Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
Italiano: Giacomo Leopardi; Luigi Pirandello
Filosofia: Friedrich Nietzsche
Latino: Seneca
Fisica: l'entropia
Greco: l'Ellenismo (Menandro e Apollonio)
Ed. fisica: l'allargamento degli orizzonti nello sport (Diego Armando Maradona)
Storia: l'allargamento degli orizzonti nella guerra fredda (Yuri Gagarin)
L'universo può essere osservato da diverse prospettive, con gli occhi del poeta, del filosofo e dello
scienziato, ciascuno dei quali interpreta i fenomeni celesti secondo la propria ideologia e cultura. Spesso,
infatti, gli artisti hanno mostrato di non rimanere indifferenti di fronte alla vastità del cosmo.
GIACOMO LEOPARDI e la CRITICA all’ANTROPOCENTRISMO
Quest’atteggiamento contemplativo è tipico del Giacomo Leopardi lirico degli “Idilli”, nei quali il poeta è
attratto soprattutto dalle sensazioni d’indefinito, di vago e d’infinito che i paesaggi notturni suscitano nel
suo animo: ricordiamo a tal proposito che la sua interlocutrice prediletta fu un corpo celeste, la Luna. In
questa prima fase la Natura è ancora considerata un’entità positiva e benefica, non tanto perché essa
assegni all’uomo una condizione realmente felice, ma perché produce generose illusioni che rendono la vita
sopportabile. La civiltà umana ha però distrutto tali illusioni e ha mostrato all’uomo la vera condizione della
vita sulla Terra: l’infelicità dell’uomo è dunque un dato storico. Nell’ultima fase della sua poesia, Leopardi
ritiene invece che siano le condizioni stesse della vita a rendere infelice l’uomo. La natura non è più madre
benevola ma matrigna crudele. La ragione, precedentemente considerata come una delle cause
dell'infelicità umana, ora tende ad apparirgli un efficace strumento conoscitivo, capace di svelare le
contraddizioni del reale. Essa non conduce alla felicità, condizione negata all'uomo, e anzi può contribuire a
fargli sentire più intensamente l'infelicità, ma lo rende anche consapevole della propria condizione e lo
libera dalle false credenze, come l'irrisoria superbia di chi si crede misura e fine dell'universo. La
constatazione della fragilità umana di fronte alla natura non porta Leopardi a fabbricarsi un mitico "regno
dello Spirito", ma ad una radicale dissacrazione di ogni atteggiamento antropocentrico.
Questo atteggiamento critico verso l’illusione antropocentrica, derisa in nome della marginalità dell’uomo
nell’Universo, è ampiamente sviluppata in alcune delle “Operette morali”, prose e dialoghi filosofici iniziate
a partire dal 1824. In particolare, l’operetta “Il Copernico”, composta nel ’27, è fondata sul tema
dell'insignificanza degli uomini in contrasto con l’immensità dell'universo e dell'alta idea che l'uomo ha di se
stesso. In essa è immaginato un dialogo tra Copernico e lo stesso Sole. Quest’ultimo, stanco di girare
attorno alla Terra, decide di chiamare a sé l’astronomo polacco per far sì che sia la Terra a girare. Questa
scena, come affermato dallo stesso Leopardi una lettera a De Sinner, simboleggia la "nullità del genere
umano". La condizione marginale riservata all'uomo nell'universo risalta soprattutto nel momento in cui il
Sole afferma di essere stanco "di questo continuo andare attorno per far lume a quattro animaluzzi, che
vivono in un pugno di fango tanto piccino" e nelle parole di Copernico, il quale afferma che la nuova teoria
eliocentrica non porterà semplicemente conseguenze materiali ma "sconvolgerà i gradi della dignità delle
cose, l'ordine degli enti e scambierà i fini delle creature". In questo modo, quindi, la “maestà terrestre”
dovrà abbandonare il trono e l'impero, e gli uomini resteranno soli con i loro stracci e con le loro miserie. Il
Sole conclude affermando che se ciò stravolgerà troppo gli uomini, possono continuare a illudersi della loro
“raziocinando a rovescio”, “essi ne staranno più consolati”.
