conoscenza della configurazione di un sistema, in un determinato istante di tempo, non permette più di determinare la storia passata e futura di questo sistema; la fisica dunque diventa tipicamente “probabilistica”: è probabile che una data particella si trovi in una determinata posizione, ma non è più certo.
Un altro aspetto molto particolare (ma soprattutto problematico!) della fisica quantistica emerge, ad esempio, quando ci si chiede se la luce sia un fenomeno ondulatorio oppure consista in un flusso di corpuscoli. La fisica quantistica implica che nessuna di queste due descrizioni è sufficiente per cogliere la natura della luce: essa manifesta un’intrinseca dualità. In certi esperimenti si comporta come un’onda, mentre in altri si manifesta come un insieme di corpuscoli. Dunque è proprio l’osservatore (oppure lo strumento di misura) che seleziona uno dei due aspetti, attraverso il tipo di esperimento che viene eseguito con la luce: lo strumento di osservazione e il sistema osservato non sono dunque indipendenti. Non solo, ma questa dualità onda/particella non è valida esclusivamente nel caso della luce, ma è una proprietà intrinseca di qualsiasi particella della natura, compresi elettroni, protoni e neutroni che compongono gli atomi. E proprio a questo riguardo si pone un importante problema: se le particelle che costituiscono il mondo macroscopico si comportano in modo non deterministico e “dualistico”, come si può spiegare il fatto che noi osserviamo un mondo deterministico e non duale? Esistono diverse interpretazioni non- equivalenti della fisica quantistica che cercano di risolvere o di comprendere meglio questa dualità tra mondo quantistico microscopico e mondo classico macroscopico, ma al giorno d’oggi ancora non sappiamo quale sia l’interpretazione corretta. Si può quasi affermare dunque, che la dualità presente nella visione aristotelico- tolemaica del mondo non si trova più tra il cielo e la terra, ma tra il mondo microscopico e il mondo macroscopico e tra la natura ondulatoria e corpuscolare delle particelle.
Ad ogni modo, la teoria quantistica è diventata uno strumento potente per comprendere la natura delle interazioni debole, elettromagnetica e forte (tre delle quattro forze fondamentali). Queste tre interazioni fondamentali sono ora molto ben descritte dal modello standard secondo il quale esse risultano scambio di particelle mediatrici (fotoni, bosoni e gluoni). Questo modello ha permesso di riunire le interazioni elettromagnetica e debole in una interazione elettrodebole e di abbozzare la grande unificazione (GUT) delle interazioni elettromagnetica, debole e forte. Sulla base di questi recenti successi, la Teoria del tutto dovrebbe descrivere le proprietà di una superforza dove le interazioni gravitazionale, debole, elettromagnetica e forte costituirebbero quattro sfaccettature.

Attualmente,alla base di ogni teoria del tutto c’è il postulato quantistico che afferma che ogni teoria fisica dinamica deve essere descritta, su scala microscopica, dalla fisica quantistica. Questa, inoltre deve “unificare” le 4 forze della natura e superare la divisione che c’è oggi tra la relatività di Einstein, che descrive i movimenti stellari e l’universo nel suo complesso, e la meccanica quantistica di Planck che spiega invece il mondo delle particelle elementari. L’unica forza non ancora descrivibile dalla fisica quantistica è la gravità. La scoperta di una teoria quantistica della gravità potrebbe costituire un primo passo verso l’unificazione della gravitazione con le altre forze; attualmente due teorie nello specifico rappresentano una possibile soluzione:
-La “Loop Quantum Gravity”;
-La “Teorie delle Supestringhe”.
La prima applica alla Relatività Generale il postulato quantistico e afferma che, poiché lo spazio non può essere suddiviso all’infinito, esso ha dunque struttura granulare: esistono cioè dei grani “minimi” di spazio (così come la materia è composta da atomi) di larghezza simile alla lunghezza di Planck. Questi grani, fra le altre cose, non sono “immersi” in uno spazio esterno, ma sono essi stessi lo spazio”. Non solo, secondo questa teoria anche il tempo è “granulare”: <<Non scorre come il fluire di un fiume>>, spiega Carlo Rovelli, docente universitario e uno dei fondatori di questa teoria <<ma “a scatti”. Non ce ne accorgiamo perché ogni rintocco è brevissimo, con una durata paragonabile al tempo di Planck (10^-44 s).>>

