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Concetti Chiave

  • Il neuromarketing combina marketing e neuroscienza per capire come i pensieri ed emozioni inconsce influenzano le decisioni d'acquisto dei consumatori.
  • Le tecniche di scansione cerebrale come FMRI e SST rivelano come i messaggi pubblicitari influenzano il cervello, aiutando a decifrare reazioni inconsce che influenzano il comportamento d'acquisto.
  • L'uso etico del neuromarketing può migliorare la comprensione dei desideri e motivazioni dei consumatori, aiutandoli a difendersi dalle manipolazioni pubblicitarie.
  • I neuroni specchio e la dopamina giocano un ruolo cruciale nell'imitazione e nel piacere associato allo shopping, influenzando il comportamento d'acquisto in modo significativo.
  • Il sensory branding, che utilizza stimoli sensoriali come immagini e profumi combinati, può rafforzare l'attrattiva e la memorizzazione di un prodotto, migliorando l'efficacia delle campagne di marketing.

Indice

  1. Neuromarketing - attività cerebrale e comportamento d'acquisto
  2. Generale mancanza di originalità da parte dei pubblicitari

Neuromarketing - attività cerebrale e comportamento d'acquisto

Siamo tutti consumatori; lo shopping costituisce una gran parte della nostra vita quotidiana e per questo ogni giorno siamo bombardati da messaggi inviati dal marketing e dai pubblicitari. Marchi e informazioni sulle marche ci arrivano costantemente.
Che cosa determina quali informazioni arrivano fino alla nostra coscienza e che cosa invece finisce nella discarica industriale del nostro cervello piena di messaggi pubblicitari caduti nel dimenticatoio?
I nostri cervelli sono costantemente impegnati a raccogliere e filtrare informazioni; il processo è inconscio e istantaneo ma è in atto ogni secondo di ogni minuto di ogni giorno.
La maggior parte die marchi in circolazione oggi sono l’equivalante, nel mondo dei prodotti, delle chiavi di una stanza d’albergo. Bisognerebbe capire perché i consumatori sono attratti da una particolare marca, ma se gli uomini del marketing potessero scoprire che cosa succede nei nostri cervelli e ci facesse scegliere una marca piuttosto che un’altra, quella sarebbe la chiave per costruire davvero i brand del futuro.
Il neuromaketing (connubio tra marketing e scienza) era la finestra sulla mente umana, quella che chiamo “buyology - l’acquistologia”. I pensieri subconsci, le emozioni e i desideri che guidano le decisioni di acquisto che prendiamo ogni giorno della nostra vita.
Una organizzazione, Commercial Alert, che ha inviato al congresso americano una petizione per porre fine al neuromarketing, sostiene che la scansione del cervello ha il fine di “soggiogare la mente e usarla per il profitto commerciale”.
Come ogni nuova tecnologia, il neuromarketing porta con sé il rischio di abusi e di conseguenza ci impone una responsabilità sul piano etico. É uno strumento che ci può aiutare a decodificare quello che come consumatori già pensiamo quando siamo di fronte a un prodotto, magari può metterci a nudo i metodi sospetti che gli uomini di marketing usano per sedurci e abbindolarci senza che nemmeno ce ne rendiamo conto.
Sebben ci saranno persone che useranno questo strumento nel modo sbagliato ci sono anche quelle che lo uso a fin di bene: capire meglio noi stessi, i nostri desideri, le nostre pulsioni e le nostre motivazioni e per usare quelle conoscenze a fini pratici benevoli. Perché quanto meglio sappiamo perché finiamo vittime dei trucchi e delle tattiche dei pubblicitari, tanto meglio potremo difenderci. Tuttavia, il neuromarketing non è la risposta a tutto, è solo una scienza giovane.
Il “brain-scanning” usato eticamente finirà per dare vantaggi a tutti:
- FMRI —> la più avanzata fra le tecniche di scansione cerebrali disponibili (una versione avanzata
dell’elettroencefalografo SST), il suo funzionamento si basa sulle proprietà magnetite dell’emoglobina, presente nei globuli rossi del sangue che portano l’ossigeno in circolo nell’organismo. Quando il cervello è impegnato in un’attività specifica ha bisogno di più “combustibile” sotto forma di ossigeno e glucosio. Quanto più intenso è il lavoro che una regione del cervello sta svolgendo, tanto maggiore è il suo consumo energetico e tanto maggiore sarà il flusso di sangue che la raggiunge; nell’FMRI quella regione si accende come una fiaccola. Così i neurologi possono interpretare quali aree specifiche del cervello stiano lavorando in ogni istante.
Con gli strumenti scientifici a nostra disposizione, doveva rivelare le verità nascoste dietro il modo in cui i messaggi delle marche e del marketing funzionano sul cervello umano, come il nostro io più vero reagisce agli stimoli a un livello di gran lunga più profondo rispetto al pensiero cosciente, e come le nostre menti inconsce controllano il nostro comportamento. (il product placement funziona veramente? quanto sono potenti i logo delle marche? si fa ancora pubblicità subliminale? il nostro comportamento è influenzato dalle grandi religioni mondiali?)
Esempio 1: le etichette dissuasive avevano intensamente stimolato un’area del cervello dei fumatori, “il centro del desiderio”. I risultati della FMRI dimostravano che nel etichette dissuasive non solo non riuscivano a distogliere dal fumo ma incoraggiavano i fumatori a continuare a fumare.
Esempio 2: viene usato anche in campo politico; lo studio dimostrava che la miriade di elettori sottoposti al test potevano aiutare a progettare i messaggi della campagna, si è visto che giocare sulla paura degli elettori si è dimostrato più volte un elemento chiave per ottenere una vittoria politica. Nonostante i diffusi inviti a una pubblicità politica che punti su “ottimismo” “speranza” “costruire, non distruggere” etc.. la
- paura funziona. Nel 2012 la neuroscienza inizierà a dominare tutte le previsioni elettorali.
SST —> misura l’attività elettrica all’interno del cervello, ovvero le onde cerebrali in tempo reale. Le neuroimmagini possono scoprire verità che mezzo secolo di ricerche di mercato, focus group e sondaggi d’opinione non sono riusciti a comprendere al meglio. La SST ha il vantaggio di poter misurare istantaneamente le reazioni, il che la rende ideale per registrare l’attività cerebrale di persone che guardavano pubblicità o programmi televisivi.
