GreMo80
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peppe ciorra

Se esiste un mondo dove parola, pensiero e spazio si incontrano liberamente, per trovare nuovi significati e interpretazioni della realtà, quel mondo è abitato da Pippo Ciorra.

Nato a Formia, romano di “formazione”, cittadino del mondo e della provincia per professione, Pippo è tante cose tutte insieme: Architetto, Professore Ordinario di Progettazione Architettonica, collaboratore di lungo corso de il Manifesto e, oggi, Senior Curator per il MAXXI di Roma (una delle principali istituzioni museali italiane e internazionali).

I consigli di Peppe Ciorra per diventare un'eccellenza italiana

"In realtà se vuoi spiegare agli studenti come si diventa architetti o curatori io non sono la persona giusta - mi anticipa Pippo ridendo all’inizio della nostra intervista – ho sempre fatto scelte sbagliate!"

  • A giudicare da quello che hai fatto e dai risultati che hai raggiunto non sembrerebbe…e magari la tua storia può insegnare che non esistono scelte giuste a prescindere.

"Questo è vero, sono d’accordo. Sono sempre stato libero, indipendente nel prendere le mie decisioni, a volte anche poco razionale, ma ogni scelta (giusta o sbagliata) ha aggiunto un piccolo tassello alla costruzione di quello che sono."

  • Iniziando dagli studi. Come hai indirizzato il tuo percorso?

"In modo quasi istintivo, direi naturale. Sono nato in una famiglia piccolo-borghese che ha vissuto in pieno il boom degli anni sessanta, i miei si erano trasferiti a Roma dalla provincia (dalla Ciociaria mio padre, da Milazzo in Sicilia mia madre) per seguire la carriera di mio padre che da ferroviere “sul campo” era diventato un impiegato del Ministero dei Trasporti.

In quegli anni studiare era visto come uno strumento efficace di “riscatto sociale” per conquistarsi condizioni di vita sempre migliori. Nonostante mia madre fosse la prima laureata (in Scienze Naturali) della sua famiglia ed io fossi molto bravo in matematica, non ci fu nessun dubbio nella scelta del Liceo Classico.

Sembrava l’unica scuola che poteva alimentare l’ambizione di cambiare il mondo attraverso la cultura ed il pensiero."

  • Anni di fermento economico e culturale. Al contrario di oggi il Classico era una scelta “cool”?

"Proprio 'cool' non saprei, visto le botte che all’epoca ho preso (o rischiato di prendere) dai ragazzi che non la pensavano come me – dice ridendo.
Si studiava per formarci come persone, per avere gli strumenti di lettura della società. Le idee a quel tempo dividevano e le divisioni creavano anche tensione sociale.

Il Liceo Classico apriva la mente al pensiero critico, a forme di analisi ed espressione più evolute, a chiavi di interpretazione della realtà libere ed indipendenti. Da giovanissimo mi sentivo ovviamente di sinistra (vagamente anarchico e insofferente alla disciplina interna di partiti e gruppi) e mi trovavo perfettamente a mio agio in questo mondo."

  • Anche la passione dell’architettura nasce dagli stessi stimoli?

"Quando facevo la V Ginnasio i miei genitori decisero di cambiare casa e ci trasferimmo in un quartiere chiamato Casal Palocco. Era la zona dove Roma inseguiva il sogno americano: lontani dal centro, schiere di case più grandi e indipendenti, le classiche villette a schiera con giardino viste in tanti film USA, spazi liberi per vivere in strada senza troppi limiti o controlli.

Lì tra musica (facevo il batterista), basket e qualche scorribanda, ho capito quanto il disegno degli spazi potesse contribuire a cambiare la società. L’architettura rappresentava l’utopia, il mezzo per cambiare il mondo."

  • Quasi la visione di una disciplina più umanistica che tecnica

"La tecnica conta, è indiscutibile. Bisogna studiarla e conoscerla. Però può risultare poco utile se non unita alla capacità di pensiero, espressione, elaborazione, senso critico. Sul finire degli anni ’70 i grandi architetti erano prima di tutto ammirati per le loro idee.

In tanti sceglievano architettura per entrare nell’elite della classe dirigente “progressista”. Ricordo aule frequentate da più di 1.000 studenti e anni dove lo studio era sempre accompagnato dalla lotta sociale.

Io mi sono immerso completamente in questa realtà ed ho partecipato e organizzato proteste, occupazioni, manifestazioni. Più che l’ambizione professionale sentivo il bisogno di raggiungere, attraverso l’architettura, una condizione intellettuale."

  • E’ per questo che hai iniziato a scrivere sui giornali?

"Ho iniziato per caso, come spesso avvengono le scelte fondamentali della propria vita. Una persona che conoscevo lavorava per Il Manifesto, in quegli anni considerato un giornale molto autorevole. Gli chiesi se potevo provare a scrivere dei pezzi sull’architettura.

Lo vidi come un modo per entrare nel dibattito pubblico e testimoniare il mio impegno politico. E invece senza che me ne accorgessi articolo dopo articolo diventavo una voce conosciuta nel mondo dell’architettura. Scrivere mi ha cambiato la vita e non ho più smesso di farlo."

  • Pensiero, scrittura, politica…tanto umanismo nel tuo percorso, ma le competenze non ti hanno aiutato a diventare professore?

"Se penso a tutti i concorsi che ho perso prima di diventare professore forse dovrei dire che in qualche caso contano più i rapporti delle competenze – esclama ridendo – ma in realtà ho superato tutta la gavetta per imparare “il mestiere”. Ho fatto l’assistente universitario, ho lavorato per degli studi di architettura, ho disegnato case.

