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Traccia e soluzione saggio breve Violenza e non-violenza Pag. 1
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Sintesi
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tracce e soluzioni della Prima Prova di Italiano – Saggio breve storico-politico Violenza non violenza i due volti del novecento

Qui sotto troverete la soluzione e le tracce del saggio breve di ambito storico-politico (tipologia B) che è stato assegnato durante la maturità 2014 prima prova sul "Violenza e non-violenza: due volti del Novecento" . In questa pagina troverete le tracce che i nostri tutor stanno svolgendo per voi in tempo reale. Se siete interessati all'argomento non andate via: a breve troverete quello che state cercando!

SOLUZIONE ALLA TRACCIA

Violenza e non violenza, due aspetti di un grande secolo, il Novecento.

Nel corso del Novecento la violenza si è manifestata in tutte le sue sfaccettature, sfociando nei più svariati aspetti, come la brutalità, la violenza intesa come forza creativa e come forza della vita, in connessione all’ordinamento giuridico di ogni singolo Stato. Viceversa questo secolo è stato anche caratterizzato da logiche pacifiste che fanno da contraltare alle dinamiche violente che si sono manifestate, come la lotta pacifista della non violenza di Mohandas K. Gandhi e di Martin Luther King, forte sostenitore della non violenza e della parità di diritti tra neri e bianchi negli Stati Uniti.

In “Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti”, trad.it, Roma-Bari 1990, George L. Mosse intende la violenza come brutalità, manifestatasi soprattutto nel corso dei due conflitti mondiali. Sia la politica, dominata da Stati a carattere nazionalista, che la guerra hanno creato una logica violenta e brutale che conduce l’essere umano a non provare più alcun interesse per gli altri individui e per la vita umana in sé. Questo aspetto è evidente chiaramente dalle parole di Mosse: “Da un capo all’altro dell’Europa, parve a molti che la Grande Guerra non fosse mai finita, ma si fosse prolungata nel periodo tra il primo e il secondo conflitto mondiale”. Nel corso delle due guerre infine si va anche definendo un modello di società permeato dal valore della violenza come brutalità, inculcato dai sistemi di potere dell’epoca.

Contrapposto a questo modello di valori, è il concetto pacifico di non violenza, trasmesso da una delle figure più significative della storia del XX secolo, l’indiano Mohandas K. Gandhi che, in “Antiche come le montagne”, Edizioni di Comunità, Milano 1975, definisce la non violenza come il principio più importante per cercare di scardinare e sconfiggere la violenza, definita come “la legge dei bruti”. Egli sostiene che la strada migliore che dovrebbe intraprendere il suo Paese e tutto il resto dei Paesi mondiali sia quella contrassegnata dal pacifismo, dalla protesta silenziosa e non violenta che facciano da contraltare alle logiche totalitarie e chiuse, che ricorrono a mezzi illeciti, a pratiche barbare e cruente. Per riassumere in breve Gandhi sottolinea come ”La religione della non violenza non è fatta solo per i Rishi (saggi) e i santi” e “La dignità dell’uomo esige ubbidienza a una legge più alta, alla forza dello spirito…”. Le sue parole hanno cambiato tantissimo l’India, così come il modo di agire delle altre minoranze e di altri sistemi politici mondiali.

In Sulla Violenza, trad. it. Guanda, Parma 1996 (ed. originale 1969), Hannah Arendt ricorda come la violenza fosse definita come una “manifestazione della forza della vita e segnatamente della sua creatività”. La scrittrice sostiene quindi come nell’accezione filosofica quest’ultima venga intesa come una forza vitale energica e creativa che riesce ad essere in grado di dominare il mondo. Questa manifestazione vitale si trasmette anche alla società, come risulta chiaro da queste parole: “Tutti sappiamo fino a che punto questa combinazione di violenza, vita e creatività sia presente nell’inquieta situazione mentale della generazione odierna”. Infine Harendt sostiene di non essere d’accordo con queste considerazioni di stampo filosofico, criticando infatti le visioni di Bergson e di Sorel.