Parlando solo di prodotti di largo consumo falliscono il 52% dei nuovi marchi e il 75% dei singoli prodotti. Le tecniche di neuroimmagine potevano arrivare a identificare quelli con le migliori possibilità di successo
isolando i centri di ricompensa dei consumatori e rivelandoci quali iniziative di marketing o pubblicitarie sono più stimolanti, attraenti e quali invece piatte.
Le ricerche di mercato non stavano per sparire ma stavano per prendere posto al tavolo delle neuroscienze e assumere un nuovo aspetto.
Questo metodo può misurare il grado di coinvolgimento emotivo dei soggetti, il ricordo, l’attrazione e la repulsione.
Esempio: tutte le associazioni positive che i soggetti avevano con la CocaCola, la sua storia, il logo, il colore, il design, la fragranza; i ricordi infantili di Coca, spot televisivi e pubblicità martellanti negli anni, la pura emozionale cocacolità del marchio, battevano senza scampo la preferenza naturale, razionale per il gusto della pepsi. Perché le emozioni sono il modo in cui il nostro cervello codifica le cose di valore e un marchio che ci coinvolga emotivamente. Sulle orme dello studio coca-pepsi fu subito condotto un altro studio di neuromarketing, esperimento con cui volevano esaminare le scansioni cerebrali di soggetti a cui veniva presentata una scelta: una gratificazione immediata, di breve periodo, contro una ricompensa ottenibile in un momento successivo. Anche gli economisti vogliono capire le decisioni che entrano in gioco in quello che ci fa comportare come facciamo; la ricerca in campo finanziario ed economico ha trovato un ostacolo insormontabile. Questo perché, come le ricerche di mercato, anche la modellazione economica si basa sulla premessa che gli esseri umani si comportino in modo razionale e prevedibile. Ma quel che si comincia a vedere nelle scansioni cerebrali è che le nostre emozioni hanno un’influenza enorme su ogni decisione che prendiamo. Da questo nasce l’interesse per la neuroeconomia, lo studio del modo in cui il cervello prende decisioni di natura finanziaria (non sorprende che il neuroimaging dopo aver catturato l’attenzione del mondo della pubblicità, entri anche in altre discipline).
Come ha dimostrato L’SST perché il product placement funzioni deve essere molto più scaltro e sofisticato del semplice promuovere una serie di prodotti a caso, bisogna che il prodotto abbia un senso all’interno della narrazione.
Entrambi questi due metodi sono in grado di misurare in modo più preciso di qualsiasi altro strumento il livello di attrazione emotiva o repulsione che proviamo in quanto consumatori.
I risultati di ulteriori studi hanno ribaltato i miti e le convinzioni che lungamente sono stati a accettati sul tipo di pubblicità, di branding e di confezione che funziona effettivamente per sollecitare il nostro interesse e spingerci ad acquistare.
C’è il timore diffuso da parte degli studiosi che le scansioni cerebrali siano una sorta di "super dispositivo di lettura della mente" che minaccerebbe riservatezza e la “libertà mentale” dei cittadini.
Nel 2003, era chiaro che i metodi tradizionali di ricerca, come le ricerche di mercato e i focus group non erano più all’altezza del compito di capire che cosa pensano veramente i consumatori; questo perché le nostre menti irrazionali, inondate di pregiudizi culturali radicati nella nostra tradizione, nell’educazione e in una serie di altri fattori subconsci, esercitano un’influenza potente ma nascosta sulle scelte che compiamo. Sappiamo di sapere quel che facciamo, ma che ci piaccia o no tutti regolarmente ci comportiamo in modi per cui non abbiamo una spiegazione logica perché nel nostro mondo frenetico e stressato, dove le notizie ci bombardano dal momento in cui accendiamo la radio al mattino fino al momento in cui andiamo a dormire.
Quanto maggiore è lo stress a cui siamo sottoposti, tanto più ci sentiamo impauriti, incerti e insicuri, e tanto più irrazionale tende a diventare il nostro comportamento.
Sotto stress le persone tendono a dire una cosa, mentre il loro comportamento suggerisce qualcosa di totalmente diverso. Questo significa disastro per le ricerche di mercato che si basano sul fatto che i consumatori siano precisi e onesti; la nostra mente inconscia è molto più brava a interpretare il nostro comportamento.
Le aziende spesso non sanno che cosa fare per coinvolgere in modo autentico anziché semplicemente attirare la nostra attenzione; ancora non sanno rispondere a una domanda fondamentale: che cosa spinge, come consumatori, a fare le scelte che facciamo? che cosa ci fa scegliere una marca o un prodotto anziché un altro?
Le aziende tirano avanti con le stesse strategie e le stesse tecniche di sempre; nel marketing fanno ancora le stesse vecchie ricerche quantitative e qualitative, quando non sanno che minuscoli fattori, impercettibili quasi, possono influenzare le risposte di un focus group. Per questo, è più probabile che le vere reazioni ed emozioni che proviamo come consumatori si trovino più facilmente nel cervello, fra il pensiero e la sua traduzione in parole (nel 2003 le aziende non sembravano capire i consumatori); inoltre, non riuscivano a trovare e sviluppare marchi che corrispondessero alle nostre esigenze, né sapevano bene come comunicare in modo che i loro prodotti raggiungessero la nostra mente e il nostro cuore.
La neuroscienza rivelava che le marche sono molto più che semplici prodotti riconoscibili confezionati in modi che catturano l’occhio; fino ad allora tutti gli esperimenti di neuroimmagine si erano concentrati su un prodotto particolare, mentre lo studio non sarebbe stato solo un brand specifico ma di esplorare cosa significa realmente per i nostri cervelli il concetto di “brand”. Inoltre, avrebbe potuto non solo trasformare il modo in cui le aziende progettano, commercializzano e pubblicizzano i loro prodotti ma anche capire che cosa succede veramente dentro il nostro cervello quando prendiamo le decisioni su che cosa acquistare. Nel 1965 un consumatore medio ricordava un 34% di pubblicità, nel 1990 era scesa all’8% per vari motivi: 1 dovuto al bombardamento mediatico di oggi sempre più veloce, mutevole e attivo.

