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Tesina - Premio maturità 2008
Titolo: Dal clipper alla propulsione meccanica
Autore: Manuel Crugliano
Descrizione: storia del passaggio dalla navigazione a vela a quella a motore. studi fisici circa la propulsione velica, la propulsione a motore e gli elementi geometrici della nave. orientamento in mare e studi sull'elissoide.
Materie trattate: storia, inglese, fisica, scienze, matematica.
Area: scientifica
Sommario: Fin dall'antichità si tendeva a costruire velieri capaci di trasportare grandi quantità di merci durante lunghe ed estenuanti navigazioni (caracche, galee, eccâ⬦) I primi a privilegiare la velocità a scapito della portata furono i costruttori americani, con i brigantini e le golette di Baltimora. Queste navi, con una superficie velica molto estesa e con gli alberi inclinati verso poppa, erano dotate di un pesante armamento e condotte da equipaggi ben preparati, disposti ad ogni tipo di fatica e, spesso, costretti a difendere la nave da attacchi nemici a costo della propria vita; avevano inoltre caratteristiche nautiche eccezionali: stringevano il vento e viravano di bordo con una rapidità assolutamente impensabile per gli altri velieri. La loro grande manovrabilità era dovuta a caratteristiche costruttive molto particolari quali il rapporto tra lunghezza e larghezza (erano infatti strette e lunghe), l'assenza del castello, e una elevata insellatura da prua a poppa (cavallino). Col passare degli anni furono denominate clipper le navi a tre alberi armate a vele quadre, in grande numero tra ordinarie ed aggiuntive, e caratterizzate dall'avere una portata piuttosto limitata: i costruttori avevano puntato tutto sulla velocità accontentandosi di caricare un peso solamente uguale o inferiore alla stazza lorda. Possiamo distinguere tipi diversi di clipper in base all'anno di costruzione e all'utilizzo a cui furono adibiti: â⬢ Clipper dell'oppio: dal 1830 al 1850, erano principalmente piccoli brigs e schooners di stazza 300 - 400 tonnellate. â⬢ Clipper da tè americani: dal 1846 al 1860, navi a tre alberi di stazza tra 750 e 1800 tonnellate con lunghezze attorno ai 70 metri (90 fuori tutto). â⬢ Clipper da tè inglesi: dal 1850 al 1880 erano come le navi americane. â⬢ Clipper in ferro Inglesi: dal 1880 a fine secolo, includono tutte le navi di maggiore dimensione e stazza a partire da 2000 tonnellate. Fu proprio nei commerci di questo periodo che si formarono i migliori marinai di sempre, che viaggiando verso la Cina, lottavano per miglia e miglia contro i forti monsoni di bolina. Erano marinai coraggiosissimi, in grado sia di affrontare il mare sia di respingere eventuali attacchi nemici. Uno dei primi clipper prodotti con le nuove concezioni fu il Rainbow di 750 tonnellate. Venne costruito dalla ditta Howlan&Aspiwall, che commissionò la costruzione secondo i disegni di John Griffit. Varato nel gennaio del 1845 il Rainbow dimostrò ottime prestazioni, eseguendo il viaggio da New York a Canton e ritorno in solo 6 mesi e 14 giorni. Nonostante la sua sfortunata sorte il Rainbow, che si suppone sia affondato al largo di Capo Horn, fu il capostipite di una serie di clippers che rese gli Stati Uniti uno dei principali stati marittimi.
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lunga assenza del sole nascosto dalle nubi temporalesche, le poche ore di luce che sono concesse a
quelle latitudini e la vicinanza all’Antartide, abbassano notevolmente la temperatura fino a far congelare
gli spruzzi sulla coperta della barca e sulle vele più basse. Questo mette a dura prova le strutture
dell’imbarcazione.
Sono questi i motivi che resero celebre Capo Horn, oltre ai molti naufragi dei quali si ha conoscenza in
prossimità della fatidica isoletta. Ecco perché tra i marinai è diventato motivo di vanto essere un
“horner”, ossia un doppiatore del terribile capo.