In un articolo pubblicato da La Repubblica, viene riportato un discorso dello statunitense Martin Luther King, il principale esponente della lotta non violenta afroamericana per l’ottenimento dei diritti civili e della pari uguaglianza tra neri e bianchi negli Stati Uniti d’America. Dalle sue parole emerge come fosse giunto il momento di porre fine nel proprio Paese alla segregazione degli afroamericani, in modo tale da ristabilire un grado di giustizia e di parità con il sistema di potere dominato dai bianchi che ha un’egemonia anche negli altri settori importanti, come quello economico e sociale. Dalle sue parole emerge quanto segue: “Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima”. Con queste parole Martin Luther King si fa portavoce sia dei principi della non violenza sia dei principi democratici, i quali devono essere diffusi nel resto del mondo.

Anche nell’ambito giuridico la violenza si insinua in maniera travolgente, infatti, come dice Walter Benjamin in “Per la critica della violenza”, 1921, trad. it., Alegre, Roma, 2010 essa costituisce da sempre una minaccia nei confronti del sistema giuridico. Un esempio di questa manifestazione di tipo negativo è rappresentato dal diritto sindacale che da mezzo di tutela, parità e uguaglianza dei lavoratori diviene un elemento che, talvolta, può essere esercitato in funzione di pratiche violente. Questi concetti sono espressi dall’autore in questo modo: “Contro questo modo di vedere si può certamente obiettare che l’omissione di azioni, un non-agire, come in fin dei conti è lo sciopero, non dovrebbe essere affatto definita come violenza”.

Il XX secolo quindi è caratterizzato da due fenomeni opposti l’uno all’altro, come la violenza, che nelle sue varie manifestazioni, attraversa i vari ambiti del pensiero, come per esempio quello politico, quello filosofico, sociale ed economico e la non violenza che si basa su principi democratici, spirituali che dovrebbero diffondersi in tutto il mondo.

Giorgia Mocci


COMMENTO ALLA TRACCIA

Il saggio storico-politico descrive il tema della violenza e della non violenza nel corso del Novecento. Come dice George L. Mosse: "Successivamente alla Prima Guerra mondiale, il Mito dell'esperienza della Guerra aveva dato al conflitto una nuova dimensione come strumento di rigenerazione nazionale e personale".
Come dice Walter Benjamin in Per la critica della violenza, "Per quale funzione la violenza possa, a ragione, apparire così minacciosa per il diritto e possa essere tanto temuta da esso, si mostrerà con esattezza proprio là dove le è ancora permesso di manifestarsi secondo l'attuale ordinamento giuridico". Così Hannah Harendt descrive in Sulla violenza il concetto di violenza: "Molto tempo prima che Konrad Lorenz scoprisse la funzione di stimolo vitale dell'aggressività nel regno animale, la violenza era esaltata come una manifestazione della forza della vita e segnatamente della sua creatività".
Viene riportato anche il punto di vista di Gandhi in Antiche come le montagne. Egli spiega il concetto di non violenza così: "...La religione della non violenza non è fatta solo per i Rishi (saggi) e i santi..."
Infine le ultime parole tratte da un articolo di repubblica.it sono significative per comprendere come per Martin Luther King la lotta per la libertà sia importante raggiungerla con le pratiche della non violenza:"Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina".

Estratto del documento

Pag. 5/7 Sessione ordinaria 2014

Prima prova scritta

Ministero dell’Istruzione, dell’ Università e della Ricerca

3. AMBITO STORICO - POLITICO

ARGOMENTO: Violenza e non-violenza: due volti del Novecento.

DOCUMENTI

«Successivamente alla prima guerra mondiale, il Mito dell’Esperienza della Guerra aveva dato al conflitto una

nuova dimensione come strumento di rigenerazione nazionale e personale. Il prolungarsi degli atteggiamenti degli

anni di guerra in tempo di pace incoraggiò una certa brutalizzazione della politica, un’accentuata indifferenza per

la vita umana. Non erano soltanto la perdurante visibilità e lo status elevato dell’istituzione militare in paesi come

la Germania a stimolare una certa spietatezza. Si trattava soprattutto di un atteggiamento mentale derivato dalla

guerra, e dall’accettazione della guerra stessa. L’effetto del processo di brutalizzazione sviluppatosi nel periodo tra

le due guerre fu di eccitare gli uomini, di spingerli all’azione contro il nemico politico, oppure di ottundere la

sensibilità di uomini e donne di fronte allo spettacolo della crudeltà umana e alla morte. […] Dopo il 1918,

nessuna nazione poté sfuggire completamente al processo di brutalizzazione; in buona parte dell’Europa, gli anni

dell’immediato dopoguerra videro una crescita della criminalità e dell’attivismo politico. Da un capo all’altro

dell’Europa, parve a molti che la Grande Guerra non fosse mai finita, ma si fosse prolungata nel periodo tra il

primo e il secondo conflitto mondiale. Il vocabolario della battaglia politica, il desiderio di distruggere totalmente

il nemico politico, e il modo in cui questi avversari venivano dipinti: tutto sembrò continuare la prima guerra

mondiale, anche se stavolta perlopiù contro nemici diversi (e interni).»