Generale mancanza di originalità da parte dei pubblicitari

Oggi, il sistema di filtraggio nel nostro cervello è diventato molto esteso e autoprotettivo; noi che guardiamo la televisione non riusciamo a distinguere una marca dall’altra eppure le grandi multinazionali stimano circa 26 milioni di dollari l’anno per mettere il proprio marchio su una delle trasmissioni più seguite in tutta la storia della televisione.
Da spettatori, riuscivamo a cogliere la differenza fra i prodotti che hanno un ruolo o recitano una parte in uno spettacolo televisivo o in un film (product integration) e i comuni spot pubblicitari da 30 secondi che vanno in onda durante le pause pubblicitarie. Ma è diventato difficile separare i due tipi di pubblicità. Questo assalto intenso alla pubblicità lo si può attribuire a una corsa finale calcolata dai pubblicitari contro nuove tecnologie che si vanno diffondendo, come TiVo che consente agli spettatori di saltare gli spot televisivi e vedere le trasmissioni preferite senza interruzioni.
Il product placement (pubblicità occulta) è vecchio quanto il mezzo stesso, la sua più grande fioritura è stata negli anni 30 e ancora oggi siamo sovraccaricati e sommersi da da un flusso costante di questo. Presto il 75% di tutte le trasmissioni in prime time presenteranno prodotti e intrecci che saranno stati pagati dagli inserzionisti pubblicitari e questo andrà ad oscurare ancora di più la linea di separazione fra pubblicità e contenuti creativi, tanto da alterare il significato stesso di intrattenimento.
Nel corso degli anni, le ricerche di neuromarketing hanno scoperto che il ricordo di un prodotto da parte dei consumatori è la misura più pertinente e affidabile dell’efficacia di una pubblicità; inoltre, è collegato con il futuro comportamento d’acquisto dei soggetti, in altre parole, è di gran lunga più probabile che allunghiamo la mano per prenderli quando andremo in un negozio, o che li aggiungiamo al carrello la prossima volta che faremo acquisti online. I soggetti mostravano un ricordo significativamente maggiore dei logo
“branded" (quelli che avevano piazzato strategicamente i loro prodotti nel corso della trasmissione o pubblicizzati durante il programma) rispetto a quelli “non branded"; i primi avevano espulso quelli “non branded”.
Due grandi aziende come la coca e la ford avevano improntato le loro campagne utilizzando la stessa strategia di comunicazione, entrambe avevano speso la stessa quantità di denaro ed entrambe avevano avuto in onda un numero enorme di pubblicità durante lo stesso programma per cui entrambe avevano raggiunto lo stesso numero di spettatori; ma perché la strategia cocacola aveva avuto tanto successo e quello della ford no? Per capire perché, bisogna riflettere sul modo in cui le loro pubblicità erano integrate nel programma, coca ad esempio era pienamente integrata nella narrazione. In sostanza, i risultati dicono che non abbiamo ricordo di marche che non svolgono una parte integrante nella storia di un programma.
I prodotti che diventano parte integrante della narrazione di un programma non sono sono più memorabili, ma sembra che abbiano un effetto bidirezionale; non solo aumentano l’intensità del nostro ricordo di un prodotto ma indeboliscono anche la nostra capacità di ricordare le altre marche.
Nel 1992 uno scienziato italiano, Giacomo Rizzoletti stava studiando il cervello o meglio esaminando una regione del cervello di una specie di scimmia, il macaco; parte che i neuroscienzati chiamano F5, ovvero l’area promotoria.
Curiosamente, osservarono che i neuroni promotori si accendevano non solo quando la scimmia raccoglieva la nocciolina ma anche quando vedeva altre scimmie compiere quel gesto; semplicemente osservando, il cervello della scimmia aveva mentalmente imitato lo stesso gesto —> fenomeno denominato “neuroni a specchio”, neuroni che si attivano quanto di compie un’azione e anche quando si osserva la medesima azione compiuta da altri.
Rizzoletti è riuscito a dimostrare che i neuroni specchio dei macachi rispondevano a quelli che sono chiamati “gesti finalizzati” cioè attività che coinvolgono un oggetto, a differenza dei movimenti casuali. In breve, è come se vedere e fare fossero una cosa sola.
Dai neuroni specchio dipende anche il perché spesso senza volerlo, imitiamo il comportamento degli altri (lo si può osservare perfino nei bambini piccoli). I neuroni specchio sono in funzione anche quando avviene il contrario, esempio tutti tendiamo tutti a empatizzare quando succede qualcosa di brutto alle persone buone ma quando succedono brutte cose a persone cattive gli uomini provano un certo grado di piacere; per questo non si attivano solo quando osserviamo il comportamento di altri ma persino quando leggiamo di qualcuno che compie una certa azione.
Tutto quello che vediamo fare ad altri lo facciamo anche noi, questi neuroni non solo ci aiutano ad imitare gli altri ma sono anche responsabili dell’empatia umana; inviano segnali al sistema limbico (regione delle emozioni nel nostro cervello), così che possiamo sperimentare che cosa significhi mettersi nei panni di un altro.
I neuroni specchio hanno aggirato il loro pensiero razionale e fatto sì che inconsciamente imitassero e acquistassero quello che si trovavano di fronte; questo è il modo in cui questi agiscono su di noi come consumatori (possono rispondere anche a cose che vediamo online), tenendo anche conto che il comportamento degli altri modifica la nostra esperienza d’acquisto e alla fine influenza le nostre decisioni. In effetti, esistono interi siti di video-sharing dedicati a questo genere per interposta persona; questo concetto dell’imitazione costituisce un fattore importante nel perché acquistiamo quello che acquistiamo (qualche volta basta vedere in continuazione un certo prodotto perché diventi più desiderabile).
I neuroni specchio non lavorano da soli, spesso agiscono in coppia con la dopamina, una delle sostanze chimiche del piacere del cervello che da maggiormente dipendenza, e le decisioni d’acquisto sono guidate in qualche misura dai suoi effetti seduttivi.
