Percorso Modello e antimodello
Modello e antimodello
“Modello” è qualcosa che per le sue intrinseche qualità viene considerato superiore, eccellente, e come tale viene assunto come emblema, come esempio da imitare. Di conseguenza l’“antimodello” è la negazione del modello, la ribellione al canone convenzionalmente imposto alla luce di nuove situazioni e di nuove esigenze.
Sin dall’inizio la letteratura, l’arte e la filosofia non sono state altro che l’alternarsi di “modelli” e “antimodelli”, cioè l’imposizione di canoni e la rottura di essi per crearne di nuovi, in concomitanza con l’avvicendarsi di diverse situazioni storiche e sociali.
Nell’Antica Grecia il modello prevalente era quello dell’epos omerico: l’epica si faceva portatrice di valori e ideali e trasmettitrice della cultura di generazione in generazione; all’eroe e alle sue gesta veniva data rilevanza universale, ed essi venivano cantati dagli aedi e dai rapsodi di fronte alle masse, dato il forte legame che si poteva creare, all’interno del microcosmo della polis, tra poeta e pubblico.
Uno degli esponenti più significativi di questa nuova poetica fu Callimaco: egli rinuncia a trasmettere contenuti elevati o impegnati, a favore di una letteratura caratterizzata da leptotes (leggerezza), pur conservando ancora la qualifica di sofòs, perché possiede una completa padronanza degli strumenti espressivi e una minuziosa erudizione, che si manifesta nella ricerca del raro, dell’originale, delle versioni meno note dei miti. Callimaco ritiene che l’opera d’arte debba essere stilisticamente e formalmente perfetta, di una raffinata e controllata brevità (oligostichie), così come proclama nel prologo degli Aitia: egli dichiara orgogliosamente di essere “poeta di pochi versi”, e che il bello deve essere giudicato “sulla base dell’arte e non a chilometri”; “tuonare non è compito mio, ma di Zeus”, e, sostenendo la necessità di una poesia originale che si distacchi dalla stanca e monotona ripetizione dei miti della tradizione, afferma: “Percorri la strada non calpestata dai carri, spingi il cocchio non sulle orme di altri, non su larghi viali, ma per sentieri segreti, anche se vai per una calle stretta”.
Nell’epigramma XII, 43 conservato nell’Antologia Palatina, esprime il disprezzo per tutto ciò che è volgare e in particolare per i “poemi del ciclo” epico (to poiemà to kuklikòn): “Detesto la poesia di consumo, non mi piace una strada percorsa da molti, in su e in giù, così come nella chiusa all’ “Inno ad Apollo” il dio declama: “La suprema qualità non sta nell’Eufrate, un fiume immenso ma fangoso, sta in una piccola fonte da cui zampilla un’acqua limpida e pura”
La poetica di Callimaco si riflette anche nello stile, a volte difficile e oscuro per la presenza di parole rare (glosse), espressioni dotte, allusioni erudite, il tutto inserito in una trama apparentemente semplice e levigata: anche questo è il segno di un nuovo tipo di letteratura, destinata non più alle masse ma a un pubblico d’élite.
Il modello epico non è solo oggetto di critica, ma anche di capovolgimento. Infatti, il modello epico dell’ “Eneide”, composta da Virgilio nel I secolo a.C., agli inizi del principato di Augusto per celebrarne le glorie, con l’approdo al regno di Nerone che ha distrutto definitivamente le aspettative suscitate dal principato augusteo, subisce una violenta innovazione ad opera di Lucano: egli rovescia sistematicamente il modello virgiliano come per dare voce a una profonda indignatio nei confronti di tale modello, in quanto Virgilio,
nel suo poema, avrebbe perpetrato un inganno, nascondendo dietro a versi idilliaci e celebrativi la fine della libertà romana e la trasformazione della res publica in dominato.
Il “Bellum civile” di Lucano presenta infatti un epos radicalmente rovesciato: invece di un episodio illustre e glorioso, magari risalente al lontano passato mitico, viene cantato un episodio recente e funesto della storia romana, le bella plus quam civilia che hanno contrapposto Cesare e Pompeo, concentrandosi in particolare nel periodo tra il passaggio del Rubicone nel 49 a.C. e la rivolta di Alessandria nel 48 a.C.
Con il capovolgimento del modello virgiliano Lucano sembra denunciare lo stravolgimento del tradizionale sistema di valori a cui è soggetta la sua contemporaneità; non a caso il proemio presenta un’ambigua lode a Nerone: “Approviamo questi nefandi delitti, se essi hanno avuto tali conseguenze”, dice Lucano, e non è chiaro se egli intendesse davvero lodare Nerone, secondo il tradizionale canone epico, o se, più probabilmente, egli volesse dire che a un regno come quello di Nerone non si poteva giungere che per mezzo delle guerre civili.
