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Storia: Fascismo
Fellini e la commedia italiana
Tra i film di Fellini, I vitelloni è quello più vicino alle strutture della commedia all'italiana che,
all'epoca, era nel suo momento di formazione. Ma mentre la commedia all'italiana raccontava le
trasformazioni quotidiane del boom economico, in cui si mirava alla conquista degli status symbols
e all'eleganza, gli itinerari del cinema di Fellini, invece, affondano negli archetipi dell'italianità: la
Chiesa cattolica, il mito di Roma da un lato e quello del “borgo natio” dall'altro, Mussolini,
Pinocchio. Un'ulteriore figura particolarmente amata da Fellini è quella del latin lover effeminato,
anti-eroe che con la sua debole mascolinità è il modo in cui il regista prende le distanze dal modello
di virilità invincibile diffuso dal fascismo. Se, come afferma Maurizio Grande, la commedia
all'italiana è “l'Iliade di questo paese sfilacciato, provvisorio, canagliesco, indistruttibile e
immodificabile”, l'opera di Fellini trasforma il materiale della commedia in sogno, o meglio, in
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“visione”.
Fellini, in virtù di una sincera empatia con le forme popolari di spettacolo, si muove dentro
un'angoscia radicata nei territori dell'italianità, fa cioè della crisi della sua identità italiana un'arte;
non l'«arte di arrangiarsi», secondo la formula tipica della commedia, ma quell'Arte oggetto di
ammirazione in tutto il mondo che guarda all'Italia come alla “culla del Rinascimento”, del canto
lirico, della “dolce vita”.
Nel 1954, in un celebre articolo, il critico Guido Aristarco affermava che il “fenomeno Fellini”
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riguardava più “il costume, la psicologia, la sociologia che non l'arte del film”. Sei anni dopo, con
lo straordinario successo de La dolce vita, Fellini sarebbe entrato nei vocabolari di tutto il mondo
elevandosi a sinonimo del cosiddetto Italian Style.
Mentre i protagonisti di La terra trema e Ladri di biciclette, di Riso amaro e Umberto D., sono
“specchio fedele delle condizioni della società italiana nel dopoguerra” e “la loro comprensibilità
3 M. Grande, La commedia all'italiana, Bulzoni, 2003
4 G. Aristarco, La strada, in «Cinema Nuovo», 10 novembre 1954 4
passa necessariamente attraverso una relazione diretta con il contesto che li ha generati”, non si può
dire altrettanto per quelli di Fellini. “Invece di concentrarsi sul ruolo che il contesto svolge sui
destini e sulla personalità di chi lo abita e fornire quindi allo spettatore un quadro dei problemi
economici e sociali”, Fellini ci offre “una galleria di personaggi atipici e volutamente eccentrici”,
che sembrano provenire da “un mondo fittizio che appartiene solo a Fellini, un contesto che
privilegia il gioco tra illusione, fantasia e realtà alla pura descrizione delle condizioni materiali di
vita”. I protagonisti dei primi film di Fellini possono anche “incarnare valori tipici di un particolare
momento sociale; resta comunque il fatto che sembrano essere più vicini a certi tipi fissi della
commedia dell'arte, oppure a certe caricature disegnate da Fellini stesso, sono bozzetti che
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raccolgono in pochi tratti qualità e caratteristiche umane fuori dal tempo” .
5 Tutte le citazioni sono da P.Bondanella, The Cinema of Federico Fellini, Princeton University 5
La grande madre Mediterranea
La vita di provincia così come è evocata in Amarcord e ne I vitelloni (e in misura inferiore anche ne
Il bidone e Le notti di Cabiria) rappresenta il nucleo della sua indagine sull'anima italiana.
I vitelloni narra la storia di di cinque amici scapestrati, in una piccola cittadina romagnola:
Fausto, Moraldo, Alberto, Leopoldo e Riccardo. Fausto amoreggia con Sandra ma scopre
che aspetta un bambino e, dopo un tentativo di fuga, viene obbligato dal padre a sposare la
ragazza, ma né il matrimonio, né la paternità hanno la virtù di renderlo più serio e resta
sempre lo stesso "vitellone", amante dell'ozio, delle avventure, dei passatempi; Alberto è
la figura più patetica del gruppo, un perditempo senza lavoro che vive alle spalle della
famiglia ed in particolare della sorella; Leopoldo, tutto preso da sogni di successi letterari;
Riccardo, pigro e indolente; infine Moraldo, il più giovane e desideroso di lasciare tutti e
di andare a Roma, l'unico che riuscirà a fuggire dalla vita del vitellone, proprio come il
suo alter ego, Fellini stesso.