Retail therapy —> il nostro vizio, ovvero lo shopping, che può creare dipendenza ed è diventato ormai una parte enorme di quello che facciamo nel nostro tempo libero. Ci rende davvero felici? si, almeno sul brevissimo termine, e quella dose di felicità può essere attribuita alla dopamina, quella scarica di ricompensa, piacere e benessere che va al cervello. Quando decidiamo di comprare qualcosa, le cellule cerebrali che liberano dopamina secernano un senso di benessere e alimentano il nostro istinto a continuare ad acquistare, anche quando la nostra mente razionale ci dice che abbiamo già fatto abbastanza. Secondo Brookheimer “l’attività della dopamina nel cervello aumenta in previsione di molti tipi diversi di ricompense, da quelle legate all’azzardo alle ricompense monetarie o sociali.”; quella pazza ondata di piacere che proviamo in previsione all’acquisto è perché consciamente o meno calcoliamo gli acquisti in base a quanto possono contribuire al nostro status sociale e quello collegato al successo riproduttivo. Che lo sappiamo o no, valutiamo gli oggetti chic o di moda in gran parte in termini della loro capacità di migliorare il nostro status sociale.
David Laibson: “il nostro cervello emotivo vuole azzerare la carta di credito, anche se il nostro cervello logico sa che dovremmo risparmiare in vista della pensione”.
In futuro, man mano che gli uomini di marketing cominceranno a capire meglio come i neuroni specchio pilotano il nostro comportamento, troveranno sempre più modi di sfruttarli per indurci ad acquistare. Il futuro della pubblicità non è fatto di fumo e specchietti, sono i neuroni specchio, i quali si dimostreranno per conquistare la nostra fedeltà, le nostre menti e i nostri portafogli, ancora più potenti di quanto gli stessi uomini di marketing avrebbero potuto immaginare.
Vicary, oggi famoso per aver coniato il termine “pubblicità subliminale” sosteneva la forza di suggestione dei messaggi nascosti (nella pubblicità); aveva denunciato i metodi di manipolazione psicologica che il marketing stava portando nella pubblicità. I consumatori erano convinti che il governo potesse usare lo stesso genere di tecniche visibili per diffondere la propria propaganda, di conseguenza le reti televisive americane e la National Association of Broadcasters nel giugno 1958 misero al bando la pubblicità subliminale.
Inoltre, l’American Psychological Association ha dichiarato che la pubblicità subliminale era confusa, ambigua e non efficace quanto la pubblicità tradizionale. Ancora oggi non esistono messe al bando esplicite della pubblicità subliminale anche se in USA si ha la posizione ufficiale che una pubblicità subliminale “che spinga i consumatori a scegliere inconsciamente certi servizi o beni o che modifichi il loro comportamento normale, può costruire una pratica fraudolenta o scorretta. Finora non sono state emanate né regolamenti né direttive che chiariscano che cosa costituisce pubblicità subliminale.
In termini generali, i messaggi subliminali sono definiti come messaggi visivi, sonori o diretti a qualsiasi altro organo di senso, che vengono registrati al di sotto del livello della percezione cosciente e possono essere rilevati solo dalla mente subconscia; eppure accuse di messaggi subliminali spuntano periodicamente. Se si può intendere come pubblicità subliminale ogni messaggio subconscio inviato dai pubblicitari per attirarci verso un prodotto, allora si tratta di una tecnica molto più diffusa di quanto ci si sia mai resi conto. Tant’è che ci sono aziende che usano apertamente la pubblicità subliminale.
Molto spesso, quando nella nostra cultura si parla di messaggi subliminali sono messaggi che vendono sesso.
Altri pubblicitari hanno trovato il modo per far funzionare impressioni che durano una frazione di secondo ma non le chiamano più “subliminali”, negli anni 90 sono state ribattezzate “primes o visual drumbeats”. La pubblicità subliminale permea molti aspetti della nostra cultura e ci assale ogni santo giorno; ma esercita veramente un’influenza sul nostro comportamento o come la maggior parte dei product placement, viene sostanzialmente ignorata dai nostri cervelli?
Secondo vari studi gli stereotipi positivi hanno avuto un effetto psicologico positivo sui soggetti che a sua volta ha migliorato le loro prestazioni fisiche, per cui si è verificata un’evidenza positiva che le suggestioni subliminali potessero influenzare il comportamento delle persone.
I ricercatori hanno denominato “emozione inconscia” questo effetto, si era verificato un piccolo cambiamento emotivo senza che i soggetti fossero coscienti dello stimolo che lo aveva causato, né di qualsiasi variazione nei loro stati emotivi; in sostanza dei volti sorridenti possono influire sul nostro subcosciente e farci acquistare di più. Anche il luogo di origine di un prodotto può subcoscientemente influenzare la probabilità che lo acquistiamo.
La pubblicità subliminale ha poco a che fare con il prodotto stesso, sta nei nostri cervelli.
L’unica differenza significativa era che le “immagini subliminali” provocavano una maggiore attività nella corteccia visiva primaria; secondo risultati di analisi c’è più attività nei centri della ricompensa e del desiderio quando i soggetti osservano le immagini subliminali che quando vedono immagini esplicite. Dato che le immagini subliminali non presentavano alcun logo o segno di riconoscimento esplicito, i fumatori non erano coscienti di guardare un messaggio pubblicitario. Una volta che il logo scompare, invece, il vostro cervello non è più all’erta e risponde subconsciamente.
Esempio: la tattica delle aziende del tabacco, di collegare immagini innocenti al fumo nel nostro subcosciente, ha dato frutti alla grande; mettendo al bando le pubblicità del tabacco, i governi senza volerlo aiutano a promuovere quel comportamento mortale che vorrebbero eliminare.
Ripetutamente si è visto che i rituali ci aiutano a stabilire dei collegamenti emotivi con le marche e i prodotti, rendendo memorabili le cose che compriamo.
Rituali e superstizioni sono convinzioni non del tutto razionali che si possa in qualche modo manipolare il futuro mediante determinati comportamenti, nonostante non esista alcuna relazione causale rilevabile fra quei comportamenti e i loro supposti esiti. Se queste convinzioni sono così irrazionali, perché la maggior parte di noi si comporta in modo superstizioso ogni giorno, senza nemmeno pensarci? Dobbiamo tenere presente che il nostro mondo sta cambiando a una velocità incredibile perché la tecnologia procede a un ritmo che non avremmo mai potuto immaginare. Questa velocità del cambiamento ha portato con sé una maggiore incertezza; quanto più imprevedibile diventa il mondo tanto più annaspiamo alla ricerca di un senso di controllo sulla nostra vita e quanto più crescono l’ansia e l’incertezza che proviamo, tanto più numerosi sono i comportamenti superstiziosi e i rituali che adottiamo per riuscire in qualche modo a dominarle.
Sia superstizione sia i rituali sono stati collegati scientificamente al bisogno umano di controllo in un mondo turbolento, sebbene alcuni rituali sono vantaggiosi per il nostro benessere mentale e fisico poiché essi hanno maggiore effetto sulla salute emotiva.

