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Sintesi

Tesina - Premio maturità  2008

Titolo: Oltre la soglia del dolore

Autore: Silvia Fulli

Descrizione: ecco che proprio nel momento di maggiore precarietà , quando tutto sembra perduto ed ogni cosa si mostra nella sua insensatezza, l'uomo si attacca alla vita. supera il dolore e vive quella pienezza di luce che è tanto lontana dal buio che lo avvolge

Materie trattate: letteratura italiana, filosofia, letteratura latina, storia, letteratura inglese, arte

Area: umanistica

Sommario: Cosa c'è oltre la sofferenza? Cosa c'è oltre la morte? LA VITA C'è il risveglio. C'è il sole. C'è la luce. C'è MATTINA. M'illumino d'immenso. Dopo la notte buia in trincea e il rumore degli spari e le urla strazianti dei compagni feriti e la fame e la sete e la morte, eccola. E' la vita. La mattina. Ecco che nel momento di maggior disperazione nell'uomo si accende il suo istinto primordiale. E vive. E vuole vivere. Nella condizione di più assoluta privazione arde il vitalismo. E allora il soldato, il poeta, l'uomo s'illumina. La luce di verità  lo travolge, si sostituisce alle tenebre e l'immenso lo investe. Diventa parte di una realtà  di vita assoluta. Oltre qualsiasi durezza, oltre qualsiasi meschinità , l'uomo vuole esistere. Trova in sé la vita proprio quando tutto intorno è morte. E' un uomo, direbbe Kierkegaard, che supera la disperazione aprendosi all'infinito, aprendosi alla fonte delle infinite possibilità  che caratterizzano l'esistenza, aprendosi a Dio. E' un uomo che vince "la malattia mortale", che va avanti, che prosegue nel suo cammino e ama la propria esistenza. Cima Quattro il 23 Dicembre del 1915 Un'intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d'amore Non sono mai stato tanto attaccato alla vita (G. Ungaretti, Veglia, in Allegria, "Il Porto Sepolto") I versi di questa poesia di Ugaretti (1888 â€" 1970) descrivono una notte passata dal poeta al fronte durante la prima guerra mondiale (1915 â€" 1918), accanto al corpo di un compagno ucciso. La reazione dell'autore è una ribellione disperata al destino di morte, un prorompente sentimento di attaccamento alla vita. "L'appetito di vivere è moltiplicato dalla prossimità  e dalla quotidiana frequentazione della morte" dice il poeta. E' spinto a scrivere lettere piene d'amore e a dichiararsi attaccato alla vita proprio dall'uomo ormai morto che gli è vicino, dalle sue mani congestionate che "penetrano" nel silenzio e lo trasformano in parola poetica. Paradossalmente, proprio nel momento in cui tutta l'umanità  è sconvolta dalla guerra e immersa in una realtà  di violenza e morte, l'uomo guarda oltre la meschinità  di quel momento storico che lo delude. Continua a lottare per la vita nonostante il crollo delle certezze segnato dal conflitto mondiale. E' forse lui quell'uomo che poco prima Nietzsche (1844 â€" 1900), nella "Gaia Scienza", aveva definito un Superuomo?

Estratto del documento

OLTRE LA SOGLIA DEL DOLORE

Cosa c’è oltre la sofferenza?

Cosa c’è oltre la morte?

LA VITA

C’è il risveglio.

C’è il sole.

C’è la luce.

MATTINA

C’è .

M’illumino d’immenso.