I tre protagonisti del poema sostituiscono il protagonista unico dell’ “Eneide”: Cesare viene presentato come un uomo empio, scellerato, guidato da ira, furor e rabies, incurante dei valori tradizionali e della pietas; Pompeo, pur essendo colui che si oppone al distruttore della tradizione, è comunque un uomo avido e debole, incapace di resistere alla forza di Cesare; solo il terzo personaggio, Catone, è una figura positiva, un ‘vincitore sconfitto’ che grazie alla sua forza morale sceglie il suicidio piuttosto che la perdita della libertà.
Inoltre nel libro VI alla discesa del pio Enea negli Inferi con la conseguente profezia del futuro glorioso di Roma, si sostituisce la scena di un rito empio e terribile, in cui la terribile maga Erichto riporterà temporaneamente in vita il cadavere di un soldato e lo renderà profeta della futura sconfitta dei pompeiani.
Anche lo stile si presenta come uno stravolgimento del modello: ai toni equilibrati e armoniosi di Virgilio si sostituisce uno stile retorico, patetico, sempre proteso a sorprendere il lettore, a volte con un macabro gusto per l’orrido.
L’adesione al modello o la sua negazione sono poi stati oggetto di una vera e propria discussione tra gli intellettuali italiani: nel 1816 sulla “Biblioteca italiana” viene pubblicato un articolo di Madame de Stael, Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, nel quale i letterati italiani vengono sollecitati a uscire dall’isolamento e a confrontarsi con le letterature europee. Dopo questo articolo si apre un dibattito che evidenzia due opposti atteggiamenti: da una parte coloro che aderiscono alla tendenza neoclassica (Longoni, Giordani), e ritengono quindi che l’arte debba adeguarsi a un modello classico di ordine e misura, a un canone che risponda ai principi di razionalità e di universalità; dall’altra i romantici (Di Breme, Berchet, Visconti), si oppongono a tale modello e attraverso le pagine della rivista liberale “Il Conciliatore” rivendicano una libertà elaborativa in nome dell’originalità e della fantasia individuale, in quanto ritengono che il nuovo modello al quale ora si debba guardare non sia più la classicità ma l’indirizzo artistico-letterario europeo. Non per questo i romantici escludono l’opportunità della lettura e dello studio dei classici, ma ne negano la pedissequa imitatio senza alcuna personale capacità rielaborativa. D’altra parte i classicisti ribattono affermando che il fine dell’arte è il raggiungimento del Bello estetico, ed esso può essere raggiunto solo attraverso l’adesione a canoni precisi, mentre i romantici esaltano l’individualità e la rappresentazione dell’interiorità dell’artista. Nel rinnegamento romantico del modello c’è però una contraddizione, in quanto essi negano un modello ma ne propongono un altro, quello della letteratura europea contemporanea: quindi anche loro, ricusatori dell’imitatio, in realtà non possono fare a meno di aderirvi. Ciò evidenzia come, in realtà, l’opera d’arte non possa prescindere dal guardare a un qualche modello. I Romantici riassumono i loro principi nei tre famosi manifesti: Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani di Ludovico
di Breme, Avventure letterarie di un giorno di Pietro Borsieri, Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo di Giovanni Berchet.
In the early 20th century there is a profound change in thought and feeling, due to the experience of the World War I which has destructed the old values and ideals. So, even literature breaks with the tradition of the 19th century: the novel of the previous age required a well-structured plot, events narrated in a chronological order, an omniscient and third person narrator and conventional characterization. Joseph Conrad’s Heart of darkness is considered the first modernist novel for his innovative way of narration and for the themes: he rejected the chronological order and the third person narrator, so his novel starts from the end and then follows a circular pattern in which one character tells his own story by his point of view (thus reminding to Coleridge’s Ancient mariner); in this way the reader is not interested in which may happen in the future but in what has happened before. Even the themes are modernist: he concentrates on man and his inner and his feeling of loneliness in a world which has lost the values of honor and truth; man must look inside himself to find a way to fight against what’s wrong in society.
These innovative elements find their higher application with the use of the “stream of consciousness technique” by James Joyce and Virginia Woolf. They go deeper and deeper into the analysis of the characters’ mind, they ignored plot and the chronological order and focus on the complexities and the fragmentations of thought, through the free and illogical association of ideas. An example of the use of this technique is Molly’s monologue at the end of Joyce’s Ulysses, in which 30000 words are listed without punctuation and logical order, just following the capricious workings of the mind of the character.
This new way of writing, however, did not have permanent consequences, and writers who came after used the traditional way of writing, referring to the old model of novels.