I velieri mercantili
L’appellativo “windjammer” suonava come un insulto, e tale infatti era nelle intenzioni degli
equipaggi dei piroscafi, che lo usavano con disprezzo per descrivere gli enormi scafi a vele quadre che
sfidavano tenacemente l’avvento del vapore sulle rotte mercantili. Quei mostri, dicevano, erano
troppo goffi e ingombranti per muoversi con eleganza nel vento. Ma il sarcasmo si trasformò in
plauso allorché, nei cinquantanni della loro operosa esistenza, quei maestosi velieri rivelarono per
intero la loro effettiva supremazia toccando, dopo secoli di gloriosa evoluzione, il punto più alto
nell’arte della vela.
In fuga sotto i sibili delle raffiche di capo Horn o volando veloci al soffio degli alisei, questi
imponenti vascelli dalle bianche ali erano senza pari per dimensioni, forza e bellezza. Pur con scafi di
lunghezza doppia raggiungevano quasi la stessa velocità degli eleganti clipper di legno che li avevano
preceduti. Grazie alle immense velature sospese ai loro alberi giganteschi, trasportavano nelle capaci
stive migliaia di tonnellate di nitrati, guano, carbone, granaglie e legname, raggiungendo ogni
angolo del mondo.
Fin dall’inizio, quando doppiavano il tempestoso capo Horn e battevano i mari del sud, il fascino
degli windjammer attrasse la gente di mare e di terra. E anche giunti al tramonto, il loro spirito
indomito li spinse a navigare più veloci di ogni rivale.
I maestosi discendenti dei leggiadri clipper
Dopo il ritiro dei clipper, divenuti ormai antieconomici, la maggior parte degli armatori impiegò navi
a vapore. Ma non mancarono però alcuni appassionati che vollero continuare ad avere fede
nell’inalterata competitività dei velieri, purché di tipo giusto. Sul finire dell’Ottocento i cantieri
europei produssero una splendida flotta di velieri, conosciuti con il nome di windjammer. Discendenti
in linea diretta dai clipper, i nuovi
velieri non avevano però scafi in
legno, bensì in ferro e in acciaio; le
loro dimensioni erano notevoli
sotto ogni aspetto. In quasi tutti lo
scafo raggiungeva i l00 m e alcuni
superavano i 120 m. L’alberatura,
con un diametro di un metro alla
base torreggiava fino a più di 60
metri dalla chiglia. Le vele più grandi
pesavano una tonnellata da asciutte,
molto di più se bagnate. La
lunghezza complessiva di cavi,
catene e cime di canapa per le
manovre era di migliaia e migliaia
di metri.
Sulle lunghe distanze in cui
soffiavano alisei forti e regolari, 5
queste nuove navi erano in grado di trasportare carichi enormi, fino a 8000 tonnellate, a grande
velocità.
Il loro grande vantaggio consisteva nel fatto di poter trasportare in grandi quantità da località
remote e di difficile accesso, le materie grezze necessarie proprio a quell’industria meccanica la cui
affermazione avrebbe decretato la loro fine.
Cile, Perù, Australia e America nord-occidentale distavano migliaia di miglia dall’Europa, sulle rotte
più pericolose del globo. Le navi che partivano dall’Europa dirette a occidente dovevano combattere
contro i forti venti di burrasca, ben noti con il nome di “quaranta ruggenti”, che quasi di continuo
imperversavano lungo il 10° di latitudine.