Dopo la notte buia in trincea e il rumore degli spari e le urla strazianti dei compagni feriti e la fame

e la sete e la morte, eccola. E’ la vita. La mattina. Ecco che nel momento di maggior disperazione

nell’uomo si accende il suo istinto primordiale. E vive. E vuole vivere. Nella condizione di più

assoluta privazione arde il vitalismo. E allora il soldato, il poeta, l’uomo s’illumina. La luce di verità

lo travolge, si sostituisce alle tenebre e l’immenso lo investe. Diventa parte di una realtà di vita

assoluta. Oltre qualsiasi durezza, oltre qualsiasi meschinità, l’uomo vuole esistere. Trova in sé la

vita proprio quando tutto intorno è morte. E’ un uomo, direbbe Kierkegaard, che supera la

disperazione aprendosi all’infinito, aprendosi alla fonte delle infinite possibilità che caratterizzano

l’esistenza, aprendosi a Dio. E’ un uomo che vince “la malattia mortale”, che va avanti, che

prosegue nel suo cammino e ama la propria esistenza.

Cima Quattro il 23 Dicembre del 1915

Un'intera nottata

buttato vicino

a un compagno

massacrato

con la sua bocca

digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d'amore

Non sono mai stato

tanto

attaccato alla vita

(G. Ungaretti, Veglia, in Allegria, “Il Porto Sepolto”)

I versi di questa poesia di Ugaretti (1888 – 1970) descrivono una notte passata dal poeta al fronte

durante la prima guerra mondiale (1915 – 1918), accanto al corpo di un compagno ucciso. La

reazione dell’autore è una ribellione disperata al destino di morte, un prorompente sentimento di

attaccamento alla vita. “L’appetito di vivere è moltiplicato dalla prossimità e dalla quotidiana

frequentazione della morte” dice il poeta. E’ spinto a scrivere lettere piene d’amore e a dichiararsi

attaccato alla vita proprio dall’uomo ormai morto che gli è vicino, dalle sue mani congestionate

che “penetrano” nel silenzio e lo trasformano in parola poetica. Paradossalmente, proprio nel

momento in cui tutta l’umanità è sconvolta dalla guerra e immersa in una realtà di violenza e

morte, l’uomo guarda oltre la meschinità di quel momento storico che lo delude. Continua a

lottare per la vita nonostante il crollo delle certezze segnato dal conflitto mondiale.

E’ forse lui quell’uomo che poco prima Nietzsche (1844 – 1900), nella “Gaia Scienza”, aveva

definito un Superuomo?

Nell’aforisma 125 dell’opera, pubblicata per la prima volta nel 1883, l’uomo folle annunciava una

verità tremenda: la morte di Dio. “Dove se n’è andato Dio? – gridò – Ve lo voglio dire! Siamo stati

noi ad ucciderlo! […] Dio è morto!”. Dio è punto di riferimento, Dio è certezza che rassicura, Dio è

l’insieme di tutti i valori metafisici e assoluti su cui l’uomo ha sempre basato la propria esistenza.

Ebbene, con la morte di Dio, si annuncia un evento, si constata che dopo l’uomo non c’è nulla. Gli

ideali e i valori su cui la civiltà ha costruito per secoli la propria regola di comportamento hanno

rivelato il nulla che ne era il fondamento nascosto. Il mondo moderno è dominato dal nichilismo,

da una crisi mortale. E la morte di Dio fa sì che l’umanità sprofondi nell’angoscia, nell’assurdo,

nella disperazione. E proprio ora, nel momento di maggior dolore, quando ogni certezza sembra

perduta, c’è il superuomo. Colui che ama la terra, che vuole vivere, andare avanti senza bisogno di

far riferimento a nuovi valori. E’ diverso dagli altri uomini, dal gregge, da coloro che si disperano.

Lui trova il coraggio di navigare nell’immenso mare dell’irrazionalità, privo di alcun disegno

provvidenzialistico. Sostiene e supera la disperazione per la morte di Dio.