La seconda parte da una riformulazione del concetto di particella elementare, considerando questa come una vibrazione di una minuscola corda o stringa. Le particelle elementari come gli elettroni e i quark che si trovano negli atomi, per esempio, sarebbero costituite da stringhe uguali, ma vibrerebbero in modo diverso. A questa descrizione viene poi applicato il sopra esposto postulato quantistico ed il risultato sorprendente è che la gravità emerge come proprietà necessaria della teoria: senza di essa, la teoria non è coerente. In questo modo si realizza l’unificazione della gravità con le altre particelle e forze, visto che particelle e forze sono vibrazioni di un’unica “stringa”. Essa presenta però alcuni limiti, tra i quali i più importanti sono il fatto che le sue proprietà essenziali sarebbero verificabili sperimentalmente solo ad altissimi livelli di energia, che forse non potranno mai essere raggiunti con l’uso della tecnologia, nemmeno in un futuro molto lontano; inoltre, essa è coerente unicamente quando il numero di dimensioni spaziali è superiore a tre: alcune versioni della teoria sono valide unicamente in uno spazio con nove dimensioni. In questo caso i fisici non sono ancora riusciti a spiegare in modo soddisfacente perché si possano soddisfare solo tre delle nove dimensioni.

Un ulteriore problema, che coinvolge entrambe le teorie, è dato dalla possibile applicazione dei teoremi scoperti dal matematico austriaco Kurt Godel (1906-1978) all’ipotetica nozione di “teoria del tutto”. Uno di questi teoremi relativi all’indecidibilità logica asserisce che, per qualsiasi sistema assiomatico coerente, ossia costruito sulla base di un numero finito di assiomi e che non contiene contraddizioni, esisterà sempre una proposizione la cui verità (o falsità) non potrà essere dimostrata all’interno di questo sistema.
Un esempio classico è il “paradosso del barbiere”, enunciato da Bertrand Russel:
sia I: { x/ x non si tagliano i capelli da soli}
y= barbiere

y I
Indecidibile
y I


Dunque, se una “teoria del tutto” corrisponde ad un sistema assiomatico coerente, allora esisteranno delle proposizioni la cui verità (o falsità) non potrà essere dimostrata all’interno di questa “teoria del tutto”. Queste proposizioni potrebbero consistere in determinate proprietà dell’Universo che non saranno quindi mai spiegate mediante un’ipotetica “ultima” teoria fisica.


























SCIENZE

Un’ipotetica teoria del tutto dovrebbe, tra le altre cose, contenere e spiegare la teoria del Big Bang (grande scoppio); una teoria nata nel 1930 circa da un’elaborazione teorico-matematica di Lemaitre, che comportò una rivoluzione, pari a quelle di cui si è parlato sopra (Copernico, Galileo etc) nel pensiero di quei tempi: fino ad allora si credeva che l’universo fosse eterno e che quindi non aveva avuto inizio né avrebbe avuto fine, e la sua espansione sarebbe stata compensata dalla nascita spontanea di nuova materia dal nulla. Al contrario, la teoria del Big Bang, ipotizzando l’inizio dell’Universo che si è espanso da una singolarità avente volume zero e densità e temperature infinite, mette in luce anche l’ipotesi di una sua possibile fine. A supportare ciò, nel 1929, Edwin Hubble (1889- 1953) utilizzando il metodo del red shift che misura l’allontanamento di un corpo celeste dalla Terra (in quanto utilizza l’effetto Doppler, in base al quale un corpo celeste che si allontani da noi modifica le righe del suo spettro, spostandole verso il rosso) e dunque la sua velocità, ricavò la relazione esistente tra velocità (v) e distanza delle galassie (v = Hd, dove H è la costante di Hubble e d è la distanza ). Egli giunse a dedurre che, siccome tutte le galassie manifestano un red shift (tranne quelle del gruppo locale, tra cui la Via Lattea), esse si stanno allontanando da noi, con un moto di recessione galattica. A questo punto, gli scienziati hanno dovuto abbandonare l’idea di immutabilità dominante fino a meno di un secolo fa: è sorto invece l’interrogativo su quello che sarà il futuro dell’Universo. La sua evoluzione dipende principalmente dalla sua forma.
La geometria dell’Universo è determinata dal valore di Ω, che esprime il rapporto tra densità media della materia dell’Universo e densità critica (fissata uguale a 2,7 X 10-30 g/cm3), al di sopra della quale la forza gravitazionale prevale sul moto di espansione. A seconda di questo valore l’Universo potrebbe essere piatto, chiuso oppure aperto:
se Ω=1 l’Universo è piatto, l’espansione verrà rallentata dalla gravitazione e la velocità sarà decrescente cioè tenderà a zero;
se Ω>1 l’Universo è chiuso e l’espansione verrà arrestata dalla gravitazione, che produrrà un collasso verso una nuova singolarità (se l’Universo contiene una grande massa di energia oscura, l’espansione può continuare indefinitamente anche se Ω>1 );
se Ω<1 l’Universo è aperto e l’espansione continuerà indefinitamente con un leggero rallentamento della velocità.