Ad esempio: il primo rituale è quello che l’azienda chiama “preparativi per la battaglia” quando si esce di casa e ci si prepara ad affrontare la giornata, oppure un secondo rituale può essere “il simposio” che comporta il mangiare con altri come atto sociale in cui ci si trasforma da esseri solitari in membri di un gruppo. Oppure farsi sexy che comporta ad ogni genere di abbellimento e di rifioritura o ancora, come ultimo rituale, il “proteggersi dal futuro” che comprende tutte le azioni che svolgiamo prima di andare a letto la notte, esso ci aiuta a sentirci tranquilli prima dell’arrivo di una nuova giornata e di una nuova tornata degli stessi rituali.
Questi rituali riguardano il controllo e tutti li compiamo in una forma o nell’altra ogni giorno. La maggior parte di questi e dei comportamenti superstiziosi sono così integrati nella nostra cultura e nelle nostre vite quotidiane che spesso non pensiamo nemmeno perché facciamo certe cose.
Che cosa hanno a che fare i rituali con quello a cui pensiamo quando facciamo acquisti? Prodotti e marchi a cui sono associati rituali o superstizioni sono molto più “adesivi” di quelli che non hanno associazioni di questo tipo perché i rituali dei prodotti ci danno una illusione di comfort e di appartenenza. In un mondo sempre più standardizzato, sterilizzato e omogeneizzato i rituali ci aiutano a distinguere una marca dall’altra. C’è qualcosa di così attraente in questo senso di stabilità e di familiarità che molti consumatori hanno un atteggiamento quasi religioso di fedeltà alle marche e ai prodotti preferiti; acquistare un prodotto è più spesso un comportamento ritualizzato che una decisione cosciente (in fin dei conti quasi tutti noi siamo figli delle abitudini).
I rituali possono riguardare qualsiasi tipo di prodotto o stile di vita, dal genere sport a quello alimentare secondo cui le aziende hanno creato rituali basandosi sulla disponibilità stagionale dei prodotti.
Ci sono molti altri modi in cui ci comportiamo irrazionalmente nei confronti dei prodotti e in molti di essi l’ossessione per una marca ha molto in comune con i rituali e il comportamento superstizioso: in entrambi i casi sono in gioco azioni abituali ripetute, che hanno poca o nessuna base logica, ed entrambi derivano dalla necessità di avere un senso di controllo in un mondo opprimente e complesso. I casi più gravi di ossessione per una marca normalmente hanno le loro radici nell’adolescenza e in età anche minore. Quando siamo sotto stress, o quando la vita ci sembra procedere a caso, fuori controllo, cerchiamo spesso conforto in prodotti o oggetti familiari come rituali e superstizioni che possono esercitare un’influenza potente su come e cosa acquistiamo. É possibile che la religione, che è così ricca di rituali, familiari e confortanti, abbia un ruolo anche nel perché acquistiamo? Ci sono somiglianze fra il modo in cui il nostro cervello reagisce ai simboli religiosi e spirituali, e il modo in cui reagisce a prodotti e brand? Se ci sono persone disposte a pagare piccole o grandi somme di denaro per cose che pensano abbiano un significato religioso o spirituale, allora spiritualità e branding sono inestricabilmente collegati. Nonostante le differenze, tutte le grandi religioni hanno le fondamenta che appoggiano su 10 pilastri comuni:
- senso di appartenenza —> ad esempio se siete innamorati di Nike è probabile che proviate un senso di appartenenza comune ad altri utenti di quel brand. Questo senso di appartenenza ha un influsso
- profondo sul nostro comportamento.
visione chiara —> nel senso che le aziende (come le religioni) propongono una missione priva di ambiguità, che sia raggiungere un certo stato di grazia o una meta spirituale. Le aziende di successo
- come i prodotti di successo hanno un senso chiaro e molto forte della loro missiones
potere sopra i nemici —> avere un avversario identificabile ci dà la possibilità non solo di articolare e mostrare la nostra fede m anche di unirci a tutti quelli che condividono lo stesso credo; questo tipo di mentalità “noi contro loro” si può vedere anche in tutto il mondo del consumo. Questa strategia “noi e loro” attrae i fan, sollecita alla controversia, crea fedeltà, ci fa pensare e discutere e ovviamente fa
- comprare.
fascino sensoriale —> prodotti e marche evocano certe sensazioni e certe associazioni in base al loro aspett, al tatto, al profumo ecc... le qualità sensoriali dei prodotti evocano quasi sempre una risposta
- emotiva.
storytelling —> riguarda la narrazione. I rituali che la maggior parte delle religioni praticano e a cui ci chiedono di partecipare pregando, inginocchiandoci, meditando, cantando inni o ricevendo sacramenti, hanno le radici in quelle narrazioni su cui è edificata la fede. Analogamente ogni brand di successo ha le
- proprie storie.
grandezza —> mantenere un senso di grandezza è così importante che per esempio nessuna chiesa cattolica può essere più alta della Cattedrale di San Pietro; anche molte aziende operano in modo da ispirare analoghe sensazioni di timore e meraviglia, proposti in modo da ispirare un senso di grandezza e magnificenza. Certe aziende e certi prodotti ispirano un senso di grandezza anche solo per l’ampiezza
- della loro visione.
- evangelismo
simboli —> sono onnipresenti, che le religioni, anche i prodotti e le marche hanno le loro icone. Con il mercato che diventa sempre più affollato, si affermano sempre più certe icone semplici ma potenti che vanno a creare una sorta di linguaggio globale istantaneo, una specie di stenografia. Molto più dei logo dei loro prodotti, questi simboli evocano in noi associazioni molto forti, nello stesso modo in cui le icone religiose evocano fortissime associazione religiose. Simboli come questi possono avere un impatto forte
- sul perché acquistiamo.
mistero —> quando si tratta di brand il mistero può essere efficace per catturare la nostra attenzione; quanto più un brand può coltivare il mistero e l’intrigo tanto più è probabile che ci affascini. Ad esempio, negli ultimi anni nell’industria mondiale dei cosmetici è emersa anche una tendenza a creare del mistero attorno ai vari brand commercializzando i profumi al DNA di chi se li mette. Indipendentemente dal fatto che l’idea di un profumo che corrisponde al DNA di una persona è del tutto priva di senso, tutto questo non ha impedito a nessuna di quelle aziende di tentare di convincere i consumatori dell’esistenza di simili
- formule misteriose. Rituali.
Questi pilastri hanno molto in comune con i brand e i prodotti che apprezziamo di più, tant’è che quelli che hanno maggiore successo sono quelli che hanno più cose in comune con la religione. C’è qualche dimostrazione scientifica che i brand abbiano molto in comune con la spiritualità e la religione? Ci sono i cosiddetti “smashable” ovvero i marchi frantumabili, cioè quelli tendenzialmente più forti e più coinvolgente emotivamente, quelli che hanno un seguito appassionato e fedele; ma ci sono anche i marchi deboli cioè quelli che provocano uno scarso coinvolgimento emotivo fra i consumatori se non addirittura un coinvolgimento negativo.
I brand forti provocano in molte aree del cervello, deputate alla memoria, alle emozioni, ai processi decisionali e al significato, un’attività più intensa di quella che provocano invece i brand deboli; quando i soggetti vedevano immagini immagini associate ai brand forti il loro cervello registrava esattamente gli stessi schemi di attività di quando venivano presentate loro le immagini religiose. Non c’è differenza fra il modo in cui il cervello dei soggetti reagiva ai brand più potenti e quello in cui reagiva alle icone e alle personalità religiose; si attivava la parte del cervello associata con il senso di ricompensa.
Quando pensiamo se acquistare o no, il nostro cervello richiama tutte le informazioni di cui dispone sul prodotto e prende una decisione in conseguenza. Una ricerca ha mostrato che le emozioni che proviamo sono simili alle emozioni generate da simboli religiosi.
Quando invece i soggetti vedevano brand emotivamente più deboli, venivano attivate aree del cervello completamente diverse, il che fa pensare che i marchi più deboli non evocassero in loro le stesse associazioni.
Il nostro coinvolgimento emotivo con i brand più potenti ha molti elementi analoghi ai nostri sentimenti religiosi; ed è questo il motivo per cui marketing e pubblicità hanno cominciato a mutare un numero crescente di elementi dal mondo delle religioni per convincerci ad acquistare i loro prodotti.