Lo sceneggiatore Ennio Flaiano ha rivendicato la paternità del termine “vitellone”: “era usato ai
miei tempi per indicare un giovane di famiglia modesta, magari studente, ma o fuori corso, o
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sfaccendato […] credo che il termine sia una corruzione di “vudellone”, grosso budello, persona
portata alle grosse mangiate e passato in famiglia a indicare il figlio che mangia a ufo, che non
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produce, un budello da riempire”.
Sembra indicativo di quanto Fellini abbia precorso il concetto, notare la relazione con l'odierno
“bamboccioni”, termine utilizzato per la prima volta dal ministro dell'economia Padoa-Schioppa in
una discussione alla Camera dell'ottobre del 2007, per indicare i giovani italiani che, a differenza
dei loro coetanei europei, restano a casa e non acquistano autonomia.
L'infantilismo del protagonista de I vitelloni e la sua incapacità di uscire dall'adolescenza sono per
Fellini caratteristiche fondamentali dell'anima italiana e forse più in generale di quella mediterranea.
In un'intervista del 1965 Fellini dice: “L'italiano non vuole ritrovarsi, non vuole riconoscere le
verità individuali; chiude la porta ad ogni tentativo di parlare con se stesso. Per pigrizia, quasi
animalesca, cerca altrove protezione: nella società, nella mamma, nella Chiesa, nei partiti. Siamo
avvolti da un'atmosfera infantile di protezione, quasi non volessimo staccarci dalla grande
mammella. Non vogliamo, cioè, diventare adulti. Può darsi che sia un dato caratteristico della
civiltà mediterranea, questo tipico atteggiamento da "mammone". Di qui l'onnipotenza della
famiglia e la mancanza di fiducia in se stessi.”
Questa mammella protettiva e comprensiva, descritta da Fellini, corrisponde all'archetipo della
“Madre Mediterranea” che Ernst Bernhard, psicoanalista tedesco amico di Fellini, teorizzò nella sua
unica opera: “Mitobiografia”.
6 Citato in T. Kezich, Federico, Feltrinelli, 2007 7
L'influenza di Pinocchio in Fellini
Non si può trattare dell'italianità di Fellini senza parlare di Pinocchio. Anche se Fellini non realizzò
mai un film da Collodi, questa icona nazionale si può ritrovare nella sua opera come ulteriore
archetipo.
Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino è un romanzo scritto da Carlo Collodi e
pubblicato inizialmente a puntate nel 1881 sul «Giornale per i bambini» e in un volume
unico nel 1883. Narra le vicende di una marionetta creata dal falegname Geppetto con un
pezzo di legno regalatogli dal collega-rivale Mastro Ciliegia; non ancora finito, Pinocchio
scappa subito di casa e comincia a cacciarsi nei guai. In un continuo alternarsi di ritorni a
casa, alla vita ordinata e operosa che gli propongono Geppetto, la Fata dai capelli turchini
e il Grillo Parlante (che rappresentano la voce della coscienza) e continue fughe e ricadute
nel vizio suggeritegli dalla cattiva coscienza (di volta in volta rappresentata da Lucignolo,
il Gatto e la Volpe, l'Omino di burro), la storia si alterna in molti episodi gustosi ma con
intento moralistico come quelli di Mangiafuoco, del Giudice Acchiappacitrulli, del Campo
dei Miracoli, del Paese dei Balocchi, del Pescecane...) fino alla catarsi finale con la
definitiva trasformazione di Pinocchio in un bravo ragazzino in carne ed ossa che ormai
ravveduto osservando le sue spoglie di legno appoggiate ad una sedia può dire: “Com'ero
buffo quand'ero burattino!”
In tutti i personaggi maschili felliniani emergono i tratti dell'“eroe” di Collodi come l'assenza di
disciplina, la tendenza all'ozio, l'autocommiserazione, uno stato di permanente infantilismo ma
accompagnato dal desiderio di crescere; Fellini condivide con Pinocchio una visione infantile,
dunque egocentrica, del mondo come immensa rappresentazione generata dalla propria fantasia.
