Sofocle - Edipo re e Edipo a Colono
AUTORE: Sofocle
TITOLO: “Edipo re” – “Edipo a Colono”
DATA ED ALTRO: L’Edipo re è stato rappresentato probabilmente tra il 430 e il 420 a.C., è ritenuto il capolavoro di Sofocle e quello preso in esempio da Aristotele come modello di tragedia perfetta, coerente nell’azione, nei tempi e nei luoghi, in virtù del principio di verosimiglianza. L’Edipo a Colono venne, invece, rappresentata postuma nel 401 a.C.
TRAMA
Le tragedie s’innestano nella tradizione del mito tebano cui spesso fanno riferimento e che ne costituisce il nucleo fondamentale e imprescindibile al fine della comprensione.
PERSONAGGI:
- Edipo: tra i più prolifici personaggi drammatici, per tragedie rappresentate e varianti del mito, Edipo è perno delle due opere, emblema dell’uomo innalzato alla comprensione più alta, alla saggezza, costretto alle dure necessità della realtà contingente e privo della conoscenza più ampia, quella di se stesso. Premessa socratica, imperativo dalla dolorosa accettazione, Edipo dipana se stesso, si dilata a simbolo imperituro di un’umanità sempre più dimentica di sé, priva di una conoscenza misterica che il sacerdote/Sofocle denuncia come sempre più acuto. Edipo misterico, iniziato sapienziale, spettatore alle prese con simbologie: questi gli elementi che dispersi si allacciano l’uno all’altro, mirabilmente intrecciati da un uomo che assurge a simbolo del “conosci te stesso” delfico. Nei meandri dei misteri e dell’ascensione, Edipo si pone come simbolo del contrasto tra apparenza (falsa conoscenza) e la verità dell’animo, enigma animato, vincitore della Sfinge, eppure ad essa avvinghiato nella continua ricerca, spasmodica, della realtà. Indovinelli che montano rabbiosi per tutta l’opera, che s’innalzano in una vertigine soffocante ispirata dal fato, e in grado di tratteggiare una verità tangibile, concreta, accennata, rifiutata, il cui svelamento sarà così potente da accecare l’uomo. Ed Edipo sembra fallire il volo nero sull’epilogo, smentisce la verità e si consacra ad un futuro di sofferenza e privazione. Eppure, come poi anche in Platone, la sofferenza è condizione sine qua non della conoscenza, e alla menomazione fisica, alla cecità, simbolico oscurantismo dell’origine, si sostituisce il bagliore sfavillante di una morte che pare più ascensione all’Olimpo, forte di una nuova consapevolezza che conclude il cammino di vita. È pur vero che altri eventi colpiranno Edipo, che il compiangersi non lascerà spazio alla felicità e alla serenità se non nella morte ma Edipo, con una vista più acuta degli altri, penetra negli abissi del mistero umano e consacra la propria fama e la propria esistenza nel silenzio pregnante di un ultimo patetico addio. E se attorno al re Edipo si coagulano tematiche politiche, attorno all’uomo Edipo si manifesta il percorso ascensionale, il cammino dell’esistenza. La metamorfosi di Edipo, da fantasma di se stesso a iniziatore di misteri, passa per la trasformazione tra dòxa ed alétheia: in lui dolore e speranza si saldano, e la disperazione deificata dalla grazia è scalinata che conduce alla conoscenza. Eppure Edipo è anche il cittadino della polis, e come tale realizza se stesso soltanto nella contemplazione pubblica del suo successo, dell’ammirazione dei cittadini. La dimensione pubblica si erge ad aspirazione imperitura e sommerge la vita privata in un pantano che si è costretti a superare e valicare. D’altra parte, contraltare ad Edipo, o premessa imprescindibile per la sua esperienza di vita umana, è la Sfinge, la creatura multiforme che simboleggia con incredibile forza icastica una pluralità di natura propria dell’uomo. Luce ed ombra che s’intrecciano nella cantatrice di enigmi, che pone quesiti all’uomo sull’uomo stesso e che pretende sangue per espiare l’ignoranza: legge arcaica, sinistra, eppure corroborata dal quotidiano dispiegarsi della vita. È per questo che Edipo, vincitore dell’ambiguo, per ironia letteralmente tragica deve