La vera motivazione che stava al fondo delle vostre scelte era costruita su una vita di associazioni, alcune positive e altre negative, di cui non eravamo nemmeno coscienti; quando prendiamo decisioni in merito a cosa acquistare, il nostro cervello recupera e passa in rassegna quantità incredibili di ricordi, fatti ed emozioni e le “spreme” in una risposta rapidissima, una sorta di scorciatoia, che prende il nome di “marcatore somatico”.
I marcatori somatici nel cervello funzionano come segnalibri che facilitano le nostre quotidiane decisioni di acquisto; essi aiutano il cervello a ridurre automaticamente e istantaneamente il campo delle possibilità aperte in una data situazione e a prendere una decisione che sappiamo darà l’esito migliore, meno doloroso. Questi marcatori servono a collegare un’esperienza o un’emozione a una reazione specifica necessaria. Le stesse scorciatoie cognitive stanno alla base della maggior parte delle nostre decisioni di acquisto. I marcatori somatici non sono semplicemente una collezione di riflessi dell’infanzia o dell’adolescenza, ogni giorno ne generiamo di nuovi perché quanto più ampia è la collezione di marcatori somatici del nostro cervello tante più decisioni di acquisto siamo in grado di prendere; senza marcatori somatici non saremmo capaci di prendere alcuna decisione. Come si formano questi marcatori somatici? Le aziende e la pubblicità cercano di crearli nei nostri cervelli? eccome.
Per i pubblicitari, creare un marcatore somatico nel cervello dei consumatori è facile e poco costoso poiché essi sono normalmente associazioni fra due elementi incompatibili; per questo, nel tentativo di agganciare la nostra attenzione i pubblicitari cercano di creare associazioni sorprendenti, addirittura sconvolgenti, fra due cose estremamente diverse. Certe pubblicità creano dei marcatori somatici nella mente dei consumatori attraverso lo humor; poiché questi sono basati su esperienze pregresse di ricompensa e punizione, anche la paura può creare marcatori somatici particolarmente potenti. Molti pubblicitari son propensi a sfruttare la nostra natura sempre più stressata, insicura e vulnerabile.
In tutti i settori merceologici ci sono brand che giocano sulla paura, direttamente o indirettamente. Sarebbe comprensibile se in un prossimo futuro la pubblicità si basasse sempre più su marcatori somatici orientati dalla paura, con le aziende che cercheranno di spaventarci e farci pensare che se non acquistiamo il loro prodotto ci sentiremo meno sicuri, meno felici, meno liberi e meno in grado di controllare la nostra vita. Non tutti i marcatori somatici si basano sul dolore e la paura, alcuni dei più efficaci hanno le radici in esperienze sensoriali che possono essere anche molto piacevoli.
Oggi siamo iperstimolati visivamente, molto di più di quanto sia mai accaduto in passato, quanto più siamo stimolati, tanto più difficile è catturare la nostra attenzione. I ricercatori hanno scoperto che tutta quella saturazione visiva produceva solo affaticamento agli occhi e non un incremento delle vendite. I pubblicitari per molto tempo hanno dato per scontato che il logo sia tutto; questo perché il marketing si è concentrato sull’attirare e motivare i consumatori visivamente poiché le immagini sono di gran lunga più efficaci e più memorabili quando sono abbinate ad un altro senso, come l’udito o l’olfatto —> detto “sensory branding”. Quando vediamo e annusiamo contemporaneamente qualcosa che ci piace si attivano insieme varie regioni del nostro cervello, in particolar modo una regione associata alla percezione di qualcosa di piacevole o gradevole. Quando un brand si abbina male a una certa fragranza si ha un’attivazione di una regione del cervello associata all’avversione e alla repulsione; mentre quando siamo esposti a combinazioni che sembrano funzionare e una fragranza piacevole si adatta bene ad un’immagine visiva altrettanto attraente e coerente, non solo percepiamo il tutto come più piacevole ma è anche più probabile che lo ricordiamo. L’odore di un prodotto attiva molte delle stesse regioni che sono attivate dalla sua vista.
I nostri sensi sono importanti per interpretare il mondo che ci circonda e a loro volta hanno un ruolo fondamentale nel nostro comportamento.