Ma se volgiamo lo sguardo ad un passato ancora più remoto,

ci rendiamo conto di come le filosofie antiche avessero

affrontato, in modo chiaramente diverso, gli stessi problemi

e interrogativi che attanagliano l’uomo davanti al dolore e

al crollo delle sue certezze. La filosofia stoica, ad esempio,

esalta il dominio della ragione sulle passioni, sulle pulsioni

irrazionali che minacciano la libertà dell’uomo. Il saggio deve

essere sufficiente a se stesso e possedere le virtù

dell’autocontrollo e del distacco dalle passioni terrene

(apàtheia) per raggiungere integrità morale ed intellettuale. E

qualora non riscontrasse la possibilità, in vita, di vivere

secondo i propri principi e valori, non solo è ammesso il

suicidio ma addirittura è esaltato. E’ dignitosa rinuncia alla

vita. E’ atto naturale. E’ orgogliosa autoaffermazione.

Aderì al tardo stoicismo Seneca (Cordoba, 4 a.C. – Roma, 65 d.C.) che sembra assumere una

posizione ben diversa rispetto ai precedenti esponenti di questa filosofia. Seppe affrontare, infatti,

momenti difficili senza perdersi d’animo e arrendersi alla morte. Una delle sue opere più

interessanti e significative, in cui affronta il tema del superamento del dolore è la Consolatio ad

Helviam matrem, scritta per consolare la madre sofferente per la sua lontananza, perché esiliato in

Corsica. É importante perché le parole alla madre suonano come una consolazione a se stesso: il

dolore di un’anima può essere lenito dalla contemplazione della bellezza dell’universo, di cui tutti

siamo cittadini, tanto sterminato da far apparire le distanze sulla terra ben poca cosa. Seneca

diventa consolatore dei suoi stessi mali perché, nelle avversità, sa di poter contare sulla propria

fermezza d’animo e sulla propria incrollabile virtus. La sua anima ritrova se stessa nell’infinito.

Seneca, Consolatio ad Helviam matrem, 8, 6

“Quantulum enim est quod perdimus! Duo quae pulcherrima sunt quocumque nos moverimus

sequentur, natura communis et propria virtus. Id actum est, mihi crede, ab illo, quisquis formator

universi fuit, sive ille deus est potens omnium, sive incorporalis ratio ingentium operum artifex,

siue divinus spiritus per omnia maxima ac minima aequali intentione diffusus, sive fatum et

inmutabilis causarum inter se cohaerentium series id, inquam, actum est ut in alienum arbitrium

nisi vilissima quaeque non caderent. Quidquid optimum homini est, id extra humanam potentiam

iacet, nec dari nec eripi potest. Mundus hic, quo nihil neque maius neque ornatius rerum natura

genuit, et animus contemplator admiratorque mundi, pars eius magnificentissima, propria nobis et

perpetua et tam diu nobiscum mansura sunt quam diu ipsi manebimus. Alacres itaque et erecti

quocumque res tulerit intrepido gradu properemus, emetiamur quascumque terras: nullum

inveniri exilium intra mundum potest; nihil enim quod intra mundum est alienum homini est.

Vndecumque ex aequo ad caelum erigitur acies, paribus intervallis omnia diuina ab omnibus

humanis distant. Proinde, dum oculi mei ab illo spectaculo cuius insatiabiles sunt non abducantur,

dum mihi solem lunamque intueri liceat, dum ceteris inhaerere sideribus, dum ortus eorum

occasusque et interualla et causas investigare uel ocius meandi uel tardius, dum spectare tot per

noctem stellas micantis et alias inmobiles, alias non in magnum spatium exeuntis sed intra suum

se circumagentis vestigium, quasdam subito erumpentis, quasdam igne fuso praestringentis

aciem, quasi decidant, vel longo tractu cum luce multa praetervolantis, dum cum his sim et

caelestibus, qua homini fas est, inmiscear, dum animum ad cognatarum rerum conspectum

tendentem in sublimi semper habeam, quantum refert mea quid calcem?”