Anche gli artisti cominciano a ribellarsi al modello consolidato dalla tradizione in nome di un’arte nuova e sperimentale. Un primo esempio sono gli impressionisti, un gruppo di giovani pittori di classi sociali differenti e senza alcuna ideologia politica che il 15 aprile 1874 organizza a Parigi una mostra in contrapposizione al Salon, l’esposizione ufficiale che consacrava la fama degli artisti ma che ammetteva solo opere consone alla tradizione, ligie agli insegnamenti accademici o che celebravano episodi eroici del passato, e quindi respingeva ogni accenno di novità e originalità. Gli impressionisti invece propugnano una pittura che interpreti la realtà in maniera libera e in tutta la sua estensione, perché ogni aspetto di essa fa parte del mondo nel quale viviamo e quindi è passibile di essere dipinta. Essi sono indifferenti al tema, e intuiscono che noi percepiamo la realtà non come frammenti isolati e definiti, ma nella sua totalità e continuità, e soprattutto nel suo movimento, nel suo incessante scorrere e irrefrenabile cambiamento. Perciò, nella resa pittorica niente può essere definito con precisione, ma la realtà deve essere resa così come la percepiamo con i nostri sensi, così come è la nostra prima “impressione”. Per questo ogni dipinto sarà sempre diverso dall’altro, anche se rappresenta lo stesso soggetto, magari dipinto nell’arco della stessa giornata, perché la realtà cambia e cambia il modo dell’artista di rapportarsi con essa. Essi rendono l’incessante mutare della realtà rappresentando la luce, che illumina tutte le cose, colpisce gli oggetti e ne viene assorbita o respinta; l’acqua, che riflette ed espande tale luce ed è uno sfavillio in continuo movimento; la giustapposizione dei colori direttamente sulla tela, perché ogni colore è tale grazie all’influenza del suo vicino e la fusione di essi avviene nella nostra retina. L’impressionismo ha avuto vita breve ma ha spianato la strada a una nuova concezione di arte basata sull’espressione dell’interiorità dell’artista e sull’accostamento personale alla realtà, che si svilupperà poi attraverso il cubismo, l’espressionismo, l’astrattismo.
In ambito filosofico invece a essersi imposto come modello per le dottrine filosofico-giuridiche è il giusnaturalismo, che trovò poi la sua consolidazione nel XVIII secolo con Ugo Grozio: secondo questa dottrina esistono dei diritti inviolabili dell’uomo che non possono essere mutati dalla legge delle varie società e che coincidono con la giustizia assoluta. Kelsen invece ritiene che questo modello sia irrazionale e più basato sull’emotività che non sulla logicità: egli sostiene che la giustizia assoluta non esiste, perché se così fosse, si potrebbe riconoscere l’ordinamento giusto e quindi il diritto positivo sarebbe superfluo, come “tentare di accendere la luce in pieno giorno”. La giustizia, al contrario, è qualcosa di soggettivo e quindi deve essere sostituita dal concetto di legalità: Kelsen, infatti, vuole andare alla base del diritto puro, e perciò definisce il diritto come un ordinamento del comportamento umano, scindendolo da ogni prerogativa morale o religiosa; essendo un positivista, si accosta all’ambito del diritto come uno scienziato, che del diritto studia solo la forma, al di là del suo contenuto, che può essere soggettivamente giudicato giusto o sbagliato. Egli quindi si oppone al giusnaturalismo che aveva “contaminato” il diritto giuridico con la dimensione morale e religiosa: Kelsen evidenzia come le azioni degli uomini non siano tanto guidati dai concetti di giustizia o ingiustizia, quanto da motivi diretti o indiretti, ovvero per condivisione spontanea di un precetto, o per timore di una punizione o desiderio di una ricompensa. Perciò, Kelsen delinea un nuovo modello interpretativo della società, fondata sul principio della retribuzione e, in particolare, sull’ordinamento coercitivo.
I diritti inviolabili dell’uomo che vengono difesi dal pensiero giusnaturalista fanno parte anche della filosofia personalista di Mounier e Maritain che indirettamente ispirarono alcuni degli articoli fondamentali della Costituzione italiana del 1948. Essa è una costituzione repubblicana composta da 139 articoli che sostituisce il precedente Statuto albertino, emanato l’8 febbraio 1848 da Carlo Alberto. L’uomo viene visto come cittadino, reso tale dal diritto al lavoro, considerato il fondamento della vita democratica (art.1); inoltre, si afferma l’esistenza di diritti inviolabili dell’uomo e la priorità della persona rispetto alla società (art.2). Lo Stato, quindi, non viene visto solo come un garante dei diritti e delle libertà civili, ma anche come un organo interventista, che promuove i valori e la dignità della persona umana: per questo esistono norme precettizie, che stabiliscono regole e poteri, e norme programmatiche, che tracciano le linee fondamentali delle politiche sociali. Per esempio, lo Stato non deve garantire solo l’uguaglianza formale di fronte alla legge di tutti i cittadini, ma anche rimuovere tutti gli ostacoli economici e sociali in modo da raggiungere l’uguaglianza sostanziale (art.3), inoltre deve promuovere le condizioni che permettano a tutti i cittadini di esercitare il loro diritto al lavoro (art. 4).
Quindi la Costituzione concepisce il soggetto come entità a valenze multiple, tutelando le varie confessioni religiose (art. 8) e le minoranze linguistiche (art. 6) e favorendo il progresso spirituale e materiale dell’uomo, tutelando lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.