George L. M , Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, trad. it., Roma-Bari 1990

OSSE

«Per quale funzione la violenza possa, a ragione, apparire così minacciosa per il diritto e possa essere tanto temuta

da esso, si mostrerà con esattezza proprio là dove le è ancora permesso di manifestarsi secondo l’attuale

ordinamento giuridico. È questo il caso della lotta di classe nella forma del diritto di sciopero garantito ai

lavoratori. I lavoratori organizzati sono oggi, accanto agli Stati, il solo soggetto di diritto cui spetti un diritto alla

violenza. Contro questo modo di vedere si può certamente obiettare che l’omissione di azioni, un non-agire, come

in fin dei conti è lo sciopero, non dovrebbe affatto essere definita come violenza. Questa considerazione ha

certamente facilitato al potere statale la concessione del diritto di sciopero, quando ormai non si poteva più evitare.

Ma poiché non è incondizionata, essa non vale illimitatamente.»

Walter B , Per la critica della violenza, 1921, trad. it., Alegre, Roma 2010

ENJAMIN

«Molto tempo prima che Konrad Lorenz scoprisse la funzione di stimolo vitale dell’aggressività nel regno animale, la

violenza era esaltata come una manifestazione della forza della vita e segnatamente della sua creatività. Sorel, ispirato

dall’élan vital di Bergson, mirava a una filosofia della creatività destinata ai «produttori» e polemicamente rivolta contro

la società dei consumi e i suoi intellettuali; tutti e due, a suo avviso, gruppi parassitari. […] Nel bene e nel male – e credo

che non manchino ragioni per essere preoccupati come per nutrire speranze – la classe veramente nuova e potenzialmente

rivoluzionaria della società sarà composta di intellettuali, e il loro potere virtuale, non ancora materializzato, è molto

grande, forse troppo grande per il bene dell’umanità. Ma queste sono considerazioni che lasciano il tempo che trovano.

Comunque sia, in questo contesto ci interessa soprattutto lo strano revival delle filosofie vitalistiche di Bergson e di

Nietzsche nella loro versione soreliana. Tutti sappiamo fino a che punto questa combinazione di violenza, vita e creatività

sia presente nell’inquieta situazione mentale della generazione odierna. Non c’è dubbio che l’accento posto sulla pura

fattualità del vivere, e quindi sul fare l’amore inteso come la più gloriosa manifestazione della vita, sia una reazione alla

possibilità reale che venga costruita una macchina infernale capace di mettere fine alla vita sulla terra. Ma le categorie in

cui i nuovi glorificatori della vita riconoscono se stessi non sono nuove. Vedere la produttività della società

nell’immagine della ‘creatività’ della vita è cosa vecchia almeno quanto Marx, credere nella violenza come forza vitale è

cosa vecchia almeno quanto Bergson.» Hannah A , Sulla violenza, trad. it., Guanda, Parma 1996 (ed. originale 1969)

RENDT

«Non sono un visionario. Affermo di essere un idealista pratico. La religione della non violenza non è fatta solo

per i Rishi [saggi] e i santi. È fatta anche per la gente comune. La non violenza è la legge della nostra specie, come

la violenza è la legge dei bruti. Lo spirito resta dormiente nel bruto, ed egli non conosce altra legge che quella della

forza fisica. La dignità dell’uomo esige ubbidienza a una legge più alta, alla forza dello spirito. […] Nella sua

condizione dinamica, non violenza significa sofferenza consapevole. Non vuol dire sottomettersi docilmente alla

volontà del malvagio, ma opporsi con tutta l’anima alla volontà del tiranno. Agendo secondo questa legge del

nostro essere, è possibile al singolo individuo sfidare tutta la potenza di un impero ingiusto per salvare il proprio

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