rintracciare in sé i frutti della medesima ambiguità, entrare in contatto con il lato più oscuro della propria esistenza: l’infanzia, ma anche la protervia contro il divino (Tiresia). Edipo flagellato dal dolore deve rinascere: non in virtù del "patendo conoscere" eschileo che si dimostra semplicistico, ma di un arrendevole adesione al fato che più di una volta sembra sottendere ad un cortocircuito sofocleo in cui lo spazio dell’azione personale, e il suo rapporto col divino, non trova risoluzione. E d’altra parte, proprio questo desiderio di espandere la conoscenza, il fondersi del lato oscuro di sé con la luce dell’alétheia, si configura come reale approdo sofocleo. La metamorfosi, la consapevolezza della verità, non è però vittoria della morte ma serenità nell’affrontarla nonostante tutto, anzi, la sofferenza è chiave privilegiata per accedere alla conoscenza. È un pathei mathos che affonda le proprie radice in una teodicea ben più ampia e profonda. L’uomo, in Sofocle, non annichilisce la propria ombra, non purifica il peccato con la confessione cristiana, ma nella propria ombra si crogiola e anzi, l’esercita senza esserne atterrito. È in questo disincanto estremo che Edipo può anche maledire il figlio, palesare un altro di sé che è puro odio, anche solo per un attimo. Il falso buonismo da genitore svela tutta la sua ambigua perseveranza: anche il genitore, preso contatto con il lato più oscuro di sé, il più temuto, può odiare il figlio, nell’istante in cui non teme la propria feroce dualità. Questo è Edipo, questa la catarsi che aveva fatto bollare la tragedia (da Aristotele) come perfetta (almeno l’”Edipo re”), purificazione dello spettatore: non invito alla violenza ma sua esorcizzazione tramite l’educazione. Tragedia scuola dell’umanità. Forse i Greci non erano poi così meramente razionali, e Sofocle non fa che notarlo.
- Sacerdote di Zeus: comparsa iniziale, ha la funzione di dare avvio alla vicenda, informando il re sulla pestilenza che sta affliggendo la città. Il sacerdote, vecchio, rappresenta un’intera città prostrata dalla morte; è altresì simbolo dell’autorità divina, e offre l’occasione per dimostrare la propria lungimiranza, acuendo poi lo scarto con le rivelazioni successive.
- Creonte: potere privo di saggezza, pragmatismo disincantato ed estremo, truce ottica dell’utile, persecuzione tirannica: questo Creonte, pietoso per l’ignoranza, odioso per la pacata e tranquilla risposta agli eventi che flagellano la città. Accusato da Edipo di tradimento, redento, poi ancora accusatore e nemico, anzi, approfittatore, Creonte attraversa entrambi i drammi a rendere in tutte le circostanze evidente il divario tra lui ed Edipo: alla sua franchezza e rotondità iniziale, si sostituisce progressivamente l’immagine di una legge dell’utile che lascia ben pochi spiragli di speranza per una risoluzione pacifica. È già evidente la sua sorte, il destino che l’attende nell’Antigone. Tematica politica cocente, scontri pubblici, potere autoritario che scavalca, annienta, allo scopo di un tornaconto personale che si rivelerà rovina personale. Legge della forza bruta, Creonte è grottesco: nella sua tenacia nel controbattere Edipo, nella sua protervia nell’affrontare Teseo, la sua umile condizione, la sua mitomania spicciola, il suo nanesco scimmiottare, perdono miseramente contro la franchezza reale di Teseo, dimostrando la tronfia autorità di un tiranno dispotico, alla ricerca di potere, ma dimentico di sé, della conoscenza, e come tale costretto ad essere abbattuto dal giudizio degli dei. E quando è la verità dell’animo a mancare, l’unica risorsa è la menzogna, e la disillusione e l’illusione, altre maschere che allontanano da se stessi. È questa la condizione di inferiorità cui Creonte è condannato, ma è questa quella da cui egli rifugge. Ciò nasconde la condanna definitiva dell’uomo che perderà miseramente e sarà costretto a tornare, sconfitto e disonorato in una Tebe che è ancora gravida di sofferenze.