Le associazioni di questo tipo sono il motivo per cui alcune aziende usano il profumo di vaniglia nei loro prodotti (per invogliare l’acquisto) perché tra tutti i sensi, l’olfatto è il più primitivo, con le radici più profonde. Le preferenze per gli odori variano da cultura a cultura, da generazione a generazione perché sono tutte formate dalle nostre associazioni innate; ad esempio il profumo di pane appena sfornato si è dimostrato un ottimo investimento per aumentare le vendite di molte linee di prodotti. Il sensory branding si sta diffondendo sempre di più.
La sensazione che un prodotto dà al tatto ha un ruolo in portante nella nostra decisione di acquistarlo o meno, ma anche il colore sollecita le nostre inclinazioni all’acquisto, mentre il branding mediante i suoni esiste dagli anni 50. I suoni innescano forti associazioni ed emozioni e possono esercitare una forte influenza sul nostro comportamento. Come per le combinazioni di immagini e profumi, quando si presentano insieme suoni e immagini vengono percepiti in modo più favorevole che non quando sono presentati isolamenti; poiché l’attenzione dei consumatori aumenta quando sentono una melodia caratteristica mantre vedono un’immagine o un logo riconoscibili e ricordano di più quello che vedono e sentono quando melodia e logo sono presentati simultaneamente che non quando occhi e orecchie sono sollecitati separatamente.

Qual è il futuro del sensory branding? Grazie alla FMRI sappiamo in che misura i sensi sono interrelati, quella determinata fragranza può farci vedere, il suono può farci leccare i baffi e la vista può aiutarci a immaginare un suono, un gusto e un tatto.
La via delle emozioni passa per le nostre esperienze sensoriali e le emozioni sono una delle forze più potenti che guidano i nostri acquisti.
Le aziende sono inadeguate nel predire come noi consumatori risponderemo ai loro prodotti perché le ricerche di mercato sono molto inaffidabili e a volte possono fuorviare seriamente un’azienda o rovinare completamente un prodotto.
Quella tradizionale ricerca di mercato, fatta di questionari, inchieste, focus group etc.. non sarà più di moda e il neuromarketing diventerà lo strumento principe che le aziende useranno per predire il successo o il fallimento dei loro prodotti. Con il crescere della diffusione e della domanda, il neuromarketing diventerà più economico, più facile e più adorabile, e la sua diffusione aumenterà ulteriormente.

Il sesso nella pubblicità contribuisce a sedurre il nostro interesse per un prodotto tant’è che non sono solo le aziende di abbigliamento e profumi che usano l’esplicito suggerimento del sesso per promuovere i loro prodotti. Il sesso è presente ovunque nella pubblicità. Ulteriori ricerche hanno confermato che gli stimoli sessuali interferiscono realmente con l’efficacia di una pubblicità poiché il materiale con allusioni sessuali rende ciechi a tutte le altre informazioni nella pubblicità, anche al nome del prodotto stesso. I ricercatori hanno dato a questo fenomeno il nome di “effetto vampiro” perché il contenuto sollecitante succhiava via l’attenzione da quello che la pubblicità cercava effettivamente di dire. Sesso e pubblicità si sono incontrati da quasi un secolo, in cui esse si spingevano molto oltre suscitando l’ostilità del pubblico. Ad esempio il Dipartimento della Giustizia americano ha addirittura aperto un’inchiesta per stabilire se Calvin Klein avesse violato le leggi sulla pornografia infantile; da allora tanti osservatori cominciavano a rendersi conto che la tattica di Klein, di presentare pubblicità ricche di allusioni sessuali, mettere in agitazioni i consumatori e poi ritirarle di colpo dalla circolazione, era una manovra di PR azzardata e in grado di catturare l’attenzione quanto le pubblicità stesse. Quelle stesse pubblicità, per quanto offensive possano essere, sono tanto più memorabili per il loro elementi scioccanti, ottenendo così lo scopo: generare controversia. É il sesso che vende o la controversia? gli indizi puntano alla controversia. Il sesso è un fattore potente ma in molti casi l’attenzione può essere molto più efficace del contenuto allusivo in sé; anche se sesso e controversie sono, nel mondo della pubblicità, collegati in modo inestricabile, quando si tratta di ciò che influenza veramente il nostro comportamento e ci spinge ad acquistare, spesso la controversia può essere il fattore più potente. Come il sesso sequestra la nostra attenzione e la allontana da informazioni fondamentali in una pubblicità, lo stesso possono fare la grande bellezza o la celebrità. Quanto più provocanti e sensuali le donne giudicavano espressione e abbigliamento della modella, tanto più erano annoiate o disinteressate alla pubblicità; invece, quanto più le modelle erano genuine, naturali, non artefatte e vestite, tanto più positiva era la reazione. Cresce il numero dei pubblicitari che comincia a rendersi conto che i consumatori amano guardare (e immedesimarsi con) persone come loro. Questo può aiutarci a spiegare perché una delle tendenze più seguite negli spot di oggi sono le pubblicità generate dai consumatori; pubblicità che consentono alle persone comuni di partecipare alla campagna. Poiché le pubblicità in genere non hanno come protagonisti modelli o modelle ma persone di aspetto comune, simili a noi, possiamo connetterci e identificarci con loro più facilmente (le persone di aspetto comune sembrano più invitanti). Esso ha a che fare con il desiderio di autenticità, secondo la loro ordinarietà le persone comuni fanno pensare ad una storia autentica; sebbene non hanno l’aspetto di modelli o modelle, abbiamo l’impressione che credano veramente in quello che pubblicizzano. Quando invece vediamo dei supermodelli abbiamo la sensazione che tutto ciò che dicono del prodotto sia falso; non raccontano una storia ma recitano in una storia.