Modello dell’Universo: aperto,chiuso, piatto








La tabella seguente mostra le relazioni tra densità, decelerazione, geometria dello spazio-tempo e destino dell'Universo.
Modello di Universo Aperto Critico Chiuso
Parametro di densità
< 1 =1 > 1
Parametro di decelerazione q0 < 1/2 q0 = 1/2 q0 > 1/2
Geometria dello spazio iperbolica
(curvatura negativa) piatta
(curvatura nulla) sferica
(curvatura positiva)
Futuro dell'Universo espansione perpetua
espansione perpetua con velocità finale nulla
espansione seguita da collasso finale




Per prevedere il futuro dell’Universo occorrerebbe quindi conoscere la sua attuale densità, impresa non facile ma possibile: purtroppo, a complicare il problema, è giunta una scoperta inaspettata. Negli anni ’70 del secolo scorso, lo studio dei movimenti dell’idrogeno all’interno delle galassie e delle orbite delle galassie stesse entro gli ammassi ha evidenziato in modo inequivocabile che la massa reale delle galassie è di gran lunga maggiore di quella osservabile (ossia di quella luminosa). Si è ipotizzata perciò l’esistenza di una forma di materia, detta materia oscura (che non interagisce con la luce), distribuita intorno alle galassie a formare una specie di alone. Grazie ad una serie di studi, è ormai evidente che la materia oscura influisce in modo sostanziale sulla densità dell’universo e quindi sul suo futuro. Fino alla fine degli anni ’90 ha prevalso l’idea che questa “massa oscura” fosse comunque sufficiente a rendere l’Universo chiuso e che quindi l’espansione cosmica stesse gradualmente rallentando. Nel 1998, però, alcuni astronomi impegnati a misurare il tasso di rallentamento dell’espansione studiando lontanissime supernovae, ottennero un risultato sorprendente: l’espansione dell’Universo sta accelerando, da circa 10 miliardi di anni. Poiché la quantità di materia stimata nell’Universo è troppo grande per permettere l’accelerazione del moto di espansione si è ipotizzata l’esistenza di una forza antigravitazionale repulsiva, che venne definita energia oscura. E’ la rinascita, in un contesto diverso e in altra forma, della costante cosmologica che Einstein aveva introdotto nelle sue equazioni relativistiche per giustificare il modello, allora incontestabile, di un Universo statico.

Tenendo dunque conto dell’energia oscura, che tende ad espandere lo spazio, si possono immaginare i seguenti scenari:

- BIG CRUNCH (grande collasso)
- BIG FREEZE (grande freddo)
- BIG RIP (grande strappo)
- BIG BOUNCE (grande rimbalzo)

Il BIG CRUNCH è l’evoluzione necessaria dell’Universo chiuso, quasi una visione simmetrica della vita dell’Universo: la gravitazione inverte l’espansione e, una volta raggiunto il momento di massima espansione, l’Universo inizierà a contrarsi, le galassie si riavvicineranno, la temperatura aumenterà e i nuclei atomici si frantumeranno, dando così origine a un “brodo” di particelle elementari. Secondo questo modello, pertanto, tutta la materia e lo spazio- tempo dell’Universo, che era nato da un punto densissimo, collasserà in un altro nuovo punto matematico, una singolarità gravitazionale adimensionale, ma a queste scale occorrerebbe considerare gli effetti della meccanica quantistica, ignorati dalla Relatività Generale. Dal punto di vista geometrico, l’Universo chiuso può essere rappresentato con una sfera, che prima si dilata e poi si restringe progressivamente (geometria sferica).