In quei primi anni della navigazione a vapore i grandi velieri presentavano molti vantaggi. Potevano
superare ogni tempesta ed emergere indenni da ondate spaventose che avrebbero sbriciolato
ciminiere, allagato caldaie, accartocciato eliche come fossero di latta. Tra il 1880 e il 1890 in
condizioni di bel tempo i piroscafi tenevano una media di 7 nodi. I velieri facevano spesso di
meglio, salvo in caso di bonaccia o di brezze contrarie. Inoltre il vento era gratuito mentre le stazioni di
rifornimento per il carbone nei mari del Sud erano rare e imponevano prezzi molto alti. Anche i costi di
gestione dei piroscafi erano elevatissimi, e seppur il prezzo del carbone saliva a mano a mano che ci si
allontanava dal proprio porto, era necessario fare continui trasporti per ricavare il profitto necessario a
coprire le spese dell’imbarcazione. I velieri al contrario avevano un costo di gestione irrisorio e
potevano stare per settimane in rada in attesa del carico, per poi salpare verso casa. Il grande segreto
della loro costruzione era l’acciaio. Paratie, piastre per lo scafo e perfino alberi di acciaio conferivano
loro un'enorme robustezza e rendevano possibili dimensioni tanto imponenti. Anche le linee dello
scafo iniziavano a cambiare, favorendo le murate alte e verticali con fondi piatti, che consentivano un
carico maggiore, piuttosto che fianchi e fondo arrotondati. Le alberature erano aumentate da tre a
quattro e addirittura cinque, e i piani velici si stavano modificando, con l’introduzione delle cosiddette
vele di taglio posizionate tra i vari alberi, che aumentavano molto la manovrabilità. Rispetto ai clipper,
si ebbe anche una riduzione della velatura che permise la diminuzione dell’equipaggio, senza
limitare tuttavia la velocità dell’imbarcazione.
Le migliorie tecniche apportate aumentarono anche la sicurezza degli equipaggi: si costruì una zona
rialzata a centro barca (tuga) che spezzava i marosi e consentiva al capitano e agli ufficiali di dormire
in una zona più comoda. Inoltre vennero creati i cosiddetti “flying bridges”, ossia ponti voltanti che
collegavano la zona centrale al castello di prua e consentiva alle persone a bordo di evitare l’acqua sul
ponte.
Sicuramente non potevano eguagliare le punte di velocità dei leggendari clipper, ma le nuove navi a vela
erano molto vicine ai predecessori per quanto riguarda le prestazioni. Ne è un esempio la nave
Herzogine Cecilie, comandata dal capitano Sven Eriksson, che riuscì in condizioni di mare calmo e
vento forte, a percorrere 164 miglia in 13 ore, tenendo una media di circa 13 nodi, con punte di 21.
La vita di bordo per i marinai era durissima. Turni massacranti, il dover imbrogliare e sbrogliare le
vele appena si avvertiva un cenno di peggioramento o miglioramento del tempo, erano compiti
piuttosto ardui e gli incidenti erano molto frequenti. Capitava spesso, durante una tempesta, di
rimanere per più di sette ore in cima ai pennoni per imbrogliare una vela fradicia e pesantissima, e
causa la stanchezza e il rollio della nave, altrettanto spesso si poteva cadere.
Oltre a ciò ricordiamo che ad ogni fischio dell’ufficiale i mariani dovevano correre per manovrare
(ruotare e regolare) le vele, specie quando il vento cambiava spesso direzione.
Vento e mare erano gli unici elementi a influenzare le caratteristiche di governo di un veliero; perciò
la posizione degli alberi, il taglio delle vele, qualche lieve differenza nella forma della carena,
potevano provocare un diverso rendimento in velieri gemelli. Un carico stivato senza troppa cura
poteva far assumere alla nave un cattivo assetto trasformandola in una goffa carcassa, poco
maneggevole. Addirittura se il carico si spostava durante una tempesta poteva far ingavonare la nave,
il che l’avrebbe probabilmente fatta colare a picco, a causa dell’acqua che entrava dai boccaporti.
Anche l’ormeggio era molto difficoltoso, ma una grande dose di bravura del capitano e
dell’equipaggio, e la grande manovrabilità di queste navi, facevano effettuare ormeggi bellissimi e
spettacolari che certamente rendevano orgogliosi i comandanti. 6
Comparsa della propulsione meccanica
Nella storia dell’uomo, l’avvento delle macchine segna l’inizio di una nuova era. Affinché la marina
adottasse la macchina a vapore come mezzo propulsivo era necessario che venisse fornita energia in
maniera costante e regolare. Il primo dispositivo meccanico adottato come propulsore per una nave fu
la ruota, simile a quella di un mulino, con i raggi costituiti da pale.