Molte aziende si stanno rendendo conto che la vita è diventata per molti il massimo dei reality show. Quello che si comincia a vedere oggi nel mondo della pubblicità è un matrimonio felice fra il mondo delle supermodelle patinate e quello dei consumatori comuni, e in un mondo sempre più fatto di contenuti generati dagli utenti, con il desiderio di autenticità che cresce, gli uomini di marketing cercheranno di spingerci all’acquisto utilizzando persone sempre più carismatiche ma “comuni”. Se il sesso e la bellezza non vendono necessariamente i prodotti, perché sono così dominanti nel marketing e nella pubblicità? La risposta sta nei neuroni specchio; questo è il fenomeno che sta oggi alla base della maggior parte delle pubblicità. Il sesso nella pubblicità ha sempre a che fare con il soddisfacimento del desiderio, con l’impiantare dei sogni nel cervello dei consumatori.
Nel prossimo futuro la presenza del sesso nelle pubblicità continuerà ad aumentare su tutto il globo, diventando sempre più esplicita ed estrema, perché che riesca a farci acquistare o meno il sesso oggi è accessibile come mai in precedenza. Dato che siamo così sommersi di immagini di sesso, negli anni a venire i pubblicitari saranno costretti a combattere per avere la nostra attenzione alzando la posta con una sessualità sempre più esplicita. Fra un decennio la maggior parte di noi sarà desensibilizzata nei confronti del sesso nella pubblicità che non ci farà più nemmeno caso. Si potrebbe dire che il futuro del sesso nella pubblicità sarà quello di lanciare un viaggio nel nostro stesso cervello (il cervello ha l’iniziativa).

Quello che sta dietro questo assedio pubblicitario che gioca sulle nostre preferenze nascoste, i nostri desideri inconsci e i sogni irrazionali, e che esercita una così grande influenza sul nostro comportamento ogni giorno. Grazie alle tecniche di neuro-imaging ora possiamo capire meglio che cosa guida realmente il nostro comportamento, le nostre opinioni, la nostra preferenza etc..
In fin dei conti la scienza (quanto il marketing) esiste da quando ci sono stati essere umani che si sono interrogati sulle ragioni per cui ci comportiamo nel modo in cui ci comportiamo. La scienza è il fatto concreto, la parola finale.
Gran parte delle strategie di marketing, di pubblicità e di branding sono un gioco a tirare a indovinare; finora gli uomini del marketing e della pubblicità non hanno proprio saputo che cosa governi il nostro comportamento. Oggi, grazie agli esperimenti con le scansioni cerebrali, le aziende si stanno finalmente rendendo conto che c’è molto da imparare dalla scienza di neuromarketing. I neuroscienzati hanno studiato anche come il nostro cervello prende le decisioni su quanto siamo disposti a pagare per il prodotto. Indica un senso di piacere per una ricompensa prevista misto a un conflitto sull’acquistare oggetti tanto costosi, ma quando ai consumatori vengono mostrati gli stessi prodotti con un sconto significativo il segnale di “conflitto” diminuisce, mentre l’attivazione della ricompensa simultaneamente sale. Pochi studi di neuromarketing però potrebbero essere più sorprendenti di quello condotto agli inizi del 2007 (tramite FMRI ad esempio). La lezione più importante che le aziende hanno appreso dal neuromarketing è che i metodi di ricerca tradizionali, come chiedere ai consumatori perché acquistiamo un prodotto, catturano solo una parte minima dei processi cerebrali che sottendono le decisioni.
La nostra ossessione di acquistare e consumare non farà che aumentare, con il marketing che imparerà sempre più a indirizzarsi ai nostri desideri subconsci. Quando la pubblicità basata sulla paura fa meno perno sulle nostre angosce generalizzate e si concentra di più sulle nostre insicurezze, può essere una delle forme di promozione più persuasive e memorabili.
Si prevede che negli anni a venire si vedrà un numero crescente di operazioni di marketing basate sulla paura; perché quanto maggiore è lo stress a cui siamo sottoposti nel nostro mondo e quanto più crescono le nostre paure, tanto più cerchiamo delle fondamenta solide. Quanto più cerchiamo queste fondamenta solide, tanto più diventiamo dipendenti dalla dopamina; quanta più dopamina circola nel nostro cervello tanto più vogliamo cose (comprando).
Cosa ancora più importante, il fenomeno branding diventerà sempre più usato e comune perché i nostri cervelli sono fatti in modo da attribuire ai brand un significato quasi religioso e di conseguenza ci creiamo delle fedeltà immutabili ai brand. Quando trasformiamo qualcosa in un brand, il nostro cervello la percepisce come qualcosa di più speciale e di maggior valore di quello che è. In futuro le aziende abbracceranno sempre più i brand personali e creeranno personaggi reali per aumentare la loro esposizione e vendere di più. Il neuromarketing potrà solo ampliare il suo campo d’azione, anche se non sarà mai in grado di dirci esattamente dove sta nel nostro cervello il “pulsante dell’acquisto”, ci aiuterà a prevedere certe direzioni e certe tendenze che modificheranno la faccia e il destino, del commercio in tutto il mondo.

Domande da interrogazione

  1. Qual è il concetto di neuromarketing?
  2. Il neuromarketing è una disciplina che studia l'attività cerebrale e il comportamento d'acquisto dei consumatori.

  3. Come funziona la tecnica dell'FMRI nel neuromarketing?
  4. L'FMRI è una tecnica di scansione cerebrale che misura il flusso di sangue nelle diverse aree del cervello, permettendo di identificare quali regioni sono attive durante determinate attività o stimoli.

  5. Qual è il ruolo dei neuroni specchio nel comportamento d'acquisto?
  6. I neuroni specchio sono responsabili dell'imitazione e dell'empatia, influenzando il nostro comportamento d'acquisto attraverso la capacità di imitare gli altri e di provare empatia verso di loro.

  7. Cosa si intende per pubblicità subliminale?
  8. La pubblicità subliminale si riferisce a messaggi visivi o sonori che vengono trasmessi al di sotto del livello di percezione cosciente, influenzando il comportamento dei consumatori in modo subconscio.

  9. Qual è l'effetto dei rituali e delle superstizioni nel comportamento d'acquisto?
  10. I rituali e le superstizioni possono influenzare il comportamento d'acquisto creando un senso di controllo e familiarità, rendendo i prodotti più adesivi e suscitando un senso di comfort e appartenenza nei consumatori.

Domande e risposte