Il BIG FREEZE è una possibile evoluzione dell’Universo aperto o piatto: la massa in questo caso non è sufficiente a frenare l’espansione. Questa, al contrario, procederà in modo continuato e porterà ad un raffreddamento che condurrà tutti i corpi celesti alla fine del loro ciclo evolutivo, con le stelle che si spegneranno e i buchi neri che inghiottiranno la materia per poi evaporare. La rappresentazione geometrica di questo modello di Universo è quello di una superficie a “sella” (geometria iperbolica).
Questa è una possibile cronologia, basata sulle teorie fisiche contemporanee, di un Universo aperto che va incontro a morte termica:
• 1014 anni: tutte le stelle si sono raffreddate
• 1015 anni: tutti i pianeti si sono separati dalle stelle
• 1020 anni: le orbite di ogni tipo sono decadute a causa delle onde gravitazionali
• 1031 anni: decadimento del protone, se le teorie di grande unificazione (GUT) sono giuste
• 1064 anni: i buchi neri stellari evaporano in base al processo di Hawking
• 1065 anni: tutta la materia è diventata un liquido allo zero assoluto
• 10100 anni: i buchi neri supermassicci evaporano in base al processo di Hawking
• 101500 anni: tutta la materia decade in ferro (se il protone non è decaduto prima)
• 10100000000000000000000000000 anni: limite inferiore perché tutta la materia venga inglobata in buchi neri (26 zeri)
• 101000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000 anni: limite superiore perché tutta la materia venga inglobata in buchi neri. (76 zeri)
Anche il BIG RIP è una possibile evoluzione dell’Universo aperto: l’espansione fortemente accelerata provoca la distruzione di ogni oggetto e la disgregazione della materia in particelle elementari (è questa una fine prevista tra circa 22 miliardi di anni). Si distruggerebbe quindi la struttura fisica dell’Universo.
In un Universo aperto, la relatività generale prevede che questo avrà un’esistenza futura indefinita, ma che raggiungerà una condizione in cui la vita, come la intendiamo noi, non potrà esistere. In questo modello la costante cosmologica causa un’accelerazione del ritmo di espansione dell’Universo. Portata all’estremo, un’espansione costantemente accelerata significa che ogni oggetto fisico dell’Universo, a partire dagli esseri umani individuali, i batteri etc , per finire con le galassie, sarà alla fine fatto a pezzi e quindi ridotto a particelle elementari non legate tra loro. Lo stato finale sarà un gas di fotoni, leptoni e protoni (o solo i primi due se il protone decade) che diventerà sempre meno denso fino a causare un Universo freddo e inerte per sempre o un possibile nuovo Big Bang.





Per superare i limiti della teoria classica del Big Bang diversi scienziati hanno ipotizzato che l’Universo abbia un movimento ciclico ed eterno (Universo oscillante o pulsante), ossia una sequenza infinita di Big Bang e successivi Big Crunch (Grande Collasso). Su questo filone cosmologico si innesta la teoria del Big Bounce, che concettualmente prende il posto del Big Bang e del Big Crunch, fondendoli in una nuova formulazione scientifica.
Secondo questa teoria, la materia si ricompatta senza arrivare alla singolarità iniziale puntiforme; infatti, ad un certo punto della contrazione, a causa del costante aumento dei valori della massa-energia (densità e temperatura), il tessuto spazio- temporale si lacera e la gravità da attrattiva diventa repulsiva, facendo rimbalzare l’Universo in un nuovo Big Bang. Tale processo si ripete in un ciclo perpetuo. L’Universo nuovo perde però ogni ricordo dal momento che subisce fluttuazioni diverse da quello successivo e quindi questi dettagli di memoria storica non sopravvivono ed il nuovo è sempre diverso dal precedente (amnesia cosmica).
La teoria del Big Bounce e in generale dell’Universo oscillante o pulsante (come sequenza infinita di esplosioni e di successivi collassi gravitazionali) implica l’ipotesi che l’Universo sia del tutto autosufficiente: un eterno divenire della realtà fisica (energia-materia) che non ha mai avuto origine e non avrà mai fine.
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