Le prime notizie sull’utilizzo di questo sistema risalgono alla prima guerra punica, durante la quale si
suppone che siano state utilizzate per
muovere piccole navi o zattere: le
ruote erano collegate a buoi e
ruotavano attorno ad un asse verticale.
Altri tentativi di introduzione della
ruota risalgono al Medio Evo, ma per
arrivare a qualcosa di più serio bisogna
arrivare al principio del settecento: nel
1690 il francese Papin fu il primo che
cerco di realizzare una macchina a
vapore che azionasse ruote, ma i
battellieri del fiume Weser distrussero
il suo progetto.
Migliori risultati vennero ottenuti da
Jouffroy d’Abbans, che era riuscito a costruire una macchina a vapore del tipo di Watt e che sistemò su
un battello lungo 14 metri: grazie a questo congegno riuscì a navigare sul fiume Doubs nel 1778.
Occorre arrivare all’ottocento perché la propulsione a vapore si affermi. Il nordamericano Robert
Fulton viene considerato il padre della navigazione a vapore. Associatosi al diplomatico americano
Livingston costruì a Parigi un piccolo battello e, dopo l’affondamento di questo nella Senna, a causa di
una tempesta, ne costruì uno più grande e robusto con il quale navigò con successo il 9 agosto 1803.
Dopo il disinteresse di Napoleone per la sua invenzione, tornò negli Stati Uniti, portando con sé un
motore a vapore della potenza di 24 cavalli che aveva fatto costruire in Gran Bretagna.
Con il sostegno finanziario di Livingston, Fulton potè allestire una nave che battezzò Clermont, con la
quale realizzò il primo servizio di trasporto tra New York e Albany: con questo bastimento lungo 50
metri e largo 5, con una stazza da 150 tonnellate, fu inaugurata l’era della navigazione a vapore.
Negli anni successivi furono migliorati i motori dal punto di vista tecnico e gli scafi in legno vennero
sostituiti da quelli in ferro e in acciaio, come era già accaduto per i grandi velieri. Si noti però che fino a
tutto il 1870, le navi a vapore
erano comunque dotate di
ampie velature, dato che i
motori dell’epoca non davano
grande affidabilità e il consumo
di carbone era tale che quando
possibile si preferiva andare a
vela.
Pochi anni dopo i felici risultati
del Clermont, il Savannah, 389
tonnellate, eseguì la prima
traversata dell’atlantico: il 26
maggio 1819 navigò dapprima
a vapore, poi, sfruttando i venti
favorevoli proseguì a vela fino
al largo di Capo Lizard, quando
il comandante per fare bella
figura fece rimontare le ruote e
riattivò la caldaia, entrando,
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infine, nel porto di Liverpool il 22 giugno.
Il Curaçao fu la prima nave che fece la traversata dell’atlantico unicamente con l’ausilio del vapore
(1827). Le ruote laterali ebbero un discreto successo fino al 1840, quando si tentò di introdurre a
poppa delle navi l’elica, elemento propulsivo già testato sui primi sottomarini, progettati dallo stesso
Fulton. Fu la gara organizzata tra due imbarcazioni, di uguali dimensioni, dislocamento e potenza, che
differivano solamente per il sistema di propulsione, che diede la vittoria all’elica. Nel frattempo anche i
motori furono soggetti ad importanti migliorie tecniche: ad esempio si riuscì ad aumentare
enormemente la potenza, fino ad arrivare al Great Eastern, piroscafo inglese varato nel 1858, che
disponeva di 11.000 cavalli e arrivava a 14 nodi di velocità.
Nei primi anni del 1900 il tedesco Diesel, condusse studi su un nuovo tipo di motore, a combustione
interna. Si trattava di un innovativo apparato che poté offrire consumi limitati, anche se a velocità non
eccessive. Naturalmente si dovettero superare notevoli difficoltà tecniche quali la realizzazione di
opportune camere di scoppio (espansione), l’abbattimento delle temperature elevatissime (2000 gradi