centralità, se 4
Leopardi, dopo aver rivolto la satira polemica contro l’antropocentrismo Canzone libera
nelle Operette, con il Canto
notturno di un pastore errante dell’Asia ne riprende implicitamente le conclusioni. Tutta la seconda strofa,
dedicata all’allegoria del “vecchierel bianco, infermo”, presenta infatti una natura ostile ed estrema. Ma, più
che la negatività, conta qui la mancanza di significato, che si esprime nella distanza e nell’indifferenza tra
soggetto e oggetti naturali. Ciò che il pastore, che rappresenta lo stesso Leopardi, vorrebbe sapere dalla
“silenziosa luna” è appunto il significato dei “deserti” che egli percorre, di “greggi, fontane ed erbe” che
incontra, il significato della “primavera” e del caldo estivo, dell’invero con i suoi “ghiacci”. L’assenza di
significato nel paesaggio indica il venir meno del privilegio dell’uomo nel cosmo. L’universo non è più
sentito come una cornice della condizione umana: la terra non è fatta per l’uomo, né lo è l’Universo; anzi, né
l’uno né l’altro sono fatti per nessun vivente. Canzone libera di settenari e endecasillabi
Queste tematiche, infine, verranno riprese anche nel canto “La Ginestra”, in particolare nei versi 158-201
nei quali il poeta, mentre si trova da solo in “queste rive desolate che il flutto indurato veste” (cioè nel
paesaggio desolato del Vesuvio ricoperto da dura roccia), si abbandona apparentemente ad un'idilliaca
contemplazione del cosmo.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, 160
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro 165
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch’a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare 170
Veracemente; a cui
L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l’uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti 175
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole, 5
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle 180
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell’uomo? E rimembrando 185
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro 190
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell’universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta 195
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m’assale? 200
Non so se il riso o la pietà prevale.
Quarta strofa di quello che è sempre stato considerato l’estremo messaggio della riflessione leopardiana, è
la grande strofe cosmica del canto, dantesca per l’ampiezza della struttura e della concezione, ma
lontanissima dalla prospettiva religiosa di Dante. Infatti mentre il poeta spazia con lo sguardo per il
"purissimo azzurro", fiammeggiante di stelle e di "nodi quasi di stelle", cioè di nebulose, il mistero
spaventoso della grandezza dell’universo non spinge Leopardi a vedere la necessità di una divinità creatrice;
al contrario, diviene la dimostrazione della solitudine e della marginalità dell’uomo, cosa che Leopardi non
dimentica mai, essendo abitante di questa "mesta landa", di questo "punto in una luce nebbiosa". Leopardi
quindi ribadisce ancora una volta l'assoluta trascurabilità dell'uomo e dell'intero pianeta rispetto
all'universo e lo fa con osservazioni tecniche, come la distanza fra le stelle della nostra galassia e fra la
nostra e le altre nebulose: in un crescendo quasi drammatico, il poeta ricorda che siamo minima parte sulla
terra (“globo ove l’uomo è nulla”), e che a sua volta esso è minima parte di un sistema solare sperduto e
ignoto tra infiniti altri: nonostante questo, l’uomo pretende di essere il centro e del creato e di aver
ricevuto spesso visite degli dei creatori, (“e quante volte favoleggiar ti piacque, in questo oscuro granel di
sabbia, il qual di terra ha nome, per tua cagion, dell’universe cose scender gli autori”) ritenendosi
6
interlocutore privilegiato della divinità (“e conversar sovente co’ tuoi piacevolmente”). Accanto alla vena
antireligiosa, questi versi presentano una contestazione della mentalità antropocentrica di gran parte dei
sistemi di pensiero esistenti (“e che i derisi sogni rinnovellando, ai saggi insulta fin la presente età, che in
conoscenza ed in civil costume sembra tutte avanzar”). Negli ultimi versi di questa strofa, l’autore si chiede
quale sentimento o quale pensiero provi per la “mortal prole infelice”, cioè l’umanità, rispondendo da solo
che non sa se sia il riso o la pietà. Infatti, il comportamento dell’uomo è ridicolo rispetto alla ragione,
tuttavia è comprensibile e perdonabile, tenuto conto proprio della sua fragilità.