Mondo di cui è anche l'abile manovratore, il burattinaio. 8
Il Pinocchio di Collodi può anche essere interpretato come allegoria di una “modernità angosciata”,
per la paura della mancanza di
un'identità propria, l'angoscia di “non
essere nessuno”: infatti ne I vitelloni è
presente una scena nella quale Alberto,
ubriaco, alla fine di una festa di
carnevale, urla: “Chi sei?... Non sei
nessuno... Non siete nessuno tutti!...
Tutti quanti!”
Il critico Stewart-Steinberg parla, a proposito degli italiani, di un “effetto-Pinocchio” come di una
combinazione di angoscia riguardo la vacuità insita negli italiani, la loro propensione a giustificare
le loro azioni, la loro immaturità e natura di burattini, unita alla voglia di un riscatto che non
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riescono a realizzare.
Si noti come verso la fine del romanzo, quando il burattino diventa un “bambino vero”, non si
trasforma da marionetta in bambino, ma si sdoppia, lascia il burattino dietro di sé per diventare
qualcos'altro. Questo sdoppiamento viene ripreso da Fellini nell'ultima scena de I vitelloni, quella in
cui Moraldo/Fellini prende il treno per
Roma, rifiutando il mondo asfissiante
della provincia, e saluta dal treno il
ragazzino della stazione, con il quale
aveva stretto amicizia, anch'egli
incarnazione dell'autore, “che ritorna
verso il Paese camminando sopra una
rotaia, come per una strada che lo
7 S. Stewart-Steinberg, Fare gli italiani: ossia l'effetto-Pinocchio, 2007, University of Chicago Press 9
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costringa a quel percorso.”
E che Pinocchio sia stato una presenza continua nell'immaginario felliniano è confermato dal fatto
che quando rinunciò alla laurea ad honorem offertagli dall'Università di Bologna, scrisse al rettore:
“Mi consenta una confidenza, mi sento come Pinocchio decorato dal Preside e dai Carabinieri per
essersi divertito nel Paese dei Balocchi”.
8 R. Renzi, Fellini che va Fellini che viene, in Il primo Fellini, Bologna, Cappelli, 1974 10
Amarcord e la fascinazione per il mito della romanità
Fellini rimane colpito sin da bambino dai cerimoniali del regime fascista, come le grandi adunate, le
parate militari, la divinizzazione della figura del gerarca, tutte visioni che entreranno a far parte
della sua filmografia, filtrate dall'occhio dell'infanzia, dato che Fellini aveva cinque anni quando
Mussolini entrò sulla scena politica, e tutta la sua giovinezza è trascorsa sotto il mito del fascismo.
Per il regista il fascismo non è mai rappresentato con atteggiamento di critica né con intento
documentaristico, ma sempre dal di dentro, indagando la maniera psicologica ed emotiva dell'essere
fascisti, in un misto di ignoranza e confusione che chiama spesso in causa lo spettatore con
l'interpellazione degli sguardi in macchina dei personaggi: il pubblico da spettatore diviene
complice, intrappolato al confine tra realtà e finzione, rappresentazione e apologia, attrazione e
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repulsione.
Allo sguardo lucido del regista non poteva sfuggire l'ipocrisia che, crollato un sistema, lo allontana
da sé come se fosse stato un corpo estraneo, senza prendersi la responsabilità per il suo
funzionamento, per la sua durata e dunque per il consenso
accordato. In sostanza anche il fascismo è un vizio
italiano con cui dobbiamo fare i conti, è una grande
coreografia, che funziona da perfetta cornice ideologica
dell'infantilismo dei vitelloni, in una sorta di “patriottismo
alla rovescia” che guarda all'essere italiani come a una
somma di difetti irrimediabili.
Il film Amarcord è del 1973 ed è un affresco della
Romagna degli anni '30, vista dagli occhi di Fellini di
quando da adolescente viveva a Rimini, infatti il titolo è
la trascrizione dialettale dell'italiano “mi ricordo”. In questo film si evidenzia un intrinseco e
9 Tratto da F. Mauri, Che cos'è il fascismo, in D.P.V., Achille Mauri Editore, Milano, 1973 11
imbarazzante legame tra la mentalità fascista e quella italiana, con i fascisti rappresentati come