-Coro di vecchi tebani: oltre alle considerazioni fatte per quanto riguardo l’Antigone, si nota la funzione sempre più decisa del coro che assume le sembianze di un vero e proprio personaggio che agisce e che fa da contro – tono alla vicenda, commentando le vicende e raccontando gli antefatti, giudicando col solito piglio sacramentale le imprese che accadono.
- Tiresia: rappresentante dell’autorità divina, dell’ispirazione degli dei, conoscitore del fato e del destino a preannunciare con la sua cecità il tragico destino di Edipo, come nell’Antigone, è autorità divina disprezzata dalla stolta tenacia dell’uomo che, pur di non conoscere la verità e temendola, giunge a peccare di tracotanza. È per questo che Tiresia erompe in una predizione che suona di maledizione e che condanna definitivamente Edipo alla sventura. In questo rinnovato contrappasso, che sembra riproporre le dinamiche del "chi agisce subisce", l’ironia tragica raggiunge uno dei suoi vertici: Tiresia cieco vedendo più dei vedenti condanna alla cecità, che è sinonimo di previdenza, Edipo. L’insulto del divino è soltanto il simbolo di una fragilità e di una contraddizione umana che l’uomo vive costantemente: il desiderio di conoscere il vero si arresta, e anzi retrocede, di fronte la paura di una qualcosa di inaspettato, che è poi il nocciolo cruciale del divenire greco. Non dunque l’ancestrale scontro tra uomo e divinità, quanto invece fine analisi psicologica dell’uomo stesso, secondo non la psicanalisi, ma le sensazioni che l’uomo trasuda. È in questa condizione che si sviluppa il dialogo tra i due, e chiara è la somiglianza tra Edipo e Creonte: ma se il primo sarà in grado di redimersi, il secondo assatanato di potere fallirà la planata sul destino e sarà condannato ad un martirio drammatico e irrinunciabile nella logica del destino.
- Giocasta: moglie, madre, figura simbolo della donna greca, scevra di qualsiasi connotazione maschile, fedele al figlio/marito, ritirata nel proprio gineceo, succube della logica maschile (ma quello di Sofocle non è un discorso di sessi) è l’emblema di un destino che sommerge l’uomo e che se non accettato coincide inevitabilmente con la rovina. Giocasta non necessita della cecità per conoscere, ma intuisce la verità, in un frangente di fredda consequenzialità che non lascia scampo: il destino su di lei si è concentrato e nell’oscurità dell’ignoranza ha dato alla luce figli/nipoti. Il peso della responsabilità umana, in una tragedia così poco popolata di dei, si erge in tutto il suo pesante fardello, fino a decretare una morte che è resa: la responsabilità umana, masochista, impone il suicidio; la consapevolezza della colpa colpisce sempre per prima, e imputare tutta la responsabilità al fato priva anche del piacere della mancata innocenza. È in questo dramma, in questo sempiterno scontro tra fato/necessità e libertà dell’agire umano, che molti mortali cadono, lacerati da un fuoco che li arresta sulla trincea dell’indecisione. Immobile sul confine, Giocasta decide di non vivere il disonore, non sopporta la verità, non accoglie la saggezza: schiacciata da se stessa si uccide trascinando con sé un dolore che l’avrebbe corrosa per l’eternità.
-Messaggero I e messaggero II: mondo esterno che irrompe sulla scena, qui a svelare poco a poco la luce della verità, parere esterno che si palesa in tutta la sua opprimente carica di ponderazione; qui il messaggero non si limita soltanto a portare notizie, a narrare eventi, tutt’altro. Qui il messaggero svela la trama sottile del fato, è qui che si consuma la vera tragedia; un’affermazione pronunciata per caso si carica di un’angoscia sempre più opprimente, condanna ad una logica ferrea che acceca Edipo. La conseguenza è il delirio dell’uomo che ancora cittadino vuole mostrare alla città lo scempio del suo agire. Questa la notizia del messaggero: deus ex machina che si rivela, invece, sententia ex machina, un giudizio che nell’unica costatazione possibile è preliminare passo per il dolore e, quindi, per l’ascesi.
-Servitore di Laio: anima buona che ha firmato inconsciamente la condanna della sua città, o meglio, strumento indefesso del fato, fuggito dalla propria responsabilità rifugiandosi nella vita agreste ed estraniandosi dalla polis, sarà anch’egli un personaggio fondamentale per la scoperta della verità, nonostante una reticenza perfettamente spiegabile. Il suo incontro col messaggero, lo squarcio terribile sul passato, rischiara la verità, la porta a galla: un semplice ricordo sconvolge la scena. Al servitore di Laio non resta che commiserare la sua umanità, affidarsi agli dei: al contrario di Giocasta, frustrata anche dall’abbandono del figlio appena nato, non si sobbarca di una colpa che effettivamente non ha, e sopravvive.
- Antigone: Figlia premurosa che accompagna il padre nel suo peregrinare, non arretra, al contrario dei fratelli, di fronte alle necessità del padre, e anzi si dimostra donna fedele ed accorta, non soltanto nel prendersi cura di Edipo, ma anche nel saper destreggiarsi nei dialoghi maschili, come quello tra Edipo e i vecchi di Argo. Legata alla famiglia, nonostante le perdite e la sofferenza, accompagna il padre nel suo percorso, forse più proiezione idealizzata di un Sofocle ormai vecchio, che personaggio realmente cruciale nella vicenda. Si trasforma, è vero, in strumento di ricatto all’arrivo di Creonte, ma un ruolo passivo, funzionale alla rappresentazione di Creonte e al delinearsi dì un nuovo scontro.
-Abitante di Colono: scontro/incontro fortuito, che introduce immediatamente al dramma, il cittadino è una comparsa ben tratteggiata: rispettoso, pio, informa gli abitanti del luogo in cui si trovano e intima loro di allontanarsi dal luogo altrimenti consacrato alle Eumenidi. Nonostante tutto si dimostra però generoso, o comunque comprensivo, non li caccia immediatamente, ma anzi fornisce loro le informazioni necessarie, e si carica anche di un’ambasciata al re. Personaggio nobile d’animo, franco, cede subito il posto ad altri che dovranno giudicare sulla sua permanenza: al dialogo serrato con Edipo si sostituisce poi il disteso discorso tra Edipo stesso ed Antigone.
- Coro di vecchi dell’Attica: per certi versi fonte dell’umorismo dell’opera, il coro è prima di tutto un coro di vecchi, nel senso che fin dalla sua prima apparizione è dominato da quella curiosità senile, spesso indiscreta, che si manifesta nelle loro continue interrogazioni ad Edipo, dopo ovviamente avergli intimato di allontanarsi dal giardino sacro delle Eumenidi: d’altra parte nell’ottica della vecchiaia, l’affronto delle tradizioni è danno ben più grave dell’arrivo di uno straniero. Ovviamente la rivelazione interrogativa di Edipo sulla propria identità, riscuote timore, rabbia, paura, ma anche compassione, nonostante fondamentalmente l’unica autorità che rispettino è quella del re e della convenienza personale. Depositari della conoscenza ancestrale, sono loro a giudicare, sono loro a stabilire il rito di purificazione, non senza risentimento verso Creonte che si approfitta della loro senilità per sfruttare la forza delle armi. E proprio nella loro invettiva contro l’ormai re di Tebe, l’umorismo raggiunge l’apice: un gruppo di vecchi che sfidano uomini giovani per mantenere la propria dignità, le loro promesse, nonostante la netta inferiorità. In fondo la nobiltà d’animo loro non manca, animati da quella pervicacia senile che nient’altro è che fiero ricordo della propria giovinezza. Valgono ovviamente le considerazioni fatte per le precedenti tragedie.
- Ismene: altra figlia di Edipo giunta per informare il padre degli sconvolgimenti di Tebe, si trasformerà poi, come Antigone, in uno strumento di ricatto emotivo, ultima difesa di un vecchio cieco che reclama soltanto la definitiva ascesi. Premurosa quanto la sorella, ma meno decisa, Ismene tenta di consolare il padre intrecciando un dialogo patetico, drammatico, in cui la frenesia del ricongiungimento spezza le frasi, le lascia sospese in una logica degli affetti cui la grammatica risponde alla smania degli abbracci. È lei ad officiare il rito di purificazione, è lei che con Antigone tenta di difendere il padre, vero affetto familiare, in contrasto col fratello Polinice, ritornato per assicurarsi la vittoria.
- Teseo: re civile, mitico eroe greco, è il baluardo della giustizia, incarnazione di una saggezza della polis che tutta la sua personalità e le sue decisioni dipanano. Garante della moralità, accorto sovrano, interviene ripetutamente nell’agevolare il destino di Edipo, consapevole dei benefici che egli potrebbe portare, e unico depositario dei misteri cui Edipo ha avuto accesso, e che garantiranno all’Attica il predominio, sempre che vengano trasmesse di generazione in generazione. Teseo salda in sé forza e giustizia, potenza e misericordia, adattandosi agli eventi e garantendo il lieto fine di una tragedia dalle tinte quanto più spiccatamente ascensionali e misteriche.
- Polinice: passato che ritorna a reclamare un tributo ancora non pagato, figlio che ha diseredato il padre a reclamarne un aiuto, figlio maledetto dal padre per la sua truce ottica dell’utile: questo Polinice, dimentico dei legami paterni, assatanato di potere regio, a reclamare perdono e aiuto. Inflessibile Edipo, quasi crudele: non inneggio alla violenza ma consapevolezza del proprio lato oscuro. Polinice non viene ascoltato, viene condannato ad una morte indegna, nonostante le sorelle lo compiangano (ma non lo giustificano): il figlio sventurato di padre sventurato non riesce a riscattare se stesso, e rimane confinato in una dimensione di grottesca inferiorità che certo non giova al personaggio, relegato in un’aura di mediocrità cui è difficile sfuggire. Specie a confronto di Teseo.
-Messaggero: si veda quanto detto per i messaggeri precedenti, specialmente le due funzioni esplicitate nell’Antigone.
TEMATICHE
Varie sono le tematiche che attraversano le due tragedie. Spicca su tutte il tema della colpa che minacciosa gravita su Edipo e il cui contraltare si concretizza nella pestilenza che affigge la città di Tebe: colpa non dei gesti compiuti, ma dell’aver ignorato chi essenzialmente si è, del non aver perseguito il "conosci te stesso" delfico/socratico. Parallelo alla colpa anche l’orrore, il brutale, il macabro che in Sofocle tanto ha spazio e che è il prezzo della verità, la moneta di scambio dell’illuminazione spirituale: ecco i cadaveri che costellano le tragedie, ecco i gesti estremi, gli innocenti martoriati, le vite perse. Come nell’Antigone largo spazio ha la sofferenza, il dolore per il destino dovuto al dissidio interno all’uomo tra libertà d’agire e destino imperscrutabile, assurdo ellenico che i personaggi di Sofocle scontano, nel segno di una contaminazione alla città residuo di culti e tradizioni arcaiche in virtù della quale Edipo deve essere esiliato. Mattone costituente dell’opera l’ironia tragica che si dispiega a più riprese a condire la storia con un’ambiguità di fondo interpretativa ed analitica, ironia che ha anche la funzione di prolungare l’attesa per la rivelazione finale, inquietante che già l’esordio dell’Edipo re sembra presagire e che si conclude (nella prima tragedia) con l’accecamento di Edipo: cecità fisica e mentale. Non va poi dimenticato il rapporto tra umano e sacro: le divinità, non così pressanti come in Eschilo, si cangiano in altre forme, quelle degli oracoli, cui il destino dei personaggi è intrinsecamente collegato e con i quali sono continuamente chiamati a rapportarsi: l’odio per Tiresia è disprezzo per la rassegnazione agli eventi, unico atteggiamento consigliato per resistere all’ambiguità tragica del vivere. A ben vedere, poi, tutto l’Edipo re si dispiega nel segno del dubbio che attanaglia il protagonista durante la sua inchiesta per scoprire la verità, fino all’agnizione finale che è luce così forte da accecare, e permettere di prendere consapevolezza del doppio, di una duplicità intrinseca nell’uomo che nel contrasto luce e ombra riverbera tutta la propria inesausta complessità. C’è poi un altro paradigma che sembra sottendere alla produzione di Sofocle: lo scontro. Lo scontro viene visto da Sofocle come evento gravido di novità, come unico elemento in grado di far divampare la tragedia: per questo le sue tragedie ne sono costellate; scontro tra padri/figli, stato/uomo, dei/uomo e così via in una rassegna estesa qualora si considerino anche gli scontri morali, simbolici che la sua produzione non stenta a mostrare. C’è poi ovviamente un filone politico che può essere più o meno messo in luce e che sia nell’Edipo re, che nell’Edipo a Colono emerge chiaramente: la critica sofoclea alla democrazia; Edipo fa continui riferimenti alla propria origine aristocratica senza contare che nell’Atene di Teseo “il discorso non è per le masse”. Il cittadino ateniese che Edipo incontra per primo non consulterà il popolo della città in merito a Edipo, ma solo gli abitanti del luogo, a Colono (77-80). Polinice spiega che Eteocle lo ha condotto erroneamente fuori da Tebe, “avendo persuaso la città”. Edipo a Colono include molte note di ostilità sul potere di inganno delle parole, “un’altra critica delle assemblee democratiche". Oltre che alla critica democratica, si nota una disapprovazione continua verso quella che è la corruzione politica, specialmente la demagogia. Si veda ad esempio le lusinghe di Creonte ad Edipo. L’Edipo a Colono è poi la scena della disgregazione e del rafforzamento dei legami familiari che qui convergono, s’intrecciano, si escludono a vicenda in un perpetuo gioco di inclusione ed esclusione che travolge tutta la famiglia di Edipo: dalla figlie, a Polinice, fino a lui stesso. Una disgregazione graduale che sembra rifarsi non soltanto alla difficile situazione familiare del vecchio tragediografo (cfr. trama), ma ad una condizione sociale che anche Tucidide non mancherà di far notare nella sua Guerra del Peloponneso. “Nel descrivere il deterioramento generale della pubblica moralità durante la guerra del Peloponneso, Tucidide (3.82) fa riferimento al fatto che le relazioni familiari erano più deboli delle fazioni politiche, poiché le fazioni erano più pronte ad intraprendere azioni audaci. L’Elettra di Sofocle (418?) aveva anche esplorato la bassa moralità dei giovani rampolli della aristocrazia, come la voluttà di Oreste ed Elettra nell’uccidere la loro stessa madre, un’azione in cui non mostrano alcuna esitazione, freno morale o rimorso, come Oreste aveva fatto nelle Coefore di Eschilo cinquanta anni prima”. E forse non manca nell’opera una punta di rammarico, un tentativo di discolparsi: magari Sofocle (Edipo che rivendica la propria innocenza) si trova in procinto di morire a fare i conti con se stesso, con la propria personalità, a riflettere sui propri gesti, e magari a chiedere pietà per errori di cui non era stato consapevole. D’altra parte non mancarono nell’Atene del V secolo molti che videro notevoli parallelismi tra il vecchio tragediografo e l’Edipo dell’Edipo a Colono.
Le due tragedie di Sofocle si prestano certamente ad un’interpretazione misterica, nel senso che la cecità di Edipo è concretizzazione del buio della sua anima, della non-conoscenza nella quale egli latita; ma sarà proprio questa menomazione, questa rinuncia obbligata e voluta allo stesso tempo, ad acuire gli altri sensi, a colmare il vuoto che lo separa dalla verità. Ed è così che alla cecità fa da contraltare l’illuminazione interiore icasticamente simboleggiata dalla scomparsa di Edipo nella scena finale. Ed è proprio in questa definitiva ricompensa che l’ottimismo di Sofocle rivela tutta la sua profonda umanità: la comprensione dei misteri, nonostante tutte le rinunce che essi impongono, costituiscono una chiave d’accesso alla beatitudine. E questa via per la salvezza non è qualcosa di etereo, non è qualcosa di esterno alla scena, ma è qualcosa che risiede nell’intimo dell’uomo, nelle proprie origini, in quel "conosci te stesso" che non è solamente un motto delfico, ma un invito accorato ad interrogare gli abissi della propria anima, a costo di scoprire una verità così truculenta da annientarci. E proprio nell’Edipo Re si apre il baratro nella responsabilità individuale in relazione ad una legge superiore, divina, che pare annientare o sollevare senza logicità. Se l’uomo è responsabile delle sole azioni che commette scientemente, allora Edipo è innocente e soffre ingiustamente. Tale prospettiva avrebbe di fatto compromesso la visione sofoclea del soprannaturale che è invece permeata da una splendida e genuina fiducia nei soffi appena afferrabili della sapienza oracolare. La colpa di Edipo non è in fondo quello di essersi unito alla madre o quella di aver ucciso il padre, ma, paradossalmente, la protervia di aver voluto conoscere ad ogni costo la propria identità. O meglio, quest’ultima è stata la molla di una colpa che risiede nel non aver conosciuto prima chi realmente fosse. Ma come avrebbe potuto Edipo riconoscere un uomo come suo padre senza averlo mai veduto se non in fasce? Ed ecco che la teodicea sofoclea si dispiega: l’uomo è sottomesso agli eventi, ma il loro tragico dispiegarsi non impedisce all’individuo di ritrovare la verità e di accedere, attraverso essa, alla salvezza. Pur tuttavia la verità è spesso inaccettabile, e labile è il confine tra legittimità della ricerca della verità e tracotanza, il voler superare i propri limiti. Sia chiaro che Edipo non apprende la verità nell’atto di accecarsi (che è invece il rifiuto esasperato del non voler vedere il vero), ma in seguito, mentre con la figlia Antigone, esule dalla patria, vaga senza meta: soltanto nella solitudine del viaggio, nel preludio dell’Edipo a Colono, Edipo conoscerà se stesso, accetterà il proprio destino e proprio in questa consapevolezza si dimostrerà ad esso superiore. Pur consapevole della propria sorte, Edipo, uomo in rivolta contro il fato, si trasforma in un Sisifo felice che, pur condannato, trova la felicità nella sua condanna a morte. Edipo sa infatti quando morirà: dopo una folgore. Conoscenza e morte: questo tutto quello che l’uomo deve sapere e che Edipo ha appreso così da poter morire felice. Ed ecco che agli occhi del lettore Edipo si trasforma, seppure impercettibilmente, in un qualcosa di sovrumano, proprio perché è ormai abbastanza saggio da riconoscere i limiti e da accettarli. È emblematico d’altra parte che Edipo non si suicidi alla fine dell’Edipo Re come invece fa Giocasta: sulla donna pesa non soltanto la relazione incestuosa col figlio, ma anche, e soprattutto, il peso di una colpa che è in definitiva la sua troppa debolezza nell’opporsi al parere del marito. La sua è una colpa volontaria, o magari la donna è soltanto strumento del fato. È in questa indecisione che il dramma si esaspera, che la tragedia esplode. È per questo che, in fin dei conti, l’Edipo a Colono è una tragedia col lieto fine: questo dramma è stato superato definitivamente, ed Edipo è felice. Ma nell’Edipo Re questo contrasto è ancora insoluto: qual è lo spazio della libertà umana, quale invece quello del fato? La libertà sta là dove il fato offre una scelta: e questa decisione riecheggia per tutta la vita, ora condannando, ora invece consacrando. Edipo ha deciso di uccidere quell’uomo, ma non ha deciso che quello fosse suo padre. Giocasta ha deciso, seppure nella sua passività, la morte del figlio, ma non ad unirsi con lui. La soluzione definitiva di Sofocle non è la rivolta, ma la resa incondizionata al destino, agli oracoli: l’uomo non sarà mai tanto rispettoso da sfuggire alla rovina. Resistere non serve a niente. La grande forza drammatica della macchina narrativa di Sofocle sta in quest’annientamento progressivo di tutti gli innocenti, in questo dolore che distrugge anche il più felice dei mortali. Il destino è imprevedibile, la resa è l’unica soluzione. Ça va sans dire che il destino è fondamentalmente giusto, nel senso che non può essere terribile un qualcosa che permette anche l’esistenza delle gioie della vita, come ad esempio l’amore. Se poi esiste la morte, Sofocle non può far nulla.