La critica all’antropocentrismo dominante si innesta perfettamente nel tema centrale della Ginestra, nella
quale viene appunto delineata la triste condizione umana sulla terra e viene smentita ogni tendenza
filosofica e religiosa fiduciose nel valore della specie umana. Bisogna che tutti gli uomini abbiano tale
coscienza, in modo che sia individuato il vero nemico degli uomini, la natura.
RISPOSTA DI LEOPARDI ALLA MARGINALITÀ DELL’UOMO. Gli uomini devono compiere un’alleanza tra tutti
loro, tesi a costruire una rete di solidarietà e di soccorso reciproco. Modello positivo di tale comportamento
è offerto dall’umile ginestra, che attende sulle pendici del vulcano la distruzione senza cercare risarcimento
in illusorie prospettive, anzi preparandosi a piegarsi sotto la lava.
[altri componimenti importanti in questo senso di leopardi: dialogo della terra e della luna, dialogo della natura e di un
islandese]
FRIEDRICH NIETZSCHE e l’AUTOMINIMIZZAZIONE dell’UOMO
La marginalità cui l'uomo va incontro in seguito al messaggio copernicano comporta in Leopardi e in
Nietzsche riflessioni del tutto analoghe, infatti anche per quest'ultimo la rivoluzione copernicana non è solo
una scoperta astronomica innovatrice, ma è anche e soprattutto una scoperta che comporta una
rivoluzione di carattere metafisico. Una volta che la Terra ha perduto la sua centralità, l'uomo è di
conseguenza costretto ad una autominimizzazione, che ne intacca profondamente la superbia di re
dell'universo. Questo messaggio è contenuto nell'opera nietzscheana “Genealogia della morale”, dove il
filosofo afferma: "…Da Copernico in poi, si direbbe che l'uomo sia finito su un piano inclinato, ormai va
rotolando, sempre più rapidamente, lontano dal punto centrale. Dove? Nel nulla?…". La rivoluzione
copernicana, nella coscienza di Nietzsche, induce l'uomo ad autodiminuirsi, ad autominimizzarsi prima di
tutto nella sua dimensione ontologica. Però Nietzsche, a differenza di Leopardi, non condivide
l’autodiminuirsi dell’uomo in seguito al copernicanesimo, anzi egli ritiene che la Rivoluzione Copernicana
sia uno dei motivi che hanno portato l’uomo alla sua debolezza attuale, a rifiutare la dimensione tragica e
dionisiaca dell’esistenza. Nietzsche, invece, ha una visione del mondo dalla quale si possa trarre ancora un
motivo di celebrazione dell'uomo stesso, a differenza della visione dell’uomo comune, che per Nietzsche è
divenuto una “bestia malata”. Questo recupero della dimensione umana è possibile per la concezione di un
mondo come un "felice circolo" nel quale opera l'"eterno ritorno dell'uguale". Nietzsche sostiene che tutto
7
l’Universo è in continuo cambiamento, in un ciclo di creazione e distruzione. Ma dato che la quantità di
materia dell’universo è finita, mentre il tempo in cui essa si dispiega è infinito, le manifestazioni del mondo
devono per forza ripetersi. Nietzsche presenta questa teoria come il pensiero più profondo e decisivo della
propria filosofia, definendolo “il più abissale” dei suoi pensieri. L’eterno ritorno funge da spartiacque tra