“ Che beni da poco sono quelli che ho perduti! Ma i due più belli, dovunque io mi indirizzerò, mi

seguiranno: la natura, a tutti comune, e la personale virtù. Ciò, credimi, è stato il volere di quella

entità che ha creato l’universo, quale essa sia stata, o un dio onnipotente, o un intelletto

incorporeo artefice di somme creazioni, o uno spirito divino infuso con uguale intensità in tutte le

creature, dalle più grandi alle più piccole, o una necessità e una concatenazione immutabile di

cause connesse l’una con l’altra: ciò, dico, è stato il suo volere, che sotto l’arbitrio altrui non

avessero a cader se non le cose di minor conto. Quello che ogni uomo ha di meglio rimane fuori

del potere di un altro uomo, non può essere né dato né tolto. Questo nostro mondo, di cui la

natura non ha generato nulla di più grande e di più armonioso, e l’animo capace di contemplare e

di ammirare il mondo, l’animo che ne è anzi la parte più eccelsa, sono nostra perpetua proprietà e

dureranno con noi tanto quanto noi stessi dureremo. Baldi, dunque, e a testa alta, in qualsiasi

luogo ci toccherà di andare, avviamoci con intrepido passo, misuriamo ogni angolo di terra, quale

esso sia: entro i confini del mondo non vi può essere esilio di sorta; nulla infatti che si trovi in

questo mondo è estraneo all’uomo. Da ogni terra lo sguardo si solleva al cielo sempre ad ugual

distanza, tutto ciò che è divino dista sempre del medesimo intervallo da tutto ciò che è umano.

Perciò, fintantoché i miei occhi non siano distolti a forza da quello spettacolo di cui sono

insaziabili, fintantoché mi sia concesso di contemplare il sole e la luna, fissare lo sguardo sugli altri

astri, studiare il loro sorgere e il loro tramontare, le loro distanze e perché essi trascorrano veloci o

più lenti, ammirare tante stelle rilucenti nella notte, alcune immobili, altre non irrompenti per

ampio tratto, ma ruotanti sempre lungo la loro orbita, alcune balenanti all’improvviso, altre

folgoranti lo sguardo quasi con un getto di fiamma, come se cadessero, o solcanti a volo l’immenso

spazio con una vivida scia di luce, fintantoché io possa dilettarmi di siffatti spettacoli e partecipare

alla vita del cielo, per quel che è lecito ad un uomo, fintantoché io riesca a trattenere sempre negli

spazi celesti l’animo mio che anela alla vista delle creature ad esso connaturate, che m’importa di

sapere quale sia il terreno che calpesto?

Seneca, in esilio, trova la forza interiore per andare avanti. Continua ad amare l’universo e la

natura che lo accolgono. Non si lascia sopraffare dalla disperazione per l’abbandono delle cose che

ha sempre amato. Con queste parole consola la madre e se stesso. E’ saggio. Non lascia che le

passioni lo investano. Resiste al dolore. Resiste agli impulsi nemici. Resiste per vivere.

E resistere non fu solo la volontà di un singolo. Infatti, proprio durante la seconda guerra

mondiale, un intero popolo si mosse per preservare la propria dignità e combattere contro un

nemico comune, causa di dolore e morte. Questo fecero i partigiani a Roma e nel nord d’Italia

dopo l’annuncio dell’armistizio con le forze alleate. Reagirono. Accadeva l’8 settembre 1943,

quando il generale Badoglio, capo del governo, divulgava via radio questo messaggio:

"Il governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la soverchiante

potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto

un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo alle forze alleate anglo-americane. La

richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-amerciane

deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi

da qualsiasi altra provenienza".

L’esito positivo della richiesta segnava l’inizio della tragedia per centinaia di migliaia di soldati

italiani abbandonati a se stessi. Non avevano ricevuto alcun preavviso o direttiva dai Comandi

Militari e così, mentre loro cadevano vittime della folle ira tedesca, il re e i membri del governo

scappavano a Brindisi. Nasce ora il Movimento di Resistenza Italiano. Un movimento che vedeva

unirsi sotto di sé persone diverse per età, censo, sesso, religione, orientamento politico ed

impostazione ideologica contro il nazifascismo. Per la prima volta forze civili si uniscono a quelle

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