Sicuramente mi sono impegnato anche per consolidare la base tecnica, ma non ero particolarmente attratto da questo aspetto dell’architettura. Io volevo pensare, influenzare, disegnare il futuro. La carriera universitaria era un obbiettivo necessario."

  • Se hai perso molti concorsi, hai dovuto superare dei fallimenti per affermarti?

"Senza alcun dubbio. I primi concorsi li ho persi tutti, c’era sempre qualcuno che, per qualche motivo, mi superava. Quindi ho cercato di darmi da fare per sfruttare altre occasioni. Bocciato all’ammissione a Roma, sono andato a Venezia per avere una borsa di dottorato.

Poi, grazie ad una persona che avevo conosciuto, ho avuto l’opportunità di insegnare all’Ohio State University, che all’epoca era molto quotata. E’ stata un’esperienza importante che mi ha dato modo di conoscere da vicino la realtà americana che così tanto aveva segnato la mia adolescenza da quasi-hippy e di consolidare il mio inglese fino a quel momento allenato soltanto grazie ai Beatles e qualche flirt più o meno importante!

Nonostante questo, per trovare un posto da ricercatore c’è stato bisogno che in Italia aprissero una serie di nuove facoltà di architettura: si cominciò con Ferrara, Roma3, Ascoli Piceno.

In quest’ultima – forse perché collocata nella regione in cui abitavo (e abito) – vinsi un posto da ricercatore. Dopodiché il seguito fu più facile. Nel giro di sei anni diventai professore ordinario."

  • E la tua attività di curatore di mostre come è nata?

"Anche questa per caso, o meglio grazie alla rete di relazioni che ho costruito durante tutto il mio percorso. Scrivendo sui giornali ero diventato collaboratore di Electa, una prestigiosa casa editrice del settore. 

Francesco Dal Co, docente di storia dell’architettura a Venezia e capo del settore architettura della casa editrice, fu nominato Direttore della Biennale di Architettura di Venezia sul finire degli anni ’90 e mi nominò responsabile delle mostre da allestire presso le Corderie dell’Arsenale alla V Biennale (1991).

Un incarico importante, che mi ha fatto scoprire la bellezza di questo mestiere e aiutato a costruirmi esperienza e reputazione. Quando, nel 1998, fu lanciato il bando per la realizzazione del MAXXI provai a partecipare presentando un progetto insieme a un team di miei coetanei (Carmen Andriani, Aldo Aymonino, Mosè Ricci, Filippo Spaini).

I nostri competitors si chiamavano Koolhaas, Nouvel, Sejima, Gregotti (nomi da archistars) e ovviamente non riuscimmo a vincere (fu scelto il progetto di Zaha Hadid ndr).

In compenso stabilii un buon rapporto con il gruppo di dirigenti che gestiva la nascita del nuovo museo (soprattutto Margherita Guccione), che cominciò a chiamarmi per curare o allestire alcune delle mostre che accompagnavano i lavori di costruzione. Quando il MAXXI aprì fui prima chiamato per co-curare la mostra inaugurale e in seguito nominato Senior Curator. Lo sono ancora adesso."

  • Cosa vuol dire curare una mostra?

"Nell’arte si lavora soprattutto sugli autori, cercando di far emergere differenze e caratteri artistici individuali. Nell’architettura è diverso, devi cercare di far comprendere il rapporto tra pensiero e spazio e, nel farlo, hai modo di plasmare tu stesso lo spazio nel quale si muoverà il visitatore.

E’ come scrivere: hai la responsabilità ed il potere di raccontare una storia e attraverso questo racconto di dare un senso alla realtà che ci circonda. Quando funziona autori e progetti esposti entrano in modo virtuoso nella narrazione, contribuendo a chiarire il senso della mostra e nello stesso tempo a comunicare il loro modo di essere architetti.

Tutto sommato è un desiderio realizzato: rappresentare il mondo attraverso un pensiero critico."

  • La tua sembra una storia costruita sulla libertà e sulle relazioni

"Sono riuscito a far sì che quello che faccio nella vita sia abbastanza vicino a quello che desideravo fare e che però mi è diventato chiaro solo poco a poco, esperienza dopo esperienza.

Non credo di aver avuto veri maestri, ma lungo il percorso ho conosciuto persone di grande qualità, da ognuna delle quali ho imparato qualcosa. Penso a Ludovico Quaroni, figura molto influente dell’architettura romana di qualche anno fa, Francesco Dal Co, Peter Eisenman o, più di recente, Renzo Piano, cui da giovane guardavo con sospetto.

Oppure a persone esterne all’architettura come Nanni Moretti, di cui sono stato assistente alla scenografia nell’epocale Ecce Bombo o alcuni grandi fotografi (Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, Guido Guidi) dai quali ho imparato a guardare al paesaggio senza pregiudizi.

Essere indipendente non vuol dire fare tutto da soli e, tutto sommato, non penso che la mia ostinata inclinazione all’indipendenza mi abbia penalizzato."

  • In chiusura, hai un consiglio da dare agli studenti?

"Impegnatevi per acquisire delle competenze, ma studiate per formarvi delle idee. L’università non insegna un mestiere, ma a formulare un pensiero che aiuta a comprendere il mondo e ad affrontarne i problemi.

Imparate ad avere delle opinioni e a difenderle. Le relazioni, le esperienze e, perché no, anche i fallimenti, vi porteranno dovete volete andare."

 

Gregorio Moretti
Sono nato nel 1980, laureato in Teorie della Comunicazione, da oltre 20 anni mi occupo di persone nelle aziende

Data pubblicazione 12 Febbraio 2025